Annalisa Cuzzocrea, E non scappare mai. Miriam Mafai, i segreti e le lotte nella tempesta della Storia, Rizzoli, Milano 2025
Per molte donne della mia generazione Miriam Mafai è stata una presenza familiare, non solo perché una delle voci più note del giornalismo progressista italiano, ma forse e soprattutto per la sua capacità di essere – senza nessuna velleità pedagogica – un modello di emancipazione. La sua storia di antifascista e resistente, di militante comunista capace di essere funzionaria di partito senza perdere autonomia di pensiero, la sua bravura come scrittrice (come non ricordare almeno Pane Nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale e Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l’URSS), la sua stessa figura, austera ma sempre rallegrata dall’irresistibile risata e dalla pungente ironia, l’hanno resa una presenza vicina, spigolosa sì, ma mai respingente. Miriam Mafai, nel suo essere “speciale” è stata, per molti aspetti, una donna del tutto simile alle nostre madri, delle quali ci offriva una chiave di decifrazione. Donne che, nate e cresciute durante la guerra, mai hanno smesso di lavorare, di essere militanti, sindacaliste, con un senso profondo degli affetti vissuti senza troppe smancerie, sia nei confronti dei figli, sia nei confronti dei compagni di vita. Donne, ancora, che si sono formate politicamente nell’antifascismo e nella Resistenza e che, nell’Italia della ricostruzione democratica, hanno speso la vita nelle fabbriche, nei partiti, nei sindacati, nelle istituzioni, nei giornali, nelle case editrici; donne che, come recita la dedica dell’autrice, «hanno riempito le case di libri». Sempre di corsa, non si sono mai risparmiate, mai hanno rinunciato alla battaglia, all’ironia, alle risate (e alle sfuriate epocali), agli affetti, alla curiosità e al bisogno continuo di conoscenza e di sapere, portatrici di un femminismo sostanziale, poco appariscente ma capace di grande ostinazione. Miriam Mafai era parte del nostro orizzonte famigliare, lo era il suo modo di vestire, la sua concretezza, il vezzo – l’unico – di un po’ di rossetto, la sua rubrica di posta con le lettrici sul femminile Grazia negli anni in cui fu diretto dalla bravissima Carla Vanni, il suo legame infine con Giancarlo Pajetta, il partigiano Nullo, l’irascibile amatissimo dirigente del PCI – il più giovane della “vecchia guardia”. Il libro di Annalisa Cuzzocrea arriva dunque come un catalizzatore in grado di riportare in primo piano le fondamenta della formazione politica e sentimentale di una generazione, un potente richiamo al pragmatismo ricolmo di ideali e di amore che le nostre madri – quelle di “sangue”, e quelle che abbiamo riconosciuto come tali – ci hanno consegnato con una preziosa, ruvida complicità.
È la stessa autrice a sottolineare come il libro su Mafai non è «la biografia di Miriam, è il romanzo della sua vita» (p. 265), ricostruito sulla base delle sue lettere, carte, segreti raccolti in una scatola che i figli Sara e Luciano le affidano. Un lungo percorso alla ricerca della voce più intima di una donna «che nascondeva una ferita senza darlo a vedere mai. E che quella ferita ha tenuto segreta fino all’ultimo»: anche per Miriam è esistito quel pozzo di dolore e solitudine descritto magistralmente da Natalia Ginzburg. Ma anche in questo, nel bisogno di non rivelare il dolore, di non dover necessariamente condividere, analizzare, spiegare agli altri le ferite più brucianti, Mafai incarna un’educazione sentimentale e politica in cui la riservatezza è uno spazio inalienabile in ogni rapporto. Alla figlia Sara che le fa domande insistenti (e legittime), risponde: «penso che ci siano cose che una madre e una figlia possono fare a meno di dirsi. E che non ti serve conoscere i miei errori per non ripeterli» (p. 140). È un’affermazione dura, ma è al contempo un patto di mutuo rispetto, in un rapporto che alle soglie della maturità di una e della vecchiaia dell’altra, si scioglierà in una tenerezza nuova (p. 248). È proprio la riflessione sul ruolo delle madri che rivela la coerenza di Miriam, in grado di non farsi fagocitare dalla retorica del materno offrendone una definizione sana, oggi quanto mai necessaria: «una madre forte, non per forza affettuosa, magari anche un po’ distratta, ma capace di infondere il gusto per la vita, per il combattimento, per il non stare al proprio posto. (…) io credo nelle madri che dicono: “Figlia mia, va”» (p. 227).
Miriam, Simona e Giulia, le figlie di Antonietta Raphaël e Mario Mafai, crescono in una famiglia particolare, in cui il sincretismo culturale e intellettuale sono di casa. L’ebraismo ne è una delle tante componenti, non certo la più rilevante; le leggi razziali del 1938, però, obbligano a prendere atto di una dolorosissima esclusione. Ma è l’antifascismo la cifra della famiglia, tanto che in occasione della visita di Hitler a Roma, Mario Mafai carica moglie e figlie in macchina per andare a passare la notte ad Anzio: «I Mafai non dormiranno mai sotto lo stesso cielo di Adolf Hitler!» (p. 36). L’antifascismo spinge Miriam nelle file della Resistenza romana, alla militanza nel Partito Comunista Italiano, di cui diventa funzionaria sin dalla liberazione della capitale. In questo ruolo guida alcune tra le battaglie più importanti del dopoguerra, soprattutto la lotta per la riforma agraria nel Fucino, nelle terre dei Torlonia: una vittoria sempre rivendicata da Miriam, che ne sottolinea il valore anche quando quegli stessi contadini finiranno con il votare per la Democrazia Cristiana. Dopo una tappa milanese come insegnate in una scuola del partito, a Parigi – dove segue il marito Umberto Scalia, anch’egli funzionario del PCI, uomo che fatica molto ad accettare la spinta di autonomia della moglie – trova la sua vera strada: il giornalismo. Sollecitata da Maria Antonietta Maciocchi (di nuovo, un’altra donna ormai dimenticata!), inizia a collaborare al periodico Vie Nuove, passando poi a L’Unità. Nel 1956 lascia gli incarichi di partito, senza tuttavia allontanarsi dal PCI, del quale riconosce gli enormi errori ma di cui sottolinea sempre le altrettanto enormi potenzialità, iniziando presto, peraltro, a nutrire dubbi nei confronti dell’URSS. In quegli anni si butta a capofitto nella raccolta di firme contro la proliferazione nucleare. Ma Miriam non è una pacifista, e lo dice a chiare lettere: «chi ha vissuto la Seconda guerra mondiale come me non può esserlo, senza la lotta armata, senza le armi, senza gli eserciti non ci saremmo liberati né del fascismo né del nazismo» (p. 118). Direttrice di Noi Donne tra il 1964 e il 1969, porta nel periodico dell’UDI una fortissima carica di rinnovamento con reportage dal Vietnam, dal Medio Oriente, anticipando le battaglie future sul divorzio e sull’aborto. Arriva a progettare un’inchiesta «sul maschio di sinistra, anche lui un “marito padrone e per di più un pessimo amante”» (p. 180), ma è troppo anche per l’UDI che propone di affiancarle un comitato di garanti. Miriam risponde un cortese “no, grazie” e accetta la proposta di Paese Sera come inviata parlamentare. A metà degli anni Settanta, la svolta: chiamata da Eugenio Scalfari, partecipa con grande entusiasmo alla nascita del quotidiano la Repubblica, su cui scrive fino alla sua scomparsa, nel 2012. Miriam, che «desiderava la bufera come una poesia di Achmatova, come i biglietti d’amore in tribuna stampa a Montecitorio, come le lotte per i diritti delle donne fatte dentro e contro il partito, come il Novecento che ha attraversato correndo, senza mai farsi travolgere dalla nostalgia» (p. 31), intreccia in questa cornice vorticosa di lavoro, politica, impegni, curiosità, la sfera fondamentale degli affetti. Il matrimonio, l’amore, la maternità, il rapporto con le sorelle, con le amiche, il legame non sempre facile con la madre e con il padre, la morte – quella di Nullo, soprattutto, che segna un nuovo doloroso spartiacque. E tuttavia, Miriam mantiene fortissima la sua lucida capacità di analisi, non smette mai – neppure alla fine della sua vita – di riflettere su ciò che ha rappresentato l’esperienza politica novecentesca e la sua eredità. In uno degli ultimi messaggi scambiati con la sorella Simona, sottolinea come trovi particolarmente convincente una riflessione di Manuel Cruz: «Ciò che sembra entrato in profonda crisi è qualcosa che potremo definire passione per il futuro. Tale crisi ha a che fare con il fallimento di una determinata prospettiva storica, con l’affossamento di uno dei progetti di trasformazione sociale più vigorosi mai esistiti nella storia dell’umanità. Ma il fallimento di un’alternativa, per quanto grandi fossero le speranze in essa riposte, non equivale certo alla sconfitta di ogni possibilità». E aggiunge: «Come affermare come faccio io che “la storia ti dice chi ha vinto e chi ha perso, non ti dice chi aveva ragione”. O sbaglio?».
Il racconto di Annalisa Cuzzocrea commuove, diverte, si fa pensieroso, tocca corde che vibrano fino alle lacrime, soprattutto in alcune pagine magistrali sui funerali di Berlinguer, sul dolore e lo sgomento di Pajetta nei giorni finali del PCI e, con una tenerezza sconfinata, sugli stessi ultimi giorni di Miriam. Soprattutto l’autrice riesce far dialogare la storia di Mafai con le domande di ognuna di noi, in uno scambio che oltrepassa il tempo e in cui le esortazioni di Mafai tornano ad essere il nostro presente. Scrive Miriam l’otto marzo del 2011, in una sorta di patto amorevole tra generazioni: «corri bambina, corri tu che hai buona la testa, le gambe e il cuore. Noi della generazione che è venuta prima di te, una generazione che si è impegnata nella corsa, che spesso ha vinto, che più spesso ha perso, ti daremo una mano, se ce la chiederai. Ma devi sapere che hai diritto a una corsa non truccata» (pp. 261-262). Ha sempre corso Miriam, «via dalle bombe, dal dolore, dagli uomini sbagliati e dalle scelte rinunciatarie» ma, proprio come le aveva chiesto Nullo in un bigliettino scritto mentre l’uomo sbarcava sulla Luna, non è scappata mai.
di Paola Signorino