Giovanni De Luna, Il Partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione (1942-1947), Utet, 2021

La storia del Partito d’Azione uscì per la prima volta nel 1982. Giunta nel 2021 alla sua terza ristampa, è diversa dalle altre edizioni soltanto per una piccola ma significativa modifica nel titolo, che collega ancor più esplicitamente il partito alla Resistenza, e per una nuova introduzione scritta da Chiara Colombini. Si tratta di un volume indispensabile, da una parte, per studiare il Pd’A e le diverse componenti da cui nel 1942 esso ebbe origine, dall’altra per approfondire il sofferto (e secondo alcuni non proprio completo) passaggio dal fascismo alla Repubblica democratica, con particolare attenzione alla Resistenza. Ci si riferisce, quindi, a quella componente centrale della lotta armata contro il nazifascismo inquadrata nelle brigate di Giustizia e Libertà attive nei venti mesi dal 1943 al 1945 e alle numerose proposte politico-istituzionali e socio-economiche (in realtà rimaste per lo più sulla carta) finalizzate a rinnovare alla radice l’Italia, elaborate durante la seconda parte della guerra e nel biennio 1946-47, cioè agli albori della Guerra fredda. Il volume, figlio di un profondo scavo archivistico, considerando i temi accennati non sembra invecchiato sebbene la storiografia, guardando soprattutto agli ultimi vent’anni, si sia rinnovata grazie all’apertura di nuovi archivi, in Italia e all’estero. Hanno visto la luce biografie di vari dirigenti azionisti e ricerche sul difficile rapporto tra gli Alleati e i partigiani (non solo gli azionisti), consentendo lo sviluppo di un dibattito meno “ideologico” perché staccato dal Novecento, in assenza però di una nuova storia complessiva dell’azionismo.

I nuovi studi, connessi per lo più con i Cantieri aperti di GL e PDA, organizzati a Torino e ormai vicini alla 18° edizione, hanno anche gettato una luce più chiara sulle tre radici del partito della rivoluzione democratica: il gruppo toscano dei liberalsocialisti, quello milanese di matrice liberaldemocratica e in particolare Giustizia e Libertà, i cui vertici alla nascita del Pd’A in realtà si trovavano in carcere, al confino o in esilio forzato all’estero. Il movimento, dopo l’assassinio di Carlo Roselli nel 1937, era entrato in crisi e la sconfitta della Francia nel 1940 lo aveva reso ininfluente in Europa (ma Paolo Vittorelli lo tenne in vita in Egitto fino al 1944) mentre in Italia, a causa della repressione fascista, era sostanzialmente assente dagli ultimi anni Trenta. Gli avanzamenti della storiografia hanno interessato anche ciò che non è oggetto del libro ma che, ad esso, è inevitabilmente connesso: cioè quel «fiume carsico» individuato dallo stesso De Luna che ha rappresentato le varie anime del post azionismo (non sempre allineate tra di loro fin dalla fine degli anni Quaranta) che durante la storia dell’Italia repubblicana, almeno fino ai primi anni del terzo millennio, è consistito nell’attività politica e culturale, esercitata dentro e fuori dai partiti ma anche nel sindacato, portata avanti dagli ex azionisti.

Rimanendo al Pd’A, dunque all’oggetto del libro, si può aggiungere che la storiografia ha in parte colmato le (poche) lacune di un volume concepito e scritto quando quasi tutti i protagonisti di quella storia erano ancora sulla scena pubblica, sia pure in vesti diverse, e quando il suo autore era a sua volta impegnato in un difficile processo di revisione politico-culturale dopo la fine degli anni Settanta. De Luna, ex militante di Lotta Continua, a più riprese è stato accusato di aver dato un peso eccessivo al contesto “geografico-culturale” piemontese e alla non maggioritaria componente operaista del Pd’A; di non aver analizzato in modo abbastanza critico l’ardito progetto di rivoluzione democratica incentrata sui CLN; di non aver dedicato sufficiente spazio al complesso scenario internazionale (e quindi ai sopra accennati rapporti dei partigiani azionisti con gli Alleati) né ai finanziamenti ricevuti dal Pd’A, in particolare all’inizio della sua vicenda; di aver sottovalutato l’ultimo anno e mezzo di storia di una formazione politica incapace di trasformarsi, per usare proprio una sua espressione, da “partito dei fucili” in “partito delle tessere” una volta sopravvenuta la Liberazione.

Gli ex azionisti, sconfitti sia dai partiti di massa riconducibili al movimento operaio (PSIUP e PCI) fin dalle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946, seguite alla traumatica scissione guidata da Parri e La Malfa che avevano fondato il Movimento della Democrazia Repubblicana, sia dalla rinascita delle formazioni laiche minori (in primis il PRI, in cui nel settembre 1946 confluì il MDR), dopo la scomparsa del loro partito durante la storia repubblicana rinnovarono profondamente gli altri (forse con l’eccezione del PCI) guardando soprattutto al frammentato mondo socialista, la cui unità si ruppe nel gennaio 1947 con la scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini. Il rinnovamento venne, da un lato, dai programmi di governo ignorati dagli esecutivi centristi e solo in parte ripresi da quelli di centro-sinistra, programmi concepiti con l’intento di modernizzare l’Italia e di superare in via definitiva il fascismo attraverso le “riforme di struttura”, intese da alcuni come il mezzo per fare del Paese una democrazia compiuta e da altri come l’unico modo per promuovere il socialismo nella libertà. Dall’altro dalla forma in parte nuova data a culture politiche che, ancor prima del crollo dell’Italia Liberale figlio degli squilibri seguiti alla Grande Guerra, si erano rivelate inadeguate nel cogliere le traumatiche trasformazioni d’inizio anni Venti, nel contrastare la reazione ma non nel limitare l’esiziale tendenza al settarismo. Una patologia interna in particolare alla sinistra che, tardivamente, colse le novità insite nel fascismo e, dunque, la sua tragica modernità.

Tornando ai post azionismi e soffermandoci sul grande contributo degli ex militanti e dirigenti agli altri partiti dopo l’ottobre 1947, basti ricordare, solo per fare qualche nome, la centralità acquisita da Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Tristano Codignola, Francesco De Martino, Paolo Vittorelli ed Emilio Lussu nel PSI (e nel PSIUP) e quella di Oronzo Reale (che in realtà tornò nella sua casa d’origine) e di La Malfa nel PRI, senza ignorare la nascita del moderno Partito Radicale animato, tra gli altri, da Leo Valiani ed Ernesto Rossi. Ma si deve nuovamente menzionare anche Parri, al vertice di Unità Popolare con ex azionisti repubblicani e socialdemocratici molto critici verso la “legge truffa” del 1953 (tra cui Piero Calamandrei), e ricordare Altiero Spinelli che, con le sue istanze federaliste condivise con accenti diversi dallo stesso Ernesto Rossi, altro europeista convinto e membro del MFE, ha incarnato un altro importante filone di pensiero (e di azione) legato all’esperienza storica del Pd’A.

Le precedenti ristampe del corposo volume di De Luna erano legate a momenti di passaggio particolarmente significativi della storia repubblicana, seguiti al crollo della cosiddetta prima Repubblica pur in assenza di una riforma della Costituzione. Soprattutto quella del 1997 era giunta dopo un dibattito politico-culturale, a tratti molto aspro, iniziato nel 1993 con il vero e proprio sgretolamento del quadro di governo e del quadro politico in generale, plasticamente rappresentato dalla crisi dei partiti tradizionali (rivelatasi poi definitiva) seguita allo scoppio di Tangentopoli, un dibattito che aveva visto protagonisti ex dirigenti e militanti del Pd’A a cominciare da Foa, Valiani, Bobbio e De Martino. Allora si era vista, da un lato, la strumentalizzazione del socialismo liberale e dell’azionismo da parte di una sinistra in cerca di autore dopo il crollo del comunismo e, dall’altro, un violento attacco a tratti grottesco da parte della destra (vecchia e nuova, clericale e non) al Pd’A, confluito a maggioranza nel PSI un paio di mesi prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Un partito, il Pd’A, ritenuto comunque responsabile da conservatori e reazionari, forse per il ruolo scomodo di coscienza critica incarnato dopo l’ottobre 1947 dalle diverse anime del “fiume carsico”, dei mali di un’Italia attraversata da problemi storici e nuove lacerazioni, in cerca d’identità ma quasi orfana della vecchia stabilità, che si potrebbe forse interpretare più come immobilismo.

In realtà i post azionisti, per lo più descritti come dei moralisti da esponenti di vertice sia delle principali forze di governo sia di quelle di opposizione, avevano sempre dato fastidio perché, lungi dall’essere stati solo dei generosi utopisti, erano stati capaci (al netto di indubbie ingenuità ed eccessi di retorica) di evidenziare gravi problemi storici irrisolti, enormi contraddizioni nel sistema economico e nel complesso della società, riforme mancate nei settori principali della vita pubblica, imbarazzanti ritardi culturali, promesse disattese e dogmi ideologici inadatti a promuovere un progetto di rinnovamento credibile. L’ancoraggio alle radici antifasciste della Repubblica democratica, una peculiarità degli ex azionisti come la laicità (nel senso più ampio del termine), negli anni Novanta, in cui si affermò una concezione personalistica della politica e gli ex fascisti riemersero sotto altre vesti in modo prepotente, costituì un serio problema per “il nuovo” che avanzava. Un nuovo rappresentato da Forza Italia (con Silvio Berlusconi descritto da più di qualcuno come un secondo uomo della Provvidenza), Alleanza Nazionale e Lega Nord ma anche da chi a sinistra, quasi vergognandosi del proprio passato, seguiva faticosamente un’agenda dettata dagli avversari più che figlia di un’elaborazione culturale seria perché meditata. Si ritenne più opportuno ricercare con la destra una sorta di nuova “pacificazione” che, in realtà, diede piena dignità ai vinti del 1945. Una pacificazione i cui esiti sarebbero apparsi evidenti con l’inquietante messa in discussione del 25 aprile, per troppi smemorati o presunti tali una festa “divisiva” tra gli italiani, e con l’affermazione di una retriva cultura anti-antifascista, che è arrivata ai giorni nostri e che ha lasciato un notevole spazio a rigurgiti di neofascismo, peraltro coerenti con ciò che accade fuori dai confini nazionali e dalla stessa Europa.

Oggi, con la riproposizione del libro di De Luna, si può ancora parlare utilmente di azionismo e, verrebbe da dire, di storia politica? Quell’approccio radicale e intransigente alla politica, anche se non privo di contraddizioni, può dirci qualcosa? Il Novecento sembra ben più lontano dei ventuno anni che ci separano dalla fine del secondo millennio e da categorie politico-culturali ritenute inutilizzabili per la gestione del presente e per la costruzione del futuro. Eppure proprio il diffuso e a tratti disperato bisogno di politica e di “senso” nella società globale sembra giustificare la nuova edizione del volume, che racconta di come una minoranza, composta in prevalenza da esponenti del ceto medio (e da vari intellettuali che sarebbero divenuti parte della classe dirigente dell’Italia repubblicana[1], seguiti però sempre da minoranze), tentò di andare oltre se stessa lasciando un’impronta tanto indelebile da essere ancor oggi, per qualcuno, da cancellare. È il caso di non distrarsi e di non dimenticare quanto sia importante guardare con serietà al passato per edificare un futuro possibile, coerente con gli ideali di libertà e di giustizia sociale che l’azionismo inseguì con coraggio.

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[1] Su questo e altri temi, cfr. Impariamo dal Partito d’Azione, intervista a Giovanni De Luna di Simonetta Fiori, in «la Repubblica», 11 aprile 2021, pp. 30-31. De Luna, alludendo agli anni della guerra e avvicinandoli alle emergenze del presente, ha chiuso l’intervista con queste parole: «questo rende ancora più attuale una tradizione culturale che ha rivendicato l’occasione storica del disastro: allora era il tempo del ferro e del fuoco, oggi è la pandemia con la grave crisi economica e sociale. Per ricominciare bisogna dotarsi di quello slancio progettuale, senza avere paura degli ossimori».

di Andrea Ricciardi

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