Non sempre si dedica la necessaria attenzione ai quattro attentati che Mussolini subì tra il 1925 e il 1926 e che, quando l’eco del delitto Matteotti si stava definitivamente spegnendo, consentirono al duce e ai suoi sodali di dare la spallata finale all’Italia liberale, cancellando ogni forma di pluralismo. È questo il tema dell’ultimo volume di Mimmo Franzinelli[1], che per ricostruire i quattro episodi e il più ampio contesto che ruotò intorno agli attentatori si è avvalso di molto materiale inedito, proveniente anche da archivi privati. Dal libro, molto denso, emergono scenari del tutto diversi tra di loro. Il primo degli attentati, in realtà, non avvenne perché il 4 novembre 1925 fu sventato dalla polizia fascista. Come spiega bene Franzinelli, il “piano” di Tito Zaniboni, deputato riformista del PSI che aveva aderito al PSU di Matteotti, Treves, Turati, Anna Kuliscioff, Giuseppe Emanuele e Vera Modigliani, era conosciuto dalle autorità, che costruirono un’abile provocazione manipolando una figura priva di grande spessore, un «personaggio ondivago» guidato, per Franzinelli, «più da valutazioni di ordine esistenziale che da motivazioni politiche» (p. 4) e che, comunque, fu condannato a trent’anni di carcere. Per cogliere le ragioni del tentato gesto di Zaniboni, già eroe di guerra, Franzinelli ne traccia un profilo approfondito tanto da dedicargli una fetta rilevante del volume (le prime 132 pagine), in cui si affronta anche la porzione di vita successiva al fascismo (morì nel 1960). Emergono così appieno le sue varie “oscillazioni” politiche, la debolezza della sua identità, una certa disponibilità al compromesso ingenuo, ben rappresentato dal patto di pacificazione stretto con i fascisti nell’agosto del 1921, di cui Zaniboni fu uno dei promotori e che rivelò, ancor prima del sostegno a un vero e proprio accordo con Mussolini nel dicembre del 1922, la natura ambigua della destra socialista, politica e sindacale. Un’ambiguità che, per quanto riguarda il percorso di Zaniboni, sembrò lasciare spazio successivamente a un istinto “vendicatore” dopo il ritrovamento, nell’agosto 1924, del cadavere di Matteotti. Ma, nonostante la svolta che portò Zaniboni a intrattenere vari rapporti con esuli interessati a un “colpo di mano”, le sue scelte rimasero discutibili e poco comprensibili. Come quando a Parigi, già nel luglio 1924, ricevette due assegni per un totale di 300.000 franchi dal giornalista cecoslovacco Gunter Winter. Con questi fondi Zaniboni avrebbe dovuto aiutare il PSU per conto dei socialdemocratici cecoslovacchi ma, come prima cosa, scelse di comprarsi una costosa automobile, uno sperpero di denaro che proseguì e che gli costò l’espulsione dal PSU per “indegnità morale” nel settembre 1925. A quel punto Zaniboni, controllato dalla polizia ma inviso agli stessi fascisti oltre che alla maggior parte dei suoi ex compagni di partito, si rivolse alla massoneria e tentò di coinvolgere nei suoi progetti il generale Luigi Capello, poi ingiustamente condannato dal Tribunale Speciale.
L’ossessiva ricerca di finanziamenti da parte di Zaniboni si rendeva necessaria anche per far fronte a una situazione finanziaria molto dissestata, figlia di uno stile di vita tutt’altro che sobrio ed equilibrato. Zaniboni era un personaggio perfetto per essere strumentalizzato da chi, per un verso, ne controllava le azioni e, per l’altro, intendeva orientarne gli atti per gridare poi al complotto antinazionale degli antifascisti, equiparati spesso a veri e propri terroristi. La polizia seguì dunque la “goffa” congiura di Zaniboni fin dall’estate del 1924, gestendo al meglio la fase operativa dell’ottobre 1925 per far apparire il duce in pericolo e scatenare un’ulteriore repressione del già debole dissenso[2]. Proprio Mussolini decise di non far subito arrestare Zaniboni, manipolato dal suo ambiguo segretario Carlo Quaglia, facendogli completare i preparativi di un attentato che, in realtà, non ci fu e che ottenne come unico obiettivo involontario il rafforzamento del duce.
Il tema del “tirannicidio”, come soluzione estrema e risolutiva di fronte alla vittoria del fascismo, fu preso in considerazione anche da una componente dell’antifascismo più serio e intransigente, di matrice giellista e repubblicana. Franzinelli sembra ritenere che questo tipo di soluzione si sarebbe tradotto in un ulteriore spargimento di sangue e non avrebbe impedito al regime di consolidarsi. In realtà mai si potrà sapere cosa sarebbe accaduto se il colpo di pistola sparato da Violet Gibson, un’irlandese con serie turbe psichiche e lontana dalla politica, avesse ucciso il duce anziché attraversagli il naso. Mussolini, rispetto ai suoi sodali, aveva un particolare fiuto politico unito al carisma, era un buon conoscitore dell’umore delle folle visti i suoi trascorsi di socialista rivoluzionario, aveva notevoli doti di oratore ed era un giornalista tutt’altro che sprovveduto. Si può anche pensare che il fascismo senza Mussolini, pur in presenza di un violento colpo di coda, non sarebbe durato a lungo e che Vittorio Emanuele III non avrebbe accordato la stessa fiducia ai ras, meno rassicuranti anche per il Vaticano e il complesso del mondo cattolico, oltre che per i liberali filo-mussoliniani, per le forze armate, per la magistratura e per quei giornalisti non ancora del tutto “inglobati” nel nascente regime totalitario.
Anche di fronte al gesto di Gibson (7 aprile 1926), come dimostra Franzinelli, il tentativo di strumentalizzare la vicenda da parte dei fascisti assunse toni grotteschi e tragicomici, anche per le origini della donna che provocarono una campagna xenofoba. Spiccano i commenti dei giornali ormai quasi del tutto allineati al regime: «Il Messaggero» parlò di provvidenza divina per spiegare il gesto di Mussolini, che girò leggermente la testa nel momento dello sparo e così, inconsapevolmente, si salvò la vita. «Il Popolo» di Roma (edizione romana del «Popolo d’Italia») pubblicò addirittura una preghiera che, letta oggi, impressiona perché fa capire il grado di fanatismo e cecità delle coscienze diffuso nella società italiana del tempo. Bruno Cassinelli (già difensore di Zaniboni), spia dei fascisti, fu uno dei due avvocati di Gibson al fianco di Enrico Ferri, ex dirigente del PSI poi passato al PSU, direttore de «l’Avanti!» dal 1903 al 1908, famoso criminologo di scuola lombrosiana, massone e parlamentare di lungo corso (alla Camera dal 1886 per ben dieci legislature). Un’altra figura caratterizzata dalla spiccata tendenza all’opportunismo, tratto diffuso che emerge a più riprese in numerosi protagonisti del volume e che in Ferri si tradusse in una clamorosa adesione al fascismo.
Il terzo attentato (11 settembre 1926) fu realizzato da Gino Lucetti, un anarchico che agì nel solco di Gaetano Bresci (l’autore dell’assassinio di Umberto I nel 1900) e che si dimostrò irriducibile. Si trattò certamente del gesto più “politico”, figlio di una preparazione attenta, che non andò a buon fine perché la bomba a mano scagliata contro l’auto su cui viaggiava Mussolini rimbalzò senza esplodere subito, ferendo alcune persone. Anche in questo caso, però, il “fato” non fu l’unico motivo del fallimento del gesto. Alla determinazione di Lucetti non corrispose, infatti, una sua approfondita conoscenza della bomba e di come dovesse essere lanciata per colpire l’obiettivo. Lucetti fu condannato a trent’anni di carcere, rimase ucciso casualmente ad Ischia il 17 settembre 1943 (poco dopo essere stato liberato) vittima del fuoco tedesco, diretto contro le navi alleate.
L’ultimo attentato preso in esame, ricco di zone d’ombra, avvenne a Bologna il 31 ottobre 1926. In quella circostanza fu esploso un colpo di pistola contro l’auto che stava portando il duce, impegnato nelle celebrazioni della Marcia su Roma, alla stazione. A sparare sarebbe stato il giovane Anteo Zamboni, quindicenne, presunto anarchico, subito linciato dalla folla inferocita. Anche in questo caso, guardando alla famiglia del ragazzo e in particolare al padre Mammolo (condannato a trent’anni unitamente alla cognata Virginia Tabarroni, nel 1932 graziati perché ritenuti estranei ai fatti), Franzinelli fa emergere un contesto poco chiaro, caratterizzato da forti lacerazioni personali e contraddizioni. Fu proprio dopo i fatti di Bologna che Mussolini scatenò l’ultima spallata alle istituzioni liberali, tutt’altro che sensibili all’antifascismo, cancellando i residui spazi di libertà per le opposizioni. Prima si registrò un violento attacco ai giornali, quindi il completamento delle leggi fascistissime in conseguenza delle quali, tra l’altro, il 5 novembre del 1926 furono sciolti tutti i partiti d’opposizione, fu istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, fu reintrodotta la pena di morte e abolita ogni forma di pluralismo dell’informazione, già superato nei fatti. I deputati furono dichiarati decaduti il 9 novembre, Gramsci venne arrestato l’8 nonostante godesse ancora dell’immunità parlamentare. L’antifascismo fu ridotto al totale silenzio: chi poté abbandonò il paese (tra questi Salvemini, Togliatti, Nenni, Lussu, Tarchiani, Cianca, Saragat, Sturzo, Luigi Longo, Di Vittorio, Teresa Noce, i Modigliani, Francesco Saverio e Fausto Nitti) per riorganizzare un’opposizione che sarebbe stata lunga e dolorosa, alcuni di questi morirono in esilio (Turati, Claudio Treves e Donati) o furono assassinati (Carlo e Nello Rosselli) o perirono dopo gli omicidi di Di Vagno, Don Minzoni e Matteotti in conseguenza di pestaggi subiti dagli squadristi (Gobetti e Giovanni Amendola, principale animatore dell’Aventino). Altri antifascisti rimasero in patria preparando con grande fatica un diverso futuro possibile, senza tuttavia poter svolgere una militanza piena di fronte alle strettissime maglie della repressione fascista (Calamandrei, Riccardo Lombardi, La Malfa, Ada Gobetti, De Gasperi). Altri ancora continuarono clandestinamente l’attività politica a caro prezzo (Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Bauer, Pertini, Altiero Spinelli, Rossi Doria, Valiani, Terracini, Camilla Ravera, Parri, Secchia), senza considerare coloro che furono uccisi durante la Resistenza da nazisti e repubblichini (Leone Ginzburg, Colorni, Buozzi, Galimberti, Curiel, Braccini). È trascorso quasi un secolo dalle leggi fascistissime e la democrazia, nata dopo la sconfitta del nazifascismo e la fine della II guerra mondiale, non sembra godere di ottima salute, guardando anche oltre i confini italiani.
[1] Mimmo Franzinelli, Colpire Mussolini. Gli attentati al duce e gli albori della dittatura fascista, Mondadori, Milano 2025.
[2] Gli organi di stampa dell’opposizione subirono numerosi sequestri e sospensioni, tra i giornali sospesi ci fu l’organo ufficiale del PSU, «La Giustizia». Proprio il partito di Turati, Treves e Kuliscioff fu il più colpito, tanto che venne sciolto. Ma i vertici decisero rapidamente di farlo rinascere con un altro nome, Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), nel 1927 trasformato in PSULI per favorire la riunificazione con il PSI, che avvenne in Francia nel 1930.
di Andrea Ricciardi


