Francesco Filippi, Cinquecento anni di rabbia. Rivolte e mezzi di comunicazione da Gutenberg a Capitol Hill, Bollati Boringhieri, Torino 2024

Il volume di Francesco Filippi, uscito nel settembre del 2024, rappresenta una vera e propria boccata d’ossigeno per più ragioni. Dal punto di vista metodologico, recupera il paradigma della “lunga durata” mostrando, quindi, le radici di lungo periodo del nostro presente. C’è poi, dal punto di vista storiografico, la proposta di un’ipotesi forte: attraverso l’uso della comparazione come strumento conoscitivo, Filippi suggerisce un’efficace rilettura del lungo periodo  – i cinquecento anni del titolo – in cui si snoda la modernità dell’Occidente, inteso come dimensione geografico-politica (p. 143). L’autore pone in relazione due momenti fondanti della storia europea analizzando, da un lato, il rapporto tra emozioni, trasformazioni sociali e rivolte, dall’altro il contemporaneo emergere di nuove tecnologie relative alla comunicazione. I cinquecento anni che intercorrono tra le rivolte contadine del 1524-25 e “l’arrivo” di Internet rappresentano il tempo durante il quale gli strumenti di comunicazione di massa fanno la loro comparsa, si sviluppano e si consolidano. Se, dunque, la tecnologia che irrompe nel mondo contadino della Germania meridionale negli anni venti del XVI secolo è la stampa a caratteri mobili, l’emozione che viene veicolata è la rabbia: un sentimento universale, pre-politico, in grado di accomunare individui e comunità. Allo stesso modo, agli albori del XXI secolo Internet è lo strumento tecnologico che raccoglie e canalizza la rabbia contemporanea.

Nell’arco di questo mezzo millennio si snodano, anche per i mezzi di comunicazione, i tre momenti “classici” che segnano l’affermarsi di ogni nuova tecnologia: l’invenzione, la diffusione all’interno della società, il momento in cui ne diviene parte integrante (p. 9). Può accadere, tuttavia, che tra la propagazione del mezzo e la sua presa di controllo da parte del potere che detiene il monopolio del “racconto pubblico”, via sia una sorta di spazio libero, non regolato (p. 18). Questo intervallo rappresenta uno spazio di possibilità, di alterità: il momento, cioè, in cui si rende possibile la costruzione e la diffusione di nuovi racconti che, in alcuni casi, prefigurano nuovi rapporti di potere.

La Bauernkrieg, la guerra dei contadini che tra il 1524 e il 1525 sconvolge molti territori della Germania, dalla Foresta Nera al Tirolo, s’inserisce nel contesto della Riforma protestante e delle trasformazioni socio-economiche che iniziano ad investire il mondo agricolo. La riduzione progressiva degli spazi comuni, via via erosi da nuovi ordinamenti più soddisfacenti per l’aristocrazia, rende sempre più precarie le condizioni dei contadini. Inevitabilmente il malcontento cresce, lievita, si diffonde; ma, anziché sfociare nelle classiche rivolte o jacqueries, grazie alla veloce diffusione di notizie e informazioni si organizza, produce materiali, richieste, documenti. La stampa, a questo punto, permette di condividere il nuovo racconto che scaturisce dalla rabbia degli uomini comuni. La velocità di comunicazione è garantita dall’enorme diffusione dei “fogli volanti”, volantini di semplice comprensione, spesso illustrati, che passano di mano in mano, di paese in paese, viaggiando insieme ai mercati, agli ambulanti, agli artigiani. La viralità – termine non casuale, mutuato dalla scienza – del messaggio si colloca nell’intervallo spazio-temporale in cui la nuova tecnologia sfugge al controllo del potere. Le istanze contadine non sono rivoluzionarie: ci si batte e ci si organizza per il ripristino delle tradizioni, degli usi civici erosi, di un trattamento più umano regolato dalle parole misericordiose delle Sacre Scritture. Il potere – l’aristocrazia tedesca – reagisce scatenando una guerra brutale, che vede la sconfitta e il massacro dei contadini (si parla di almeno centomila morti).

La Bauernkrieg non innesca una reale trasformazione economica ma cambia radicalmente il modo in cui il racconto pubblico viene costruito: da quel momento in poi l’Occidente non potrà più fare a meno della stampa e della comunicazione. Nei cinquecento anni successivi, dopo aver messo a punto gli strumenti di controllo (la censura) e dopo aver affinato la capacità di rafforzare racconti e contenuti coerenti, la stampa normalizzata diventa lo strumento indispensabile nella costruzione dell’Europa moderna. La nascita dei giornali, l’allargamento del mercato librario, la diffusione della lettura come attività individuale, il solco tra chi ha accesso all’informazione e chi non ha questa possibilità (con la classica dicotomia città/campagna) indica come la modernità sia intrinsecamente legata alla comunicazione e alla stampa. A questo mercato sono legati fenomeni altrimenti impensabili come la costruzione dell’identità borghese, delle identità nazionali nel processo di nation building, le Rivoluzioni inglese, americana e francese. Col trionfo della borghesia, e con la piena maturità della tecnologia, la stampa conferma il suo ruolo conservatore, di conferma delle identità e delle posizioni del potere dominante. Nel XX secolo, radio e televisione non scardinano lo schema, ma riorganizzano l’informazione seguendo il modello consolidato dei giornali. Emerge, invece, la passivizzazione del pubblico, non più chiamato ad un atto volontario quale è la lettura. Alla fine del secolo, il processo iniziato cinquecento anni prima è giunto ad una stabile maturità.

Agli albori del XXI secolo, la rivoluzione tecnologica di Internet sembra invece rimettere in discussione i cardini consolidati dell’informazione. Filippi ne analizza le caratteristiche e le implicazioni, sottolineando come nella prima fase la rete appaia come un ambito democratico e orizzontale, non regolamentato, privo di filtri e censure. Individuatene le peculiarità, tra cui l’evidente egemonia culturale statunitense, dimostra come il nuovo strumento sia funzionale alla canalizzazione e alla diffusione virale (di nuovo, termine non casuale) della rabbia della classe media americana bianca che, a causa della crisi economica, sta scivolando verso forme di povertà destabilizzanti. Come i contadini tedeschi di mezzo millennio prima, una parte rilevante di americani bianchi si sente via via esclusa dal racconto pubblico, tradita dalla promessa dell’american way of life e chiede con rabbia il ritorno al “mondo di prima”, stabile, armonioso, con le sue regole di equilibrio. Nel 2008 l’elezione di Barack Obama, primo presidente nero, scatena reazioni rabbiose diffuse e montanti, condivise attraverso la rete e i social network. Sono, questi ultimi, gli strumenti indispensabili che permettono la creazione del “nuovo racconto” di cui si fa catalizzatore Donald Trump. Un leader del quale non è rilevante la coerenza ideologica ma la capacità di cavalcare e aizzare la rabbia dei seguaci, tanto da essere eletto presidente nel 2016. La sua sconfitta nel 2020 e il conseguente assalto a Capitol Hill segnano un punto di non ritorno: si compie un atto eversivo reso possibile dall’innesco tra emozioni pre-politiche, diffuse in modo virale grazie alla tecnologia e indirizzate da un leader carismatico. Il ruolo fondamentale dei social nell’intera vicenda evidenzia che, lungi dal mantenere le promesse della rete come spazio libero, essi si dimostrano strumento di potere verticalizzato, in mano a poche figure oligarchiche, luogo di fruizione passiva e di continua conferma delle proprie convinzioni più che di confronto e conoscenza.

La comparazione tra i due momenti non si può spingere oltre, sottolinea Filippi. Tuttavia, così come la guerra dei contadini non cambia il modello sociale ma il modo in cui si organizza il racconto pubblico, ugualmente Internet potrebbe prefigurare un nuovo modello con cui si aggregheranno rivolte e canalizzazioni della rabbia popolare, segnando il tramonto dell’Occidente così come si è configurato fin qui. Ciò che appare evidente, in ogni caso, è che dal «mondo virtuale e libero si sta più o meno consapevolmente costruendo un mondo reale totalitario» (p. 216).

Il libro di Filippi è uscito nell’autunno del 2024. Nel novembre dello stesso anno Donald Trump, con l’appoggio determinante del proprietario di una delle maggiori piattaforme social, cioè Elon Musk, è stato rieletto presidente. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.

di Paola Signorino

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