Berta guardava nelle facce che aveva intorno, voleva sapere, e non c’era che da vedere. Che cosa avevano fatto a quegli uomini? E chi glielo aveva fatto? Perché glielo aveva fatto? Alzò gli occhi su uno dei militi con la testa di morto in mezzo al berretto, e fu per chiederlo a lui. Ma non chiese niente. Arrossì anzi, e si tirò indietro nella folla, abbassò il capo, camminò via. I morti al largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: PASSATI PER LE ARMI. Non dicevano altro.
È più o meno a metà della narrazione di Uomini e no (Bompiani, Milano 1945) che Elio Vittorini catapulta il lettore dentro il dramma, direttamente dentro l’orrore: «Ma che cosa è accaduto?», si chiede Berta, una delle figure femminili centrali del romanzo. «Niente di straordinario», risponde il vecchio signore che incrocia mentre percorre la strada da piazza del Duomo a piazza Fontana, in una Milano quasi irreale, dove la coltre del silenzio sembra coprire anche il rumore dei tram. «Che ho veduto io di straordinario. Niente ho veduto di straordinario», continua a ripetere il vecchio signore, quasi ad autoconvincersi che la normalità delle esecuzioni sommarie, la brutalità degli arresti e dei rastrellamenti, le sevizie durante gli interrogatori, facciano ormai parte della vita di tutti, ne scandiscano i giorni e le notti, diventando una consuetudine accettata (o subìta).
«Finito di stampare il giorno 13 ottobre 1945», fa scrivere Elio Vittorini nell’ultima pagina di quello che, pubblicato un anno prima de Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino (1946) e tre prima de La casa in collinadi Pavese (1948), è considerato la prima testimonianza narrativa della Resistenza: appunto Uomini e no. Un libro che si legge d’un fiato, seguendo una scrittura concitata, spesso ripetutamente ossessiva, come un mantra o una litania, dove tutti i personaggi (tranne le figure femminili, come Berta e Lorena) hanno nomi inventati (Enne 2, Baffi grigi, Scipione, Metastasio, Gracco, Foppa, Barca Tartaro). Perché in quegli anni drammatici – il romanzo è ambientato nella Milano occupata dai tedeschi durante l’inverno di guerra del 1944 – spie, delatori e confidenti anonimi si celano nell’ombra, pronti a denunciare anche il vicino di casa per una parola di troppo, per un dispetto, per riscuotere una taglia.
Uomini e no. Vittime e carnefici. Patrioti e aguzzini. Resistenti e oppressori. Le pagine della seconda prova narrativa di Vittorini (dopo la notorietà conquistata con Conversazione in Sicilia, del 1941) raccontano gli slanci generosi dei partigiani impegnati nella lotta clandestina nella metropoli lombarda. Il protagonista – nome di battaglia Enne 2 – è un giovane gappista, che tra un’azione e l’altra si interroga sul senso del suo stare al mondo, sulla natura dell’essere umano, sul valore di una lotta che non si può fermare, sull’amore impossibile che lo tormenta. A questo proposito, nelle prime pagine del libro c’è anche una scena a dir poco pruriginosa, complice Lorena: «Quando vuoi sentirti uomo non fare complimenti…».
Ho preso in mano il libro di Vittorini per caso, ricordandomi dell’esistenza di alcuni disegni che mio nonno, il pittore Augusto Colombo, aveva dedicato proprio a Uomini e no subito dopo la Liberazione, quasi immedesimandosi nelle vicende descritte dallo scrittore siciliano, in quegli anni fondatore e animatore di una delle riviste più significative del secondo dopoguerra, Il Politecnico, che pochi ricordano essere diffusa sui palazzi di Milano anche come “giornale murale”. Vicende che mio nonno aveva vissuto per esperienza diretta, essendo stato comandante di una formazione partigiana nel Comasco (nome in codice “Giberti”). Sono due le illustrazioni trovate tra le sue carte, perfettamente identificabili con due episodi della narrazione: i morti sul selciato su cui si sofferma Berta (dove c’è «una pietas senza retorica, semplice e scoperta, che lo spinge a trovare la dignità dell’uomo, anche là dove è umiliata e offesa», ha scritto il critico Mario De Micheli) e il predominio dell’uomo sull’uomo dopo un rastrellamento. È questa l’immagine che, a mio avviso, sintetizza, quasi coincide con il titolo scelto da Vittorini. L’illustrazione si riferisce ad uno degli ultimi episodi del romanzo, quello decisamente più brutale. In una caserma della milizia sono stati raggruppati un centinaio di ostaggi, catturati per rappresaglia, che presto saranno fucilati. Su uno di loro, il povero Giulaj, si accanisce la canaglia nazista, il capitano Clemm, distrutto per la perdita di uno dei suoi amati cani, «il miglior alano della Gestapo», ucciso durante un’azione antifascista contro il tribunale. In questa illustrazione a china il tratto di mio nonno è pulito, fermo; la mano si sofferma sugli ultimi attimi di vita di Giulaj, prima picchiato e poi costretto a denudarsi completamente, prima di essere sbranato dai cani, di fronte all’impassibile aguzzino: «egli voleva conoscere quello che stava distruggendo».
I dialoghi sul senso di una vita vissuta a metà («avere invece dell’amore il suo deserto»), sempre sul filo del rasoio, stanno a ritmare i 136 capitoletti del romanzo, intrecciando frammenti coreografici di contorno («andarono per morte strade, tra case distrutte, nel sole di foglie morte dell’inverno») con il dramma di giovani esistenze pronte al sacrificio:
– Enne 2: Mi domando che cosa penserai se fossi uno dei 40 che domattina saranno fucilati.
– Baffi grigi: Vuoi dire che non vale la pena sacrificare dieci dei nostri per ogni colpo che diamo al nemico?
– Enne 2: Dobbiamo colpire di più. Colpire fino a stordirli. Non lasciar loro il tempo di eseguire le rappresaglie. Perché accettare che 40 uomini siano fucilati domattina? Che facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa che è stata. Da loro (i morti) dobbiamo imparare quello per cui sono morti.
Ma, allora, in fin dei conti Uomini e no sta a significare la distinzione tra il bene e il male, tra violenza e non violenza, tra disumanità e umanità? Proprio su questo si interrogò nel 2011 lo storico Claudio Pavone, interpretando il titolo del romanzo come una distinzione forse troppo tranchant tra i partigiani (gli “uomini”) e i fascisti della Repubblica Sociale Italiana (i “non uomini”) e chiedendosi: «forse che i fascisti non erano anch’essi uomini?» Se si considera che Uomini e no, pur con tematiche totalmente differenti, è conforme a Conversazione in Sicilia, la risposta è decisamente affermativa e non potrebbe non esserlo. Nel suo primo romanzo, infatti, Vittorini enuclea il tema dell’Uomo e di come le sue scelte ne determinano l’esistenza sulla base di una precisa collocazione: l’appartenenza al genere umano o al genere umano perduto, quello in cui ovviamente anche egli si identifica. Questo è il mondo contraddistinto da chi ha provato sulla propria pelle le esperienze più estreme della vita come la miseria, la fame, l’emarginazione, l’ingiustizia, la sofferenza, la guerra. E perciò, ci sono uomini e ci sono uomini che non possono definirsi tali.
Per quanto, in uno dei 23 capitoletti scritti in corsivo, dove Vittorini si insinua come uno “spettro” nella narrazione, spesso accelerata dalla presenza di dialoghi serrati, lo scrittore sembra affidare al lettore il compito di accettare il distinguo presente nel suo titolo, continuando ad interrogarsi sulle azioni di ogni uomo e trasportando l’intreccio narrativo in un’atmosfera sospesa, carica di significati da interpretare e condividere.
L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e ch’era in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo. E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione? Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: e perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l’uomo. Ma l’offesa in sé stessa? Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo.
Immagini: due illustrazioni di Augusto Colombo per Uomini e no (1947 – per gentile concessione Eredi Famiglia Colombo)
di Claudio A. Colombo