Eric Gobetti, I carnefici del Duce, Editori Laterza, Bari-Roma 2023
Nella recensione del mese scorso (Foto di classe senza ebrei, Biblion, 2022) ci si domandava come valutare, in termini numerici e culturali, la persistenza di personale fascista all’interno dell’amministrazione statale nel dopoguerra, cioè negli anni cruciali della fondazione della democrazia e della ricostruzione. Il tema, già di per sé “sensibile”, della permanenza nell’apparato dello Stato di docenti, magistrati, vertici militari e, più in generale, di personale della burocrazia del regime, diviene ancor più rilevante quando ci si occupa dell’atteggiamento delle istituzioni repubblicane rispetto alla persecuzione dei criminali di guerra italiani. O, per meglio dire, della mancata chiamata in giudizio dei responsabili dei crimini di guerra compiuti all’estero dai militari italiani negli anni del fascismo. Ricorda Eric Gobetti: nel «1954 gli ex partigiani in prigione per crimini di guerra sono circa il doppio degli ex fascisti» (p. 5), insomma un paradossale ribaltamento delle responsabilità. Molte le ragioni che concorrono nella scelta di rappresentare il fascismo come «una dittatura soft, poco repressiva e sostenuta da un consenso di massa» (p. 6), sottacendo le reali responsabilità del regime nelle guerre coloniali e nella Seconda guerra mondiale attribuendo, al contrario, responsabilità criminali a chi ha liberato il paese dai nazisti e dalla dittatura. La Guerra fredda e la posizione dell’Italia al confine tra Occidente ed Est europeo, la presenza di un grande partito comunista percepito come possibile minaccia, il bisogno per certi aspetti comprensibile di lasciarsi alle spalle una stagione drammatica e dolorosa contribuiscono alla rimozione del passato fascista. La necessità di pacificare il paese all’indomani della guerra civile, del resto, motiva l’amnistia togliattiana del giugno 1946 mentre la mancata epurazione sancisce l’impunità per la maggior parte dei responsabili fascisti, inquinando – come sottolineano alcuni tra i più lucidi osservatori (Joyce Lussu, solo per fare un nome) – il passaggio ad una sana e responsabile struttura democratica dello Stato. Nel contesto del blocco atlantico è, infine, «di primaria importanza costruire un fronte politico e sociale che includa alcuni dei protagonisti della stagione precedente» inequivocabilmente anticomunisti (pp. 5-6), sottraendoli al giudizio delle corti chiamate a valutare i crimini di guerra, in Italia e all’estero. L’atteggiamento rispetto a tali crimini e al comportamento delle forze militari italiane nei teatri di guerra in Europa e nelle colonie è, dunque, una sorta di cartina di tornasole circa gli aspetti più violenti e oscuri del fascismo e le modalità con cui la Repubblica ne ha trattato l’eredità. La questione non è, perciò, solo la decostruzione del mito dell’italiano “soldato buono” contro il “cattivo tedesco”, né di smontare la falsa rappresentazione di sé implicita nella definizione di “italiani brava gente”. Si tratta soprattutto di riportare al centro del discorso pubblico alcuni elementi di verità del nostro passato coloniale e fascista, sapendo che «la storia, nonostante il suo dolore straziante, non può essere cancellata ma, se affrontata con coraggio, non dev’essere vissuta di nuovo» (Maya Angelou, in epigrafe). Il volume di Gobetti affronta, dunque, con chiarezza il nodo irrisolto che incombe pesantemente su ogni dibattito che riguardi il passato del nostro paese, lasciando sullo sfondo le grandi questioni di politica internazionale che pure rappresentano le ragioni intrinseche che suggeriscono agli Alleati di servirsi, spesso in modo poco limpido, di personale ex fascista in funzione anticomunista, per concentrare invece lo sguardo sulle vicende italiane.
La storiografia ha molto faticato nel ricostruire un racconto più veritiero delle occupazioni italiane nelle colonie africane (Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia), nei territori europei sul fronte orientale (Jugoslavia, Montenegro, Albania, Grecia) e nelle zone occupate dell’Unione Sovietica (soprattutto Ucraina) dove, prima della drammatica ritirata, l’esercito italiano non si differenzia dalle truppe tedesche per le modalità di invasione e occupazione. Oggi, grazie a numerosi storici, tra cui va ricordato Angelo Del Boca, pioniere degli studi sull’occupazione in Africa Orientale, è possibile ricostruire un quadro abbastanza preciso circa le modalità, gli obiettivi, gli esiti della politica fascista di occupazione: è un quadro, non è superfluo sottolinearlo, drammatico e di estrema gravità, che Gobetti qui ripercorre con precisione. Nulla è risparmiato alle popolazioni autoctone africane ed europee: repressione feroce, uso indiscriminato di gas tossici, fucilazioni di massa, rastrellamenti, razzie, incendi di interi villaggi, deportazione degli abitanti. Al crescere dei movimenti di resistenza nei territori occupati, la reazione italiana assume tratti sempre più feroci, non diversi da quelli nazisti in Italia tra il 1943 e il 1945. Ciò che guida e caratterizza le occupazioni italiane è l’adesione delle alte gerarchie militari – ma anche di una parte consistente dei soldati – ad un sistema di valori che individua nella violenza la sua ragion d’essere, come è evidente sin dai primordi del fascismo, che la usa, la legittima, la considera strumento e fine. Due decenni d’intensa propaganda influenzano pesantemente la percezione di ciò che è ritenuto lecito, sia da parte dei militari che dei civili. Nel 1937 ad Addis Abeba, all’indomani dell’attentato a Rodolfo Graziani, accanto alla ferocissima repressione militare, i cittadini italiani, i commercianti, gli impiegati, gli artigiani (tutta “brava gente”) si abbandonano a violenze sconvolgenti. L’intera società coloniale si scatena in un autentico «pogrom che colpisce chiunque abbia la pelle scura»: un quinto degli abitanti africani della capitale viene ucciso, circa 19.000 persone (pp. 111-112). Alla violenza intrinseca del fascismo si somma il razzismo: sin dalle avventure coloniali di fine Ottocento, serpeggia nella società italiana l’idea di appartenere in quanto europei ad una razza e ad una civiltà superiori, che considera dunque le popolazioni africane “inferiori”. Il colonialismo fascista rende ancora più esplicito e conseguente il razzismo, teorizzandolo e sistematizzandolo anche in patria allorché si rivolge agli ebrei e agli slavi i quali, pur se europei, sono percepiti e descritti come selvaggi, brutali, infidi. Dunque, violenza e razzismo si sommano in una miscela che rende possibile ogni efferatezza. Sono gli alti comandi dell’esercito e lo stesso Mussolini a sottolineare come la «leggenda del buon italiano debba essere estirpata»; chi, a casa, è un buon padre di famiglia «qui [in Albania] non sarà mai abbastanza ladro, assassino e stupratore» (p. 70). I numeri, pur parziali e relativi solo ad alcuni territori, sono eloquenti: circa tremila civili uccisi in Slovenia, 75.000 patrioti e 110.000 civili in Etiopia, un abitante su cinque in Libia. In termini più generali, le stime parlano di 250.000 jugoslavi, 100.000 greci, 500.000 etiopi e 100.000 libici vittime dirette e indirette dei crimini di guerra italiani. Le Convenzioni internazionali che, timidamente, cercano di stabilire delle regole nella conduzione delle guerre, soprattutto in relazione alla salvaguardia dei civili, sono per larga parte delle forze di occupazione italiane, letteralmente, carta straccia
Chi sono i responsabili? Sarebbe facile rispondere “tutti”, eludendo così precise responsabilità individuali. Certo, l’ideologia violenta del fascismo accomuna alte gerarchie ed esecutori, ma non vi è dubbio che chi impartisce gli ordini se ne debba assumere la responsabilità. L’esercizio della violenza è, nell’esercito italiano del ventennio, un ottimo strumento per fare carriera. Chi, nelle colonie, si è maggiormente distinto per repressioni particolarmente dure ed efferate, ottiene incarichi prestigiosi e avanzamenti importanti. I carnefici del Duce sono dunque molti, ma qui ricordiamo solo alcuni di loro, tra i più alti in grado. Alessandro Pirzio Biroli, generale, si distingue in Etiopia per fucilazioni, impiccagioni pubbliche e uso di armi chimiche; in seguito è il responsabile dei durissimi rastrellamenti in Montenegro di cui è governatore e teorizza rappresaglie con proporzione di uno a cinquanta. Nel 1944, Badoglio lo incarica di presiedere una commissione con il compito di valutare la degradazione dei responsabili di crimini di guerra, crimini per i quali è egli stesso ricercato dalla Commissione delle Nazioni Unite: non viene mai estradato né processato e aderisce al MSI sin dalla sua fondazione. Mario Roatta, generale, lo sconfitto di Guadalajara, battuto dai combattenti antifascisti italiani che si sono uniti alle Brigate internazionali, comandante dell’esercito della provincia di Lubiana, autore della Circolare C, un “manuale d’istruzioni” per occupanti che prevede rappresaglie, incendi di villaggi, esecuzioni sommarie, deportazione in campi di concentramento. È Capo di stato maggiore nel governo Badoglio, ordina la repressione violenta di ogni manifestazione di giubilo per la caduta del regime nel luglio del 1943. Imputato per crimini di guerra per i quali la Jugoslavia chiede l’estradizione, viene processato solo per la mancata difesa di Roma. Tuttavia, aiutato dal generale Taddeo Orlando, suo subalterno in Croazia, fugge dall’ospedale militare in cui si trova poco prima della sentenza che lo condanna all’ergastolo, sentenza annullata dalla Cassazione nel 1948. Vive tranquillo nella Spagna franchista fino al rientro in Italia nel 1966. Mario Robotti, uomo mediocre e cinico che scala la gerarchia fino a diventare generale, comandante delle truppe in Slovenia, si contraddistingue per la «brutalità nell’eseguire gli ordini repressivi» (p. 83). Dopo l’armistizio scappa e si rifugia nella sua casa di Rapallo, dove vive tranquillo fino alla morte nel 1955. Per non parlare, in ultimo, del fin troppo noto Rodolfo Graziani, il cui elenco di efferatezze è troppo lungo per essere riportato qui. Mai processato per crimini di guerra, nonostante sia presente nella lista delle Nazioni Unite, diviene presidente onorario del MSI. Nel 2012, con un atto inqualificabile, l’amministrazione comunale del suo paese natale gli dedica un monumento indicandolo come “esempio per i giovani”.
Nessuno di questi esponenti dell’esercito verrà mai condannato, né tantomeno estradato in Jugoslavia (come previsto dal Trattato di Pace del 10 febbraio 1947), paese che stila ed invia all’Italia un elenco di 750 militari ritenuti responsabili di crimini di guerra. Molti esponenti dei gradi più bassi resteranno tranquillamente al loro posto e saranno integrati nelle istituzioni della Repubblica. Se in Germania e in Giappone, le due potenze alleate dell’Italia fascista, a partire dagli anni Novanta è stato avviato un percorso culturale di riconoscimento delle responsabilità criminali – pur con notevoli chiaroscuri, soprattutto in Giappone – in Italia questo non è avvenuto. Al contrario, la caduta dei regimi comunisti in Europa orientale ha spinto a enfatizzare le responsabilità storiche del “socialismo reale”, equiparando di fatto comunismo e nazismo e sollecitando una generica pietas verso i morti senza distinguere tra vittime e carnefici.
Lo sforzo costante di evidenziare la sostanziale estraneità delle forze armate italiane alle crudeltà e nefandezze che vengono attribuite loro, spostando colpe e responsabilità sui resistenti e sulle popolazioni dei territori occupati, caratterizza la narrazione ufficiale e la strategia difensiva adottata dai militari e dalle istituzioni sin dagli anni immediatamente successivi alla guerra. Eventuali “eccessi” nelle azioni di difesa sarebbero quindi da imputarsi, secondo questa vulgata, alle popolazioni invase dirottando così la “colpa” sui partigiani, i comunisti, gli slavi, gli oppositori. Nel tempo, complice l’impunità e il sostanziale silenzio che pesa su quelle drammatiche vicende, s’impone dunque nel nostro paese una narrazione tossica che altera la realtà rendendo gli italiani ignari e apparentemente inconsapevoli del proprio passato, per quanto doloroso esso sia. Prendere atto, finalmente, di ciò che ha significato l’occupazione fascista è, dunque, un passaggio ineludibile affinché l’intero paese riconosca nel fascismo il modello politico che ha prodotto quei crimini in quanto sistema ideologico di per sé criminale. Perseverare nella rimozione del trauma violento che ha colpito l’intera società italiana durante il fascismo ci espone al rischio drammatico di non saper riconoscere e gestire le conseguenze di ideologie razziste e violente che affollano il nostro presente. Riprendere i fili di quelle vicende, infine, consente di mettere in luce anche la condizione di chi, in quel contesto gerarchico e violento, ha compiuto scelte diverse: dai semplici gesti di aiuto o compassione verso le vittime alla decisione di combattere nelle formazioni partigiane contro fascisti e nazisti. Il volume di Gobettti, in conclusione, è uno strumento prezioso, un testo da cui partire per promuovere la conoscenza di ciò che è stato, un libro doloroso ma importante, che va letto sino in fondo.
di Paola Signorino