Michela Ponzani, Donne che resistono. Le Fosse Ardeatine dal massacro alla memoria 1944-2025, Einaudi, Torino, 2025
«Non dimenticatevi mai di chi siete figlie». Sono le parole di Lucia Zauli, moglie di Nicola Stame ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Lucia andò da sola a riconoscere il corpo del marito, per tenere lontane le figlie da quel luogo di morte, «obbligandole però anni dopo a partecipare alle udienze del processo Kappler per guardare in faccia» l’ufficiale cha aveva ordinato la strage, partecipando direttamente alle esecuzioni (p. 7). Sulle spalle di Lucia, di sua figlia Rosetta, delle centinaia di vedove, madri, sorelle, figlie dei fucilati, è ricaduta la pesantissima eredità del lutto e della memoria della strage più efferata compiuta dai nazifascisti in una città dell’Europa occidentale. Lutto e memoria che hanno avuto, e hanno ancora oggi, una duplice valenza, privata e pubblica. Il lutto privato di chi ha avuto gli affetti più cari strappati violentemente e si è trovato a dover ricostruire la propria esistenza sconvolta dalla morte. E il lutto pubblico di un paese che ha dovuto ricostruire tutto, dalle città alle istituzioni democratiche, dovendo fare i conti con l’eredità del regime fascista che di quelle distruzioni era stato il diretto responsabile. Le Fosse Ardeatine occupano uno spazio enorme nella nostra storia, sono un luogo fisico e simbolico ineludibile, intorno al quale si sono costruite narrazioni fondamentali nella definizione dell’identità della Repubblica. Narrazioni, va ricordato con forza, spesso messe in discussione proprio da quelle forze politiche che ancora oggi non riescono a dire parole chiare e definitive sul fascismo.
La storiografia ha ormai chiarito la sequenza degli avvenimenti tra il 23 e il 24 marzo 1944, così come chiarissime sono le sentenze dei tribunali della Repubblica nell’attribuire la responsabilità della strage ai nazifascisti. Da questi punti fermi emergono, com’è stato più volte evidenziato, alcune caratteristiche peculiari delle Fosse Ardeatine rispetto ad altre esecuzioni di massa compiute nei territori occupati dai nazisti in Europa. L’inesistenza di un automatismo inevitabile attentato/rappresaglia; l’unicità di una strage urbana in una delle capitali dell’Europa occidentale (prassi comune nei paesi slavi, si pensi all’eccidio di Babi Yaar a Kiev); la segretezza assoluta imposta prima, durante e dopo, addirittura minando e occultando le cave; la necessità di evitare “turbamenti” nell’opinione pubblica romana in una città tutt’altro che tranquilla, bombardata, affamata, percorsa da rastrellamenti, arresti, attività partigiane, delazioni. Infine, l’essere una strage di soli uomini con l’inevitabile conseguenza della costruzione e del tramandarsi di una memoria quasi esclusivamente femminile (si veda Lutz Klinkhammer e Alessando Portelli, La fiera delle falsità. Via Rasella, le Fosse Ardeatine, la distorsione della memoria, Donzelli Editore, Roma, 2024). Michela Ponzani prende di petto questo aspetto e, con un grande lavoro di ascolto e raccolta di testimonianze, ci porta nel cuore di questa memoria: «al centro della narrazione stanno dunque le memorie di donne che impararono a resistere» (p. 9). È un racconto doloroso, a tratti estremamente duro, ma necessario. Ponzani ripercorre, attraverso le parole delle donne che incontra nel corso del tempo e con le quali costruisce relazioni profonde, intime, in cui la confidenza diventa dolore condiviso, la lunga battaglia per la verità e la giustizia. Innanzi tutto la verità, perché sulle Fosse Ardeatine vi è una lunga scia di bugie, falsificazioni, vere e proprie “fake news” a partire dal commento dell’Osservatore Romano che, il giorno successivo alla strage, indica nei «colpevoli sfuggiti all’arresto» (cioè i partigiani) i veri responsabili morali dell’eccidio. Ci sono poi le note menzogne circa la composizione del battaglione Bozen (ampiamente operativo e non certo una banda di poveri anziani), cui si somma la ormai ampiamente smascherata falsa notizia del presunto manifesto che avrebbe invitato i responsabili di via Rasella a “presentarsi”. É una lunga sequela di manipolazioni dell’opinione pubblica che immediatamente si trasformano in falsa memoria. Falsità che purtroppo continuano ad essere veicolate, a volte persino dalle più alte cariche dello Stato, contribuendo a minare le fondamenta della Repubblica, insinuando dubbi sulla limpidezza dell’antifascismo. Attribuendo ai fucilati delle Ardeatine l’unico ruolo di «italiani vittime innocenti» si depotenzia la loro scelta antifascista, si nascondono le motivazioni del loro arresto e del loro inserimento nella famigerata “lista” di Kappler, così come si elude la presenza di decine di ebrei uccisi in quanto tali. Al contrario, riconoscere appieno il loro antifascismo obbliga ad abbandonare lo stereotipo vittimario, per assumere come paradigma fondante dell’identità repubblicana la comune battaglia per la democrazia, grazie alla «riscoperta di un nuovo senso del vivere, nel segno di una politica capace di trovare nella moralità la strada per ispirare la sua dimensione pubblica» (p. 11). Ricordatevi di chi siete figlie! comanda Lucia Zuini alle figlie: l’antifascismo non è un dettaglio, è sostanza e significato di una vita.
Insieme alla battaglia per la verità c’è necessariamente quella per la giustizia: anche questa ha bisogno di verità, e cioè che siano identificati e processati i responsabili, gli ideatori e gli esecutori tedeschi e italiani della strage. È una richiesta di giustizia e non di vendetta, attraverso il cammino della giustizia penale passa anche la capacità di non abbandonarsi all’odio. Molti dei famigliari scelgono di non voler guardare in faccia gli aguzzini, non certo per vigliaccheria che appartiene semmai agli imputati, quanto per sottrarsi al rischio di un odio velenoso. Per molti la scelta passa nel non volere conoscere il nome del traditore, della spia che ha fatto arrestare il proprio caro, anche per non cadere in una spirale, assolutamente umana, di rancore e odio personale. Ponzani ripercorre così le vicende processuali attraverso il racconto delle donne che decidono, con un atto di doloroso coraggio, di testimoniare in tribunale. É un percorso dilaniante, durante il quale si devono confrontare con la fredda arroganza di Kappler prima, e di Priebke poi. Verità e Giustizia: non è un caso che lo stesso binomio, la stessa volontà e la stessa forza animano – in un altro luogo, in un altro tempo – le donne argentine che combattono la battaglia per conoscere la sorte dei desaparecidos di quella stessa Argentina che, dal dopoguerra, ospita i criminali di guerra nazisti. Tra di loro, c’è proprio quel Priebke ritrovato a Bariloche, finalmente estradato e processato a Roma per le Fosse Ardeatine negli anni Novanta. Ed è l’ex ufficiale tuttora nazista che, protagonista di un episodio a margine delle udienze in cui crede che la televisione sia lì per lui e non per Maria Teresa Regard (partigiana, prigioniera in via Tasso, testimone al processo), mostra ancora una volta la sua ormai vana arroganza, strappando a Maria Teresa un pensiero forse sorprendente, ma certamente nettissimo: «a me che non sopportavo la sua vista perché mi ricordava gli orrori di via Tasso, per la prima volta, il boia Priebke mi si è rivelato come un vecchio rincoglionito» (p. 144). Non odio, dunque, e nemmeno un perdonismo inutile, ma giustizia.
Vi è infine il tema, anch’esso doloroso e complesso, del luogo fisico delle fosse. Anche in questo caso, memoria privata e pubblica s’intersecano. Le cave, poi divenute fosse, nell’immediato dopoguerra sono meta di un pellegrinaggio continuo, un via vai di donne con i figli al seguito che portano fiori, lumini, fotografie; donne che vanno a salutare i mariti, i fratelli, i figli ammazzati, a piangere, a cercare di comporre il dolore muto che le attraversa. «Noi siamo quelli che al sabato andavano alle Fosse», ricordano i figli. Da subito, tuttavia, sin dalla liberazione di Roma, le Ardeatine diventano lo spazio della memoria pubblica, dove la giovanissima democrazia decide di edificare un monumento ai martiri in un percorso che vede la partecipazione forte delle famiglie dei fucilati, soprattutto in merito alle modalità di sepoltura dei propri cari. Il dibattito che si sviluppa intorno alla progettazione del monumento svela il desiderio di fare delle Ardeatine il luogo fondante dell’identità repubblicana, una sorta di Vittoriano della Resistenza. Ciò che sembra testimoniare il monumento, tuttavia, è una narrazione della Resistenza, e una sua collocazione nella storia italiana, depotenziata dalla sua carica rivoluzionaria e ricondotta nell’alveo di un secondo Risorgimento, come del resto viene da subito definita la vicenda resistenziale. Una definizione, questa, che trova una consacrazione definitiva negli anni Sessanta, in particolare in occasione del centesimo anniversario dell’unificazione allorché emerge chiaramente che, «com’era stato per il Risorgimento, anche la Resistenza era chiamata a insegnare la nazione celebrando il dramma collettivo del popolo dei morti» (p. 97).
Figli di un dolore che non passa, di un dolore che si tramanda, testimoni del lutto delle loro madri, cresciuti nell’Italia del dopoguerra in cui sono stati spesso dimenticati, i figli delle Ardeatine sono diventati, nonostante tutto, staffette della memoria, ereditando i racconti delle madri e delle nonne. Oggi, spesso, sono i nipoti a farsi carico di un trauma famigliare che si perpetua e della responsabilità storica del ricordo, facendo sì che l’amore e il rimpianto per i propri famigliari possano continuare ad essere un valore civile. «Ci hanno seppellito, ma eravamo semi», dice lo striscione dei ragazzi di un collettivo romano, in un itinerario «che ha ripercorso tanti luoghi della città di Roma a ricordo della strage del 24 marzo 1944» (p. 156). Il silenzio che Kappler aveva imposto sull’eccidio doveva cancellare per sempre i morti. Ma in questo nostro paese, così contraddittorio e tragico, i nazisti sono stati sconfitti e il ricordo dei morti per la libertà può e deve farsi storia del nostro tempo, conclude Ponzani con un’immagine, nonostante tutto, di speranza.
di Paola Signorino