Per affermare l’identità di “nazione” non basta la Santa Madre Russia. E nemmeno l’America First degli Usa di Trump. La Russia non “perderà” la guerra con l’Ucraina, ma lo smacco è forte: che il più grande (per estensione) paese del mondo quale è la Federazione delle Repubbliche Russe stia con le spalle al muro per incapacità belliche di fronte alla più debole Ucraina, sia pure militarmente sostenuta da istruttori e armamenti euroamericani, quanto meno imbarazza. Chi lo avrebbe detto che lo zar Putin (al potere da oltre vent’anni) avrebbe perso il vecchio ateismo del dogma comunista e avrebbe visto il vecchio Papa cattolico in Mongolia (una comunità di fede di due o tremila anime) tentare un percorso segreto di approccio a una pace e a unariconciliazione (per ora impensabile) contro la guerra? Un conflitto che per la cancelleria vaticana è già dentro la terza guerra mondiale, approdata nel continente europeo, e che Putin non può neppure maledire se non in privato?

Eppure l’identità dell’’Europa è la religione dei diritti, arma potente se la diplomazia nel 2023 d.C. avesse più potere degli eserciti. Non è gran cosa di fronte alla presunzione di “forza” dell’impero ex zarista, ex sovietico, ex (ahimè) gorbacioviano della Russia e degli Stati Uniti d’America, quelli, ripeto, del “we first”. Essere primi dovrebbe essere ritenuto positivo in atletica e nei concorsi musicali o sul lavoro. Per gli americani essere stati primi con gli indiani non è stato un grande successo, tenendo conto di quante volte poi sono stati sconfitti, almeno dopo la Seconda guerra mondiale. Avere preteso la supremazia nel Sudest asiatico dopo la colonizzazione francese non è stato un grande successo, anche se Biden ci riprova perfino con la Nato “asiatica”. Erano altri tempi, ma la storia del Vietnam non va dimenticata: insieme con la precedente guerra di Corea segna le tappe dell’imperialismo americano, parallelo all’imperialismo (di tutt’altra origine e forma) sovietico. Era la Guerra fredda, che diventava caldissima dove si era scelto un teatro di sfida: i più deboli pagano ai “Grandi” il tributo in lacrime e sangue. E se in Vietnam morirono anche 60mila soldati americani, pazienza. I vietnamiti morti, come tutte le vittime, non “contano”. Furono milioni e non furono pazienti. Ci vollero anni, il mondo si rivoltò, i giovani americani disertarono, gli scienziati e le chiese maledissero la guerra: il popolo vietnamita non voleva essere più “indocinese”, nemmeno con gli americani. L’URSS li aiutò, logicamente, ma le armi erano in mano a gente che cercava di resistere (la parola vietcong corrispondeva alla nostra “partigiani”) fino ad ottenere la giustizia della liberazione. Rimasero indivisi (mentre la Corea dimostrava, con la presenza della Corea del Nord nucleare, l’utilità di reprimere le libertà quando questo è il desiderio e il bisogno dei popoli assoggettati) e oggi la cementificazione dei grandi alberghi sulle coste vietnamite attende turisti come in un paese qualsiasi, e il Vietnam è formalmente ancora comunista. D’altra parte Ho-Chi-Minh era un intellettuale, un patriota prima di essere un alleato dell’URSS, esprimeva un comunismo che significava in quel contesto libertà.

D’altra parte la sfida sui valori regge sempre e alla fine sconfisse la forza: il Vietnam vinse e gli USA firmarono l’armistizio nel 1973. Vollero però essere ugualmente “first” anche dopo la sconfitta e continuarono per due anni a bombardare spietatamente il territorio vietnamita. Ma due anni dopo furono vinti definitivamente, l’ambasciatore arrotolò le “stelle e strisce” e fuggì: la guerra era finita senza che tra le parti fosse stato firmato un trattato di pace.

Adesso la stessa favola tocca ascoltarla dall’altro grande leader mondiale, Putin, che spende il prestigio e la storia del suo paese per un’impresa ancor più stolta (e devastante) di quella americana: come l’impero zarista comprendeva di tutto, quanto a lingue, usi e costumi, dall’Europa al Pacifico, anche l’impero sovietico aveva la sua unità (anche linguistica), nonostante le grandi differenze nei grandi spazi. La perestroika comprese anche la federalizzazione dei popoli dagli Urali al Pacifico. Oggi tutti hanno ripreso il senso della loro relativa autonomia. La sconfitta della Santa Madre può portare novità non così scontate. E il mondo che cambia è il bello della storia.

di Giancarla Codrignani

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