(Intervento pronunciato alla Casa della Memoria e della Storia di Roma l’8 maggio 2024)
Il mio intervento è nato casualmente da una piccola osservazione che ho fatto agli organizzatori di questo convegno. Stavano parlando dell’europeismo di mio padre e io intervenni dicendo: guardate che mio padre era sì europeista, ma amava anche i territori, amava la storia e la cultura italiana e, soprattutto, aveva una mentalità internazionale. Giusto! Bravo! Mi dissero gli organizzatori. Devi assolutamente fare tu un intervento sull’argomento. Perciò, bon grè mal grè, eccomi qua.
Sul tema del localismo e dell’attenzione di Alberto Mortara ai singoli territori citerò tre esempi: Venezia, la sua tesi di laurea e il lavoro per l’IRUR e il Canavese.
Venezia dunque. Mio padre vi era nato e l’amava moltissimo. Vi hanno già parlato della sua attività per salvare il Ghetto di Venezia e in particolare la sinagoga più bella e il cimitero ebraico al Lido. Quindi non aggiungerò altro. Ma posso dire che Alberto non solo amava Venezia, ma riusciva a farla amare anche dagli altri. Parlo per esperienza personale perché, quando mi portò da bambino a Venezia per la prima volta, decise di farmici arrivare dal mare. E non ho mai più dimenticato l’immagine di Palazzo Ducale e del campanile di San Marco che si ha arrivando proprio di fronte a loro dal mare. Tra l’altro lo stesso avvenne quando mi portò a Roma per la prima volta. Mi fece salire su una macchina decapottabile passando dal Pincio al Gianicolo e con tutte quelle palme credevo di essere arrivato nel paese delle Mille e una notte.
Anche nella sua tesi di laurea sulla Maremma toscana, all’epoca dei risanamenti delle paludi malariche fatti dai granduchi Lorena, c’è tutta l’attenzione a quello che il suo grande amico Roberto Lopez chiamava microstorie. Roberto Lopez, che insieme a Ragghianti e a mio padre si trova sulla copertina del libro a lui dedicato che stiamo presentando mentre parlano del Mosè di Michelangelo, nel concorso a cattedra fatto poco prima delle leggi razziali fu scavalcato dal meno titolato Amintore Fanfani, emigrò in America e divenne professore a Yale. Fu un grande storico del Medioevo.
Infine, molte delle attività cui Mortara partecipò insieme a Adriano Olivetti prestavano attenzione ai territori e alle comunità che vi abitano. Il Movimento Comunità, a cui mio padre aderì con convinzione partecipando anche come capolista a Milano alle elezioni del 1958, aveva appunto al suo centro una visione integrata dei territori locali, in cui tutti, settore pubblico, imprese e cittadini, cooperassero per il benessere comunitario. Oltre all’analisi teorica, Mortara se ne occupò anche in pratica come vicepresidente dell’IRUR, di cui Adriano Olivetti era presidente. Dell’IRUR, che realizzò molte iniziative per lo sviluppo del Canavese, mi parlò una volta Sylos Labini, dicendomi che mancava uno studio di quella che per lui fu una delle esperienze più interessanti dell’Italia del dopoguerra. Uno studio che manca ancora.
Ora qualche parola sul nazionalismo. Mio padre era un grande amante della cultura e della storia italiana, un tema tra l’altro di cui discuteva molto con suo cugino, lo storico Nello Rosselli. Ma non era un nazionalista. Una volta mi chiese la mia opinione sul nazionalismo. Le mie idee non credo fossero molto diverse dalle sue, ma in quell’occasione io difesi il diritto di certe minoranze nazionali di avere un proprio Stato: pensavo, tra l’altro, al Sionismo. Mi accorsi in quella discussione che egli aveva un’opinione molto negativa del nazionalismo in generale. Certo, aveva vissuto l’esperienza del fascismo e della lotta contro di esso. “Antifascistissimo” diceva di lui sua zia Amelia Rosselli, come ho scoperto nel carteggio tra lei e Salvemini pubblicato recentemente.
Sul nazionalismo vorrei dire qualcosa che riguarda il rapporto tra gli ebrei e il patriottismo. È un tema secondo me molto interessante e complesso, che meriterebbe il lavoro di un grande storico. La storia della diaspora ebraica, pur essendo spesso una storia di tragedie, ha visto molti episodi di convinta adesione al regime vigente, sia ad imperi multinazionali tolleranti, sia a Stati nazione nei periodi in cui la loro rinascita rappresentava anche una vittoria della libertà e dell’emancipazione delle minoranze. Per quanto riguarda gli imperi, potrei citare già nella Bibbia la grande simpatia per Ciro, re dei Persiani, l’atteggiamento di molti ebrei verso alcuni imperi ellenistici, verso l’Impero Romano, e, più vicino a noi, verso l’Impero Ottomano e quello Asburgico. Ma anche la grande lealtà e identificazione degli ebrei con Stati nazionali, come l’Italia risorgimentale e la Francia postrivoluzionaria, la Germania in certe fasi, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e molti altri. Insomma, gli ebrei sono stati ovunque nazionalisti quando il nazionalismo era sinonimo di libertà. È’ stata di solito la storia di un amore non corrisposto, che meriterebbe uno studio d’insieme, collegando ad esso la storia del Sionismo.
Infine sull’internazionalismo. Dirò prima qualcosa sulla febbrile partecipazione di mio padre ai programmi economici per il dopoguerra. Durante l’esilio in Svizzera poté corrispondere con altri esuli su questi argomenti, per esempio Spinelli, ma anche molti altri, ed espose le sue idee in articoli pubblicati sui giornali italiani in Svizzera. Naturalmente fu più fruttuosa la seconda fase, quando riuscì ad uscire dai campi di lavoro e andare a vivere e studiare a Ginevra al fianco di Ernesto Rossi. Il suo contributo ai programmi economici continuò nel dopoguerra nell’ambito del Partito d’Azione ed ebbe, secondo me, due punti fissi, a cui rimase sempre fedele. Uno era il rapporto tra pubblico e privato. Vorrei quasi dire che aveva una visione privatistica del settore pubblico e una visione pubblicistica del settore privato. Credeva cioè al mercato anche per le attività pubbliche e all’attenzione per il sociale nelle attività private. Un punto di vista che non abbandonò nella sua vita successiva.
L’altro punto fermo era una visione aperturista dell’Italia verso l’Europa e il resto del mondo, come si vede in tutti i suoi interventi. Emblematica di questa visione fu la sua partecipazione alla fondazione del Movimento Federalista Europeo nell’estate del 1943 in casa Rollier a Milano, insieme ai suoi ex compagni di classe Eugenio Colorni e Giangio Banfi, agli amici Altiero Spinelli, Ursula Hirschman Colorni, Momi, Elena e Giulia Banfi e altri. Ho partecipato qualche mese fa a una celebrazione di quell’evento nella stessa casa Rollier: erano presenti gli eredi di quei fondatori. E, dopo aver ascoltato alcuni dettagli che non conoscevamo di quella riunione, eravamo tutti emozionati, in particolare le figlie di tre dei partecipanti, Leone Ginzburg, Eugenio Colorni e Vittorio Foa. Una, Foa, perché non aveva mai visto prima il padre. Due, Ginzburg e Colorni, perché non poterono vedere il loro padre nemmeno dopo, perché essi furono trucidati dai nazisti.
Ma è soprattutto con la sua creatura, il Ciriec, che Mortara ha potuto mostrare la sua visione non solo europeista, ma proprio internazionalista. Si è parlato molto dell’importanza del Ciriec in Italia, ma assai meno del ruolo che ha avuto mio padre nel Ciriec internazionale. Gli fu proposto più di una volta di diventare presidente dell’organizzazione internazionale, ma rifiutò sempre perché la sede in Belgio rendeva questo incarico per lui troppo complicato. Ma ne fu vice presidente per moltissimi anni, del resto era tipico di mio padre prendere la posizione di apparente secondo. E soprattutto era lui che si occupava dell’attività internazionale dell’associazione madre. In questo ruolo volle l’espansione del Ciriec soprattutto fuori dall’Europa. Non conosco tutti i dettagli, ma so che riuscì a far nascere sezioni nazionali del Ciriec in Giappone, in Canada, in Argentina, in India, in Israele e, in Europa, nell’allora Jugoslavia. Del resto aveva contatti importanti con economisti di tutto il mondo. Nei miei ricordi personali, per esempio Tinbergen in Olanda, Rosenstein Rodan e Leontieff negli Stati Uniti, Lerner in Canada, Sen in India.
Insomma e in conclusione, Alberto Mortara fu sempre attento alla geografia dei territori, ebbe molto amore per la storia e la cultura italiana, un grande sentimento di appartenenza all’Europa, ma fu, per me, soprattutto un cittadino del mondo.
di Carlo Andrea Mortara