Il 2025, a parte l’80simo della Liberazione, ha regalato non pochi anniversari “tondi”, che si configurano quasi sempre come occasioni di riflessione su importanti figure e vicende dell’antifascismo. Quest’anno è il cinquantennale della scomparsa di Emilio Lussu (1890-1975) e di Carlo Levi (1902-1975), a cui va aggiunto il 70simo anniversario della scomparsa di Andrea Caffi (1887-1955). Da che cosa sono accomunati questi tre personaggi? Sono stati antifascisti che, sia pure con sensibilità diverse, si sono opposti da subito alla violenza del regime di Mussolini e, nello stesso tempo, l’hanno fatto cercando una via rivoluzionaria per abbatterlo. Altre due caratteristiche sono state proprie di tutti e tre: da un lato hanno militato (in un caso per un periodo ridotto) nel movimento Giustizia e Libertà, fondato a Parigi da Carlo Rosselli e altri nel 1929; dall’altro hanno agito (in questo come molti altri loro compagni) tenendo ben presente il legame quasi “obbligato” in quei tempi tra politica e cultura. Lussu e Levi, al contrario di Caffi, divennero poi esponenti del Partito d’Azione sposando la politica attiva in Italia e partecipando attivamente alla Resistenza, mentre Caffi rimase in Francia. Altre caratteristiche accomunarono i tre militanti antifascisti: la versatilità e l’antidogmatismo, a conferma del fatto che essere radicali non significava per forza inquadrare le proprie riflessioni e l’attività politica in un’ideologia basata su certezze assolute, orientata a cristallizzare la realtà nel nome di una concezione deterministica della storia. Proprio la storia fu in quegli anni un terreno di riflessione privilegiato per gli antifascisti che, in grande maggioranza critici verso l’Italia liberale da cui si era generato il fascismo, tentarono di capire come costruire il futuro partendo dall’analisi del passato. Il Risorgimento e i suoi esiti furono analizzati non solo da Gramsci e da altri esponenti dei partiti operai, ma anche dagli altri antifascisti. Con particolare riferimento ai giellisti che, proprio su questo tema, si divisero. I “novatori”, nel 1936, ruppero con il movimento che, con Caffi, perse altri tre militanti di valore: Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua (ucciso durante la guerra civile spagnola per difendere la Repubblica). Lo stesso Carlo Rosselli, sempre attento al valore dell’unità nel movimento e nell’intero antifascismo in esilio, dopo la lettera di dimissioni dei quattro compagni, in un celebre articolo pubblicato sul settimanale di GL parlò di «separazione necessaria» (il titolo del pezzo). La rottura fu l’esito di un dibattito, aspro e approfondito, che si era svolto nella primavera del 1935 e che aveva visto proprio Caffi pubblicare due articoli: Appunti su Mazzini (29 marzo) e Discussione sul Risorgimento (1 maggio). Nel primo pezzo, Caffi scrisse parole importanti sulla necessità di riflettere «in modo chiaro e profondo rispetto all’Italia di domani», ponendosi contro il mito «ufficiale e scolastico del Risorgimento». Una posizione diversa da quella di Franco Venturi e Aldo Garosci, mentre Carlo Rosselli provò a mediare senza grande successo. Caffi si distinse poi ancor di più dai compagni incarnando un pacifismo intransigente associato alla ricerca di una forma di socialismo libertario venato di anarchismo, in totale opposizione al modello sovietico e, in generale, a ogni forma di totalitarismo. Caffi si mostrò quindi duttile ed eretico non solo rispetto ai filoni tradizionali del movimento operaio, ma anche verso coloro che, criticando il socialismo (massimalista e riformista), tentarono di rinnovarlo staccandosi nettamente dal marxismo. Si schierò contro la Concentrazione Antifascista (1927-1934), ma si mostrò diffidente anche verso i piccoli nuclei di oppositori disposti a gesti esemplari. Pensò, al contrario, che innanzitutto ci si dovesse rapportare il più possibile ai giovani favorendo la loro educazione civile e politica. Rifiutò l’uso della violenza, anche se praticata per combattere le tirannie. Il suo modo di vivere, da un lato alieno da ogni agio “borghese” e quasi attratto dalla povertà, dall’altro orientato solo alla riflessione e al dialogo con gli amici, lo rese incompatibile con l’idea di elaborare una piattaforma politico-programmatica organica. Ciò non gli impedì di avere grandi intuizioni e proporre suggestioni proprie solo degli intellettuali di spessore, come fu sottolineato da varie personalità del suo tempo che lo conobbero, tra cui Albert Camus. Quando, nel 1966, Bompiani pubblicò un suo celebre libro (Critica della violenza, uscito una prima volta nel 1946 in una forma leggermente più breve), scrisse l’introduzione Chiaromonte, il suo amico più caro che aveva conosciuto nell’ormai lontano 1932 grazie ad Alberto Moravia. Caffi, senza alcun intento retorico ma in modo sincero, fu definito da Chiaromonte «l’uomo migliore e inoltre il più savio e il più giusto che nel mio tempo io abbia conosciuto», per rimarcare il fatto che, al contrario del suo stile di vita tutt’altro che comune, Caffi era dotato non solo di un’intelligenza brillante ma anche del buon senso dei saggi. È, questa, un’immagine che si lega a considerazioni espresse da Gaetano Salvemini e da Antonio Banfi, che con Caffi collaborò a lungo. Il primo, secondo quanto riferito dallo stesso Chiaromonte, parlò di Caffi come dell’uomo più straordinario e dallo spirito più eletto che avesse mai conosciuto, tanto potente da essere avvicinato al «caos prima della creazione», insomma energia allo stato puro. Banfi parlò di Caffi come di un «cavaliere errante delle guerre e delle rivoluzioni». Nel 1958, tre anni dopo la sua scomparsa, lo ricordò così: «umanitario ribelle, raffinato e semplice insieme di vita, poliglotta e colto all’estremo, arguto ed entusiasta». Insomma una figura da riscoprire, forse per ricordare in primo luogo a noi stessi che, per provare a cogliere l’essenza delle cose, lo spirito critico va esercitato mettendo in discussione le certezze.

di Andrea Ricciardi

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