Claudio A. Colombo
Ci vorrebbe proprio un bel Caffè.
L’anniversario: 100 anni fa nasceva la rivista più sequestrata d’Italia

Poesia pubblicata il 15 dicembre 1924
Durò solo un anno, dal 1° luglio 1924 al 3 maggio 1925. Venti numeri in tutto, a cadenza quindicinale, sequestri della polizia permettendo. Ma dietro quella rivista – Il Caffè – lavorarono in team gli esponenti di un’altra Italia, quella che aveva capito presto gli obiettivi del partito fascista, impegnandosi fin da subito a costruire una opposizione coraggiosa e indomita. L’idea di dar vita a un piccolo foglio «lombardo, liberale e antiretorico!» – com’era stato, appunto, il vecchio Caffé settecentesco – era venuta, nella primavera del 1924, a un gruppo di giovani, che non militavano in alcun partito ma sentivano un comune richiamo verso il filone del liberalismo illuministico. Tra questi, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri, Giovanni Mira e Filippo Sacchi, insieme a Tommaso Gallarati Scotti, Giustino Arpesani, Ettore Maria Margadonna, Mario Borsa, Piero Jahier, Novello Papafava, Vincenzo Torraca, Diego Valeri. Tanti altri si sarebbero aggiunti nel corso dei mesi.
Il Caffè non nacque per caso. All’improvviso, il 10 maggio 1924, c’era stato il delitto Matteotti e l’eco sconvolgente per l’assassinio del parlamentare socialista, che Gobetti aveva definito il «volontario della morte», aveva imposto di affrettare i tempi. Riccardo Bauer e Ferruccio Parri (due dei “redattori”, per quanto il gerente responsabile fosse un fantomatico Francesco Cappuccini) decisero di passare all’azione, anticipando il primo numero, che veniva stampato in una piccola tipografia in via Spartaco 6, a due passi dal luogo in cui lavorava Bauer, la Società Umanitaria. Ciò avvenne non appena si sparse la voce di quello che, si era capito subito, era un omicidio di Stato. E proprio alla mattanza del deputato socialista la rivista dedicava l’articolo di apertura, a fianco della classica “Presentazione”.
Il titolo era già una scelta di campo, una presa di posizione netta: Il nostro posto.
Ci vollero 48 ore perché Mussolini e la sua maggioranza si accorgessero che l’assassinio di Matteotti non era semplicemente uno spiacevole incidente, ma spalancava una improvvisa voragine sotto le loro illusioni e jattanze di beati possidentes. Ed il loro sdegno e la loro condanna, giungendo con un ritardo rivelatore e fatale sulla subitanea ed irresistibile ribellione del paese, apparvero, prima ancora che dettati dall’onore, affannose giustificazioni di imputati colti dallo sbigottimento di un inatteso capitale giudizio. Crollato il consenso, il duce sentì paralizzati i nervi dell’azione, spuntate le armi della forza, presi da panico e disorientati i suoi lanzi, ridotto al silenzio il coro.
Con un realismo tagliente e disincantato, che finirà per ritmare tutti e venti i numeri (nell’ultima uscita le quattro facciate si ridussero ad un unico foglio), Il Caffé riuscì a divenire subito una delle più robuste voci di accusa contro quello che viene definito un «regime di sedizione e di arbitrio», capace di esprimere a ritmo serrato i suoi j’accuse, opponendo serietà di pensiero e di stile alla tronfia esaltazione fascista, e affrontando i problemi della nazione con mente illuminata e con metodo severo. Scriveva Bauer in un dattiloscritto, presumibilmente preparato per un articolo da pubblicare su Il Ponte di Piero Calamandrei, di cui useremo altre citazioni più avanti: «laddove il fascismo era tutto superficiale improvvisazione, faciloneria da orecchianti, solo potenziato dalla furberia e dalla mancanza di scrupoli del suo massimo esponente».
Fin dall’inizio la rivista assunse il suo tono e il suo carattere con un’impostazione liberale, radicalmente antifascista per ispirazione politica, culturale e morale ad un tempo. La composizione della redazione era molto eterogenea: un’ala sinistra (con i socialisti Giovanni Malvezzi e Ettore Maria Margadonna), un’ala destra (con i liberali Giustino Arpesani, Tommaso Gallarati Scotti, Luigi Simonazzi), a cui si aggiungeva il cosiddetto “comitato direttivo”, composto da Bauer, Parri e Giovanni Mira. E proprio Bauer ricordava che le differenze ideologiche non erano un freno, ma piuttosto un pungolo verso l’impegno comune:
La necessità dell’azione da tutti sentita in un momento di intensa passione politica mise in luce e fece prevalere su ogni altra considerazione dottrinale la tessera comune a tutti gli iniziatori: quella dell’amore per la libertà e della coscienza di non poter essere assenti nella battaglia che si era scatenata.
In un clima di pavido conformismo, bisognava opporre un’opposizione lineare e cristallina, tracciando giorno dopo giorno la via maestra della lotta a fondo, contro ogni compromesso, senza attese miracolistiche, specialmente da parte del sovrano. Il gruppo del Caffè decise di ospitare nelle sue pagine grandi firme del passato, mobilitate apposta, con astuta maestria, al fine di continuare a far sentire la voce di «pochi uomini che non avevano mai piegato la schiena a nessun padrone», e mandare ancora di più fuori dai gangheri le autorità prefettizie e i loro zelanti censori. Insieme a Cattaneo venivano scomodati Manzoni, Garibaldi, Savonarola e Victor Hugo, ognuno «con evidente artificiosa intenzione di alludere all’attuale momento politico per screditare il paese e il regime», come chiariva il dispositivo di sequestro, subito emesso. Certi ammonimenti sui «ciarlatani vengono a galla», del resto, benché innominati, erano facilmente riconoscibili…
Dal 1925 la rivista si avvalse anche della collaborazione straordinaria di altre personalità che, parimenti, non avrebbero dovuto apparire politicamente sospette, né tanto meno censurabili: Foscolo, Leopardi, Baretti, l’immancabile Verri. A loro il compito di commentare il presente. Lasciando la parola a Cesare Beccaria, si poteva spiegare «come si prevengono i delitti» in nome della legge e della Libertà. Se si decideva di stampare un capitolo di Tacito, si sceglievano i passi degli Annali dove si notava che «a soffocare il pensiero degli scrittori se ne ingigantisce l’autorità». Come non pensare al recente caso Scurati?
Nessun aspetto della politica mussoliniana rimase ignorato dal Caffè, nulla sfuggì alla critica dei caffettieri: non quello economico e finanziario, né quello internazionale. Non sfuggirono i problemi locali né quelli assistenziali o scolastici. Di mano in mano che il nuovo regime, sollecitato dalla grave crisi morale e politica in cui era precipitato, interveniva in questo o in quel settore, Il Caffè ne metteva in luce la subdola opera demolitrice di ogni libera iniziativa. Del resto, la strategia politica del Duce per consolidare il potere dei suoi accoliti era manifesta e venne consolidata dal Presidente del Consiglio con il discorso al Parlamento del 3 gennaio 1925, in cui Mussolini dichiarava candidamente: «se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo!». Il discorso, ovviamente, non sfuggì ai caffettieri. Fu Parri ad occuparsene, rivolgendosi direttamente al Re, nell’articolo Lettera al Capo dello Stato dell’11 gennaio 1925:
Signor Re, hai sentito questo Tuo Presidente del Consiglio, incolpato di un sistema di delinquenza politica, con quale arcadica e facinorosa disinvoltura si è processato da sé, e si è assolto da sé? E si è assunto la responsabilità, che davvero gli spetta intera, del regime di violenza materiale e morale che dilania sempre più minacciosamente la tua Nazione? Hai visto, Re, quando il tuo Presidente ha sentito la dignità del Governo? Non quando ha mal fatto, non quando son stati incarcerati i suoi fidi, ma quando si è sentito vilipeso. Ed hai visto in che modo ha sentito questa dignità? Non purgandosi dalle accuse od offrendo modo di purgarsi: ma strozzando la stampa che lo accusava[…]. Quest’uomo ha parlato come un Re, al quale la Tua Maestà non serve che come espediente polemico. Io, Re, al Tuo posto l’avrei licenziato come un servo petulante.
Al pari di altre riviste antifasciste e democratiche, Il Caffè tenne sempre la barra a dritta della sua intransigenza. Non aveva la stessa impostazione dottrinale della Rivoluzione liberale di Gobetti, perché voleva essere di più facile lettura e rivolgersi a un pubblico più vasto, ma aveva la stessa durezza polemica del Non mollare di Salvemini, anche se il tono delle invettive sapeva essere meno aspro. Del resto a Firenze, in redazione, c’era il vulcanico castigatore Ernesto Rossi, futuro amico e sodale di Bauer. Il tono de Il Caffè doveva essere severissimo sulle questioni di sostanza, ma pacato nelle forme e nello stile. Tranne in qualche caso: come nella scanzonata poesia “Il Natale del piccolo Caffettiere”, pubblicata sul numero del 15 dicembre 1924 o nella lettera indirizzata ad una delle vittime preferite del Caffè, ovvero il Prefetto di Milano, Vincenzo Pericoli, mussoliniano di ferro, reo di «non tollerare la parola e l’azione di uomini indipendenti».
Trattasi della “Lettera del Comitato di redazione de Il Caffè al Prefetto” del 3 maggio 1925, in cui Bauer, Parri, Mira e Degli Occhi (una new entry del Caffè) lamentavano, anzi denunciavano, il fatto che il prefetto non sottoponesse la rivista alle restrizioni vigenti, ma semplicemente avesse deciso tout court di sopprimerlo con l’accusa della pubblicazione di notizie false, che in realtà non era mai stata commessa, o di «allusioni sarcastiche», che ovviamente non potevano «turbare l’ordine pubblico», come veniva asserito. Inoltre si denunziava la parzialità del comportamento dell’autorità rispetto a quello praticato con altri giornali (fascisti), a cui era concessa libertà assoluta anche quando pubblicavano delittuosi incitamenti all’assassinio del prossimo, concludendo che tutto ciò era «rivelatore di una condizione politica di oppressione ipocritamente ammantata di legalità».
Non vogliamo eccedere in ingenuità chiedendole di intendere come, non avendo in politica nessun interesse o ambizione da soddisfare, soltanto la sollecitudine per l’avvenire del nostro paese ci ha messo in prima linea accanto ai partiti ed alle masse proletarie, in una lotta che per il bene dell’Italia deve assolutamente avere carattere nazionale e non carattere di classe. Noi sappiamo così di servire veramente gli interessi perenni e profondi dello Stato italiano, del quale Ella è pur un alto funzionario. Noi che abbiamo fedelmente servito lo Stato in pace ed in guerra e fedelmente osservate le leggi – che gli attuali governanti insidiavano – possiamo parere ora cittadini ribelli solo alla faziosità e alla cortezza di veduta dei nostri avversari e reggitori, che Ella ha servito nei nostri confronti con zelo degno di miglior causa. Ma noi non scriviamo certo per persuaderLa, e nemmeno per protestare; e nemmeno per jattanza polemica. Scriviamo perché in un paese nel quale gli uomini politici sono in grande maggioranza troppo accomodanti, è nostro stretto dovere di uomini liberi verbalizzare chiaramente atti, posizioni, responsabilità. Ella sappia, e riferisca, che il silenzio forzato non è acquiescenza e docilità. E se Ella si vale della Sua autorità per ridurci al silenzio in servizio di un partito, resti stabilito, ed Ella prenda atto, che noi non intacchiamo il principio di autorità e di disciplina, ma è questo metodo, questi esempi che dell’autorità minano le basi morali, e corrodono, pericolosamente per domani, il prestigio. Il bolscevismo più funesto è quello che discende dall’alto. Ella potrà vendicarsi oggi, ma non impedire che il domani ci dia ragione.
Nel centenario del martirio di Matteotti, e della nascita del periodico antifascista, in un clima che giorno dopo giorno sembra diventare sempre più pericoloso, ci sembra che ci sia bisogno ancora di un bel Caffè. Perché è vero: il caffè rende nervosi. Non tanto per chi lo beve, lo assapora, lo gusta e ci medita su. Oggi come ieri, Il Caffè rende nervosi quelli che non lo digeriscono e non ne apprezzano le proprietà.

Cover del primo numero de Il Caffè, 1 luglio 1924