A un secolo dalla «marcia su Roma» sono state diverse le occasioni messe in campo per rivisitare, sul piano storico e non, un evento decisamente centrale, seppur non inevitabile, della storia italiana e del Novecento. Con la famigerata marcia iniziò il «funesto ventennio fascista». Il ventennio fascista non fu l’esito di una deterministica necessità storica, ma si sviluppò per responsabilità morali e politiche precise, facilmente definibili. Soprattutto per la notevole incapacità, accompagnata da un’ampia dose di opportunismo, della classe politica del tempo di gestire la crisi politico-sociale di quegli anni notevolmente agitati. Più di cinquant’anni fa Ennio Flaiano, sulla scia di Piero Gobetti che aveva affermato che il fascismo era segno di “infanzia” in un popolo che era pur erede di Machiavelli, sosteneva che «il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura […] racchiude le loro aspirazioni […] e rassicura la loro inferiorità». Il fascismo, come hanno sottolineato anche alcuni storici, è un elemento “naturale” del carattere nazionale. È come un fiume carsico che attraversa il Paese e che periodicamente riemerge, mantenuto in vita, paradossalmente, dalla nascita dello Stato democratico, che ha reintegrato in settori chiave della società (come la magistratura, la polizia, il giornalismo e l’istruzione) personaggi più o meno coinvolti nella dittatura che, sfuggiti all’epurazione, hanno riciclato ideologie e pratiche del regime. Capita ancora oggi di leggere o ascoltare ricostruzioni o presentazioni del ventennio fascista elaborate in modo edulcorato e fazioso, quasi come una favoletta tesa a banalizzare e a sdrammatizzare eventi tragici come la marcia su Roma, il delitto Matteotti, l’alleanza di Mussolini con Hitler, la guerra in Etiopia, le leggi razziali, la Repubblica di Salò. Come dire che in fondo così male non è stato. Certo, alcune libertà furono soppresse, i giornali non allineati con il regime furono chiusi, ci è scappato qualche morto ma, alla fine, soprattutto se confrontato con altre dittature, il fascismo è stato un regime all’acqua di rosa, approvato (e questo purtroppo è vero) dalla stragrande maggioranza degli italiani. In realtà, come ha ben osservato Aldo Cazzullo in un suo recente e pregevole volume edito da Mondadori sul fascismo e su Mussolini, efficacemente definito Il capobanda, la violenza per i fascisti non fu lo strumento temporaneo per andare al potere, poi messa da parte quando questo fu raggiunto, ma il carattere permanente e l’anima nera di un regime criminale che ha trovato in Mussolini il primo “mandante” e “l’utilizzatore finale”.
Questa ipotesi è avvalorata da Gino Marchitelli che, in suo recente volume Campi fascisti. Una vergogna italiana (Jaca Book, 2021, pp. 218, € 20,00), prendendo spunto dal notevole lavoro on line www.campifascisti.it, ci ha fatto conoscere i campi di internamento fascisti, una storia che non può essere nascosta. Lo Stato fascista utilizzò diversi strumenti e luoghi per imprigionare, segregare e deportare popolazioni straniere, oppositori politici, ebrei, omossessuali e rom. Dai campi di concentramento per migliaia di civili sloveni e croati, a quelli dove furono deportati eritrei, etiopi e libici, dalle località di internamento «libero» per ebrei stranieri fino ai luoghi di confino per oppositori politici. Sono numerosi i documenti storici sull’internamento e la prigionia intese come pratiche di repressione messe in atto dallo Stato italiano nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Mussolini alla fine della seconda guerra mondiale. L’autore ci mette a conoscenza di una serie di luoghi (campi, isole, ville nobiliari, spesso sconosciuti o semi sconosciuti) «per consentire di costruire un quadro efficace e di conoscenza sulla barbarie attuata dal fascismo». Attraverso un efficace lavoro di assemblaggio, Marchitelli ha dato una forma organica a ciò che altri hanno teorizzato e realizzato. Egli si è assunto il compito di favorire la scoperta di fatti e luoghi poco conosciuti. La quantità d’informazioni esistenti e di materiale sconosciuto, talvolta, non trova riscontro negli archivi ed è giunto a noi attraverso il racconto orale dei testimoni. Colpisce l’ampio utilizzo da parte del regime, prima dell’8 settembre 1943 e dopo la costituzione della Repubblica Sociale di Salò, di ville patrizie spesso cinte da alte mura, nascoste agli occhi della gente, dove «poter mettere in pratica le più efferate torture nei confronti degli oppositori e i peggiori festini orgiastici nel momento in cui, sempre più, i fantocci dalla camicia nera si rendono conto che la fine è vicina e che pagheranno il fio delle loro violenze. Un universo di persone senza alcuna umanità, dediti al bere, alla violenza, spesso alle droghe, allo sfogo dei peggiori istinti, una sorta di decadimento morale amplificato e senza speranza che li porterà a compiere atti di una ferocia inaudita».
L’autore ci ricorda che nell’Ottocento il Regno delle Due Sicilie, quello di Sardegna e lo Stato Pontificio erano soliti ricorrere al domicilio coatto o all’esilio per coloro che erano “sospetti” di essere oppositori politici. È nel codice penale sardo promulgato da Carlo Alberto nel 1839 che compare il termine «confino». Sotto il nome di «domicilio coatto», dopo la nascita dello Stato unitario, si ritrova qualcosa di simile al confino, cui sicuramente il legislatore fascista si ispirò. Nell’Italia meridionale fu ampiamente utilizzato l’intervento dell’esercito per far fronte alle bande di briganti. Con la legge n. 1409 del 1863 (nota più comunemente come «Legge Pica»), si presero misure ritenute adeguate a estinguere il fenomeno del brigantaggio: le pene vennero inasprite (coi lavori forzati, fucilazioni, ecc.) ma, soprattutto, i processi si tennero davanti a tribunali militari. Le destinazioni dei coatti furono isole: Lampedusa, Favignana, Ustica, Pantelleria, Ponza, Ventotene, San Nicola di Tremiti. Sostanzialmente le stesse mete scelte dal fascismo nel ventennio durante il quale il domicilio si trasformò in confino di polizia, una pena ordinaria ante delictum irrogata dal potere esecutivo e non dal potere giudiziario. Non era dunque necessario che si commettesse un qualsivoglia delitto, bastava il mero sospetto. Il periodo di confino poteva, secondo la legge, durare da uno a cinque anni, anche se ci furono casi di oppositori che, alternando il confino al carcere, furono segregati dal 1926 fin dopo la sfiducia del Gran consiglio del fascismo a Mussolini, il 25 luglio 1943. Furono preferite le località del Sud a quelle del Nord per la maggior distanza dai confini (quindi con una minor possibilità di tentare un’evasione) e perché la maggioranza dei confinati proveniva dalle regioni settentrionali. Com’è noto, ospiti eccellenti di queste colonie furono, tra i tanti, Antonio Gramsci a Ustica; Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e Carlo Rosselli a Lipari. In una delle isole Tremiti (non si tratta di una sola isola ma di un piccolo arcipelago) furono riadattati i locali utilizzati dai borbonici adiacenti l’ex abbazia di Santa Maria a Mare, dove il confino era tutt’altro che una sorta di «villeggiatura», come l’ha definita Berlusconi alcuni anni fa. Le isole Tremiti furono la colonia che accolse quasi tutti gli omosessuali sottoposti al confino. Delle difficili condizioni di vita in quei luoghi, il volume meritoriamente rende conto in maniera dettagliata.
Un libro che aiuta a rafforzare il filone culturale dell’antifascismo in un paese, come sottolineato anche da Cazzullo, in cui è ancora fortemente diffusa un’idea distorta, consolatoria e auto assolutoria del ventennio. Pochi ormai si definiscono fascisti, ci sono tanti antifascisti, ma la maggioranza degli italiani non ha un’idea negativa del duce. L’antifascismo deve essere un patrimonio di tutta la nazione. In realtà, fin dall’immediato secondo dopoguerra, lo è diventato solo di una parte. L’antifascismo non è e non può essere monopolio della sinistra. Del resto, com’è noto, il nazifascismo fu sconfitto anche da uomini politici di destra come Churchill e De Gaulle. In Italia fu combattuto non solo da comunisti, socialisti o azionisti, ma anche da partigiani cattolici, liberali e monarchici. Non si possono dimenticare, prima della Resistenza, Gobetti e Giovanni Amendola, Croce (che fu tollerato dal regime ma che rappresentò uno dei pochi riferimenti culturali in Italia per gli oppositori), don Minzoni e Pier Giorgio Frassati, Carlo e Nello Rosselli, Giuseppe Di Vagno. Né, tornando al periodo 1943-45, i circa 800.000 militari internati (IMI), che si rifiutarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e di continuare a combattere al fianco dei nazisti*.
* Questa recensione è stata pubblicata su Mentinfuga.com il 24 ottobre 2022.
di Antonio Salvati