Aldo Carpi, Diario di Gusen. Lettere a Maria (Garzanti, 1971) [1]
Ricordo bene quando mio padre mi fece conoscere il libro di Carpi. Avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo e cercavo qualche altro documento che mi fornisse ulteriori elementi per cercare di capire fino a che punto può spingersi un uomo, fin dove può arrivare la violenza, la brutalità, la perversione… Curiosavo nella sua biblioteca e me lo trovai alle spalle, con quel libro in mano, pieno di post-it e, come scoprii ben presto, usurato dalle sue annotazioni (il suo modo di possedere i libri). “Pensavo di suggerirti La notte di Elie Wiesel, ma poi ho pensato che fosse un testo troppo difficile per te. Comincia con questo; lo ha scritto un buon amico del nonno Augusto, che frequentava la nostra casa e che ho potuto conoscere e frequentare per tanti anni”. Molti anni dopo, nelle sue memorie, ho scoperto che mio padre lo recensì – parole sue – “sul finire del 71, su una rivista romana che si chiamava La Nuova Tribuna. Carpi ne fu così contento che nei vari cataloghi alle sue mostre e nelle monografie volle sempre mettere in bibliografia quel lontano scritto intitolato Gli orrori del lager nel racconto di un artista”.
Sono 249 pagine (di cui 75 a disegni), arricchite da una introduzione del critico Mario De Micheli, profonda e meticolosa, che ci catapulta in quel mondo fuori dal mondo che fu anche il campo di Gusen, un sottocampo del lager di Mauthausen, uno dei tanti orrori dell’universo concentrazionario messo in piedi da Terzo Reich e dai suoi accoliti, da cui si salvò solo il 2% dei deportati.
«A leggere le pagine di questo diario si avverte sin dall’inizio la ripugnanza di Carpi a dover riconoscere la presenza attiva del male nel cuore dei propri simili, a dover ammettere che gli uomini sono diventati capaci di organizzare premeditatamente e razionalmente il delitto di massa […]. E di qui la fermissima energia della sua fede nelle qualità dell’uomo a dispetto di tutte le prove contrarie […]. Le pagine di Carpi recano il segno della lotta costante per mantenersi in ogni momento al livello della propria coscienza, a livello d’uomo, contro il tentativo di distruggere nell’uomo ogni indizio della propria immagine intellettuale e morale».
La struttura del libro è particolare, perché le lettere alla moglie Maria sono inframmezzate sia dagli appunti del suo diario di prigionia (stilato anche dopo l’arrivo delle truppe americane), sia dai ricordi emersi durante una lunga intervista rilasciata al figlio Pinin, quando Carpi decise che quella sua terribile esperienza non poteva rimanere sepolta, ma doveva essere diffusa e pubblicata (la prima edizione del volume risale al 1971). Ci vollero venticinque anni perché Carpi riprendesse in mano quei fogliettini di carta, che era riuscito a nascondere in un sottofondo del pavimento, piccoli fogli che lo avevano tenuto ancorato alla sua dignità di uomo, impedendogli di sprofondare nella disumanità di cui era stato testimone da quando aveva mosso i primi passi prima a Mauthausen, e poi a Gusen.
Dal giorno del suo arresto (il 23 gennaio 1944, nella sua casa di Mondonico, in Brianza, su segnalazione dell’immancabile delatore) erano passati circa quattro mesi: il primo mese, in cella a San Vittore, Carpi lo passa relativamente bene fino a quando non si rende conto che la situazione sta precipitando. Il suo ricordo è nitido, identico a quello vissuto in prima persona da Liliana Segre:
«Durante la mia permanenza a San Vittore è partita una colonna di ebrei, lunga, molto lunga, e in testa alla colonna c’era una donna anziana su una barella, seduta su una poltrona ad alto schienale; la portavano via su una poltrona e avanzava davanti a tutti come una specie di trofeo. E, dietro, tutti gli altri: c’erano donne, c’erano bambine e bambini, anche piccoli, e c’era una donna che aveva partorito, credo, in carcere, e aveva un bambino proprio di pochi giorni. Tanto per dire una cosa strana, c’erano due giovani soldati tedeschi che piangevano, specialmente per quei bambini piccoli che non capivano niente di quanto accadeva».
Di soldati tedeschi che piangevano (perché consapevoli del crimine di cui erano complici) Carpi non ne avrebbe incontrati più nei mesi successivi, quando – su un vagone piombato – avrebbe lasciato Milano destinazione Mauthausen. Il passaggio da una prigionia normale (a San Vittore non viene torturato, ma solo interrogato) al lager è uno shock. Per Carpi, abituato al paesaggio collinare padano, lo scenario del campo è un pugno allo stomaco, anzi, un nodo alla gola perché presto, varcato il portone di ferro, si rende conto che lì, in quel mondo fuori dal mondo, l’umanità viene cancellata ogni giorno. La morte è sempre dietro l’angolo, in agguato, nel bastone di un Kapò, nello sguardo di un aguzzino SS, in quel camino che incessantemente riempie l’aria di una coltre e di un odore ossessionante di carne umana. E poi ci sono loro, i prigionieri.
«Quando siamo arrivati al campo e siamo entrati, pareva un po’ come entrare nella porta dell’inferno […]. Ricordo che han fatto scendere con noi un gruppo di Muselmann, come noi li avremmo chiamati dopo, che erano gli uomini mummia, i morti vivi; e li ha fatto scendere insieme a noi per farceli vedere, perché ci facessimo subito un’idea del lager, come a dirci: diventerete così».
I Muselman… Sono loro che diventano l’oggetto incessante dei suoi ricordi, ma soprattutto dei suoi disegni: sono corpi scheletrici e denutriti, figure disincarnate, larvali, parvenze d’uomo, con i volti assenti, allucinati, smarriti, al limite delle forze. E poi i cadaveri, le baracche, i tralicci con il filo spinato: ecco la terribile materia che Carpi in poche linee, con la sua matita inarrestabile, riesce a collocare fissa nel tempo, senza rendersi conto che quei piccoli figli sarebbero diventati, insieme ad altri libri sull’Olocausto, una straordinaria testimonianza, anche per immagini, di quella immane tragedia.
Come sia riuscito a salvarsi un uomo come lui rimane quasi un mistero. Possiamo dire che Carpi sia un privilegiato, sembra assurdo, ma è così. Quando arriva a Mauthausen, nel febbraio del 1944, ha 58 anni (era nato a Milano nel 1886). Nonostante la sua età, però, non viene selezionato per il Bahnhof, la zona del Blocco 31 dove si facevano le famose “disinfezioni” (il cosiddetto “bagno” dove si usava lo zyklon B per gasare i deportati), ma riesce a superare la visita medica dichiarandosi abile al lavoro. Un lavoro massacrante alla cava (il trasporto ripetitivo e inutile di enormi sassi per sfibrare di fatica ogni individuo), dove però Carpi, oltre alla violenza gratuita, conosce anche la solidarietà dei compagni, in particolare quella di un contadino di Saronno, Luigi Caronni.
«Il lavoro era vario, alle volte si caricavano pietre, altre volte dovevamo fare sterramenti. Quando si lavorava alla terra, dopo un po’ il badile mi girava nelle mani e allora il Caronni mi diceva: Professur, el staga davanti a mì, el faga finta de lavoraa».
Per quanto possa essere difeso e aiutato dai compagni, però, il lavoro a cui è sottoposto è logorante, sfibrante, letale. Dopo solo pochi giorni, Carpi comincia a sentire una stanchezza da non stare più in piedi e riesce a farsi ricoverare. È il suo colpo di fortuna: un medico polacco, il dottor Felix Kaminski, scopre che è un artista e fa girare la voce che nel campo c’è un pittore. Da quel momento il suo lavoro diventa quello di dipingere per le SS: e anche se è un lavoro ripetitivo (“mi invento paesi, scene, marine e faccio ritratti da fotografie”), un lavoro di cui non sente il valore (“ho sempre l’impressione di non essere pittore, di non esserlo più”), non solo resta al caldo, ma soprattutto viene ripagato con una razione extra di cibo, una pagnotta, un po’ di latte, persino qualche sigaro.
Non è solo la pittura a tenerlo in vita: le lettere alla moglie sono in inno alla vita, grazie alla fede, grazie a Dio. Come specifica nella lettera del 28 febbraio 1945:
«Nella preghiera non sono prigioniero e non sento desiderio di libertà materiale: il mio spirito libero è con voi […]. Non ho mai sentito disperazione: sempre calma, speranza, sguardo in alto e lontano. Due certezze sono subito al di là della sottile parete, Dio e voi».
La “sottile parete” è quella che lo separa dal male assoluto che incombe a Gusen, una crudeltà e una ferocia di cui anche Carpi, sia pure solo di riflesso, è testimone. Attraverso quella “sottile parete” Carpi percepisce le continue perquisizioni che si svolgono nel campo (e che aumentano improvvisamente pochi giorni prima dell’arrivo degli Alleati), le aggressioni, le punizioni, le esecuzioni sommarie “dei miseri massacrati a colpi di mazza e di bastone al di là del nostro muro […] nel grande silenzio che ascolta”. È significativo quello che scrive nella lettera del 27 maggio del 1945, quando gli americani sono già a Gusen, e hanno chiuso definitivamente il Bahnhof del Blocco 31, quello che in sostanza era una stazione di transito per l’altro mondo.
«Qui sono morti padri e figli insieme: talora senza sapere l’uno dell’altro, talora in presenza l’uno dell’altro Vigevano sistemi che si usavano un tempo per gli schiavi. Sistemi riscoperti e con gioia approvati da Hitler, Himmler e dai loro, e riapplicati. Essi trovarono giusto il crematorio che riduce velocemente a nulla, trovarono giusto gettare le ceneri nell’immondezzaio coi resti carbonizzati, trovarono altresì giusto far accorrere più uomini possibile alla conclusione annullatrice del crematorio. Se l’uomo è cenere dopo, è cenere anche prima: perciò distruggerne tanti non è un male ed è nulla anche farli soffrire e il bastonarli a morte».
Pur cercando di rincuorare la moglie, nelle sue lettere Carpi non nasconde che la sua condizione di “privilegiato” non garantisce la sua incolumità, perché a Gusen un solo gesto, una risposta mancata, un movimento imprevisto può rovinarti per sempre e farti precipitare nell’abisso.
«È necessario che ogni giorno sia presente e chiaro nella nostra mente questa realtà. “Tu sei in prigione”. Non devi mai dimenticarlo, perché è il metro su cui devi misurare ogni tuo movimento, ogni tua espressione. Non che io conduca un’esistenza da galeotto, dato che la mia vita qui è semplice e buona, ma devo essere sempre vigilante perché il nemico, ossia il pericolo, può giungere ogni minuto. Così illuderti d’essere diventato qualcosa, dimenticare i segni che ben palesi porti, potrebbe esserti fatale. Perciò ricordati, o pittore, che numero porti qui ora, legato al polso sinistro, e ricordati i camerati che vedi passare col numero scritto sul petto: tu sei come loro, ad ogni momento puoi diventare come loro e mentre li guardi puoi essere anche tu vicino alla tua meta».
C’è un punto, in questo diario intimo e angosciante, in cui Carpi sembra perdere la sua fede nei propri simili (“più e più vedo l’inanità umana, la bestialità immanente e il dolore senza limite”) e si appella all’aiuto del Signore, quello del Vecchio Testamento (“fa che il nostro nemico non abbia il tempo di attuare i suoi disegni perversi, fa che l’odio che nutrono diventi bava di rabbia e li soffochi”). Sono i giorni in cui il campo è attraversato da voci che si smentiscono continuamente (“un’ora di speranza e sollievo e dieci, quindici giorni di oppressione al cuore”). Sono giorni difficili, dove il tempo non passa mai, ogni minuto ti si attacca addosso, squarciato solo dalle urla e dai lamenti.
«Così si arriva alla notte tra il 21 e il 22 aprile, alla notizia della Vergasung, all’uccisione col gas degli inabili al lavoro e dei malati gravi, al massacro preannunciato per tutti, ai trasporti misteriosi di centinaia di compagni, di cui poi non si sapeva più nulla […]. Quella notte ero a letto e sentii tutto un sussurrare di ordini nel buio. E poi grida, gemiti, voci lamentose e ordini di muoversi, di far presto […]. Al mattino andai alla finestra e vidi tirar fuori dalla porticina della cameretta centinaia di morti che venivano buttati là, l’uno sull’altro».
Nonostante tutto l’orrore, nonostante quel senso di morte incombente (“vidi un morto ieri; era solo, disteso sul pavimento della stanza vuota, e Cristo moriva con lui”), Carpi trova comunque la forza per appellarsi alla speranza in un futuro diverso, un futuro che immagina nella lettera del 18 marzo 1945, lasciando sulla carta un messaggio universale che sembra scalfito – purtroppo – dalla cronaca di questi tristi nostri giorni.
«Quando usciremo sarà l’inizio di una nuova era nel mondo, perché tutto quello che c’era prima sarà cambiato, gli uomini saranno nuovi e le necessità inderogabili porteranno nuove leggi, nuove forme di convivenza e di possesso tra gli uomini. Molti soffriranno ancora, aggiungeranno nuove sofferenze alle vecchie. Ma sarà necessario perché il ritorno della pace possa mettere solide radici e durare, quale fonte di nuovo bene per l’umanità, che ritroverà il suo bene, quello per il quale è nata. «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato». È questa la via, ma non è semplice perché sono tanti gli uomini che non capiscono e non sentono. Chi può cammini, deve camminare e dimostrare coi fatti che ha bene inteso. Anche ciò è difficile perché spessissimo persino i fatti sono falsamente giudicati. Ma l’uomo di coscienza vede in sé stesso, e sa; così può marciare avanti».
[1] L’immagine di copertina è la cartellina dove Carpi ha collezionato appunti e disegni. La cartellina è stata confezionata con pezzi di cartone e strisce di stoffa strappati da una camicia e da un materasso di Gusen.
di Claudio A. Colombo