Il 27 gennaio 1973, dopo gli estremi massicci bombardamenti statunitensi del Natale, vietnamiti e americani firmarono l’armistizio che metteva fine alla guerra, anche se sarebbero passati altri due anni prima che l’ambasciatore degli Stati Uniti arrotolasse la bandiera a stelle e strisce e abbandonasse Saigon. Anche la guerra di Corea era finita senza regolare trattato di pace, segno specifico della concezione imperiale dei paesi di antico e nuovo colonialismo.
Tornando al Vietnam, cinquant’anni di lontananza rendono quella guerra qualcosa di più di una memoria ormai leggendaria.
Oggi il Vietnam è un paese come gli altri di quell’area e vive i problemi di nuove manovre militari con qualche tensione, non diversa da quella che si respira in Europa di fronte alle scelte della Nato. Il Sudest Asiatico era chiamato Indocina Francese che era formata da Tonchino, Annam e Cocincina e che dal 1880 “protettorato” della Francia. Protettorato che nel 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la cacciata dei giapponesi, il popolo vietnamita respinse ribellandosi e provocando una prima, durissima guerra di indipendenza: i Vietminh (“gli indipendenti”) sconfissero definitivamente i francesi a Dien Bien Phu. Gli accordi di Parigi del 1954 stabilirono che il Sudest Asiatico comprendeva quattro Stati indipendenti: il Vietnam del Nord, il Vietnam del Sud, il Laos e la Cambogia. Gli americani avevano appoggiato la causa dell’indipendenza del popolo vietnamita e Ho chi Minh, che aveva conosciuto le terribili carceri coloniali e sperava di recuperare l’unità del suo paese, non immaginava di essere diventato oggetto della contrapposizione Est/Ovest. Gli americani non potevano permettere che i Viet-cong (“i partigiani”, sostenuti dalle armi sovietiche) rappresentassero la punta avanzata di un’invasione comunista e affiancarono il governo del Vietnam del Sud con proprie truppe e mezzi, sostenendo il presidente Ngo Dinh Diem, conservatore cattolico non bene accetto dalla maggioranza buddista. Così gli Usa subentrarono al colonialismo francese e per i vietnamiti si riaprì la guerra di indipendenza. La vinsero nuovamente, come dimostrano le condizioni dell’accordo tra il Vietnam del Nord, i rappresentanti del Vietnam del Sud, quelli del Fronte Nazionale di Liberazione e gli Stati Uniti: la fine dei combattimenti, il ritiro di tutte le truppe americane, la restituzione di tutti i prigionieri di guerra, la fissazione del 17° parallelo come confine invalicabile tra i due Vietnam. In sostanza l’accordo convalidava la clamorosa sconfitta degli Usa, un’umiliazione che pesa ancora nell’immaginario americano.
L’epica del Vietnam resta anche nell’immaginario di tutti i democratici che hanno ancora davanti agli occhi la fotografia della bambina Kim Phúc che fugge nuda con il corpo ustionato dal napalm, simbolo della guerra più “sporca” che causò 60mila morti statunitensi, 250mila sudvietnamiti e non meno di due milioni di soldati e civili del Nord destinatari di oltre 7 milioni di bombe.
La “generazione Vietnam”, 50 anni fa, non aveva ancora lo sguardo orientato oltre i propri confini, ma interpretò subito la rivolta di un popolo oppresso come resistenza all’ostinata sopravvivenza di un colonialismo ormai superato. Quella vittoria fu un momento di esaltazione di una società “autoeducatasi”.
I comunisti francesi e italiani affiancavano il Vietnam del Nord che a loro avviso andava nel senso della storia. Cattolici come Pax Christi e il quotidiano Avvenire solidarizzavano con il gruppo di preti che da Parigi sosteneva i cattolici del Sud che combattevano la dittatura di Thieu, iniziata nel 1965.
A Londra nel 1961 si era tenuto l’International War Crimes Tribunal, conosciuto come Tribunale Russell, di cui il filosofo Bertrand Russell fu l’ideatore, capofila di un’amplissima adesione di scienziati e intellettuali solidali con la causa vietnamita. Se negli Usa il principale esponente della grande contestazione era stato un giovane Noam Chomsky, in Italia aveva suscitato scalpore l’impegno del sindaco di Firenze Giorgio La Pira che, dissociandosi dalla dottrina della “guerra giusta”, si incontrò con Ho Chi Minh per cercare la via di un negoziato con gli Usa. In tutto il mondo, ma soprattutto in America, centinaia di migliaia di persone scesero in piazza, le università si mobilitarono e molti giovani rifiutarono la chiamata alle armi (non è un caso se la leva fu abolita nel 1973): era vanto dichiararsi disertori e migrare in Canada.
Forse anche oggi sarebbe diffusa la difesa dei diritti di libertà dei vietnamiti, contrastati da quella stessa America che aveva sottratto l’Europa al pericolo nazista.
I presidenti americani di quegli anni ebbero la presunzione, comune e funesta dei politici, di conoscere il bene degli altri e, in nome dell’anticomunismo, lavorarono a proprio danno. I vietnamiti volevano riunirsi in un solo paese, senza essere controllati da governi fantoccio francesi, anglosassoni o sovietici.
Fu allora che Kissinger, consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti e premio Nobel insieme con Le Duc Tho, affrontò i limiti della politica imperiale del proprio paese.
Peccato che l’ex diplomatico, prima vicino a Nixon, che oggi suggerisce prudenza al proprio presidente non sempre sia seguito. Biden ci dovrà arrivare da solo.
di Giancarla Codrignani