Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Editori Laterza, Milano-Roma, 2022
Per molto tempo sullo scaffale di fronte alla mia scrivania ci sono stati alcuni post-it variamente colorati e stropicciati, su uno di questi avevo appuntato una frase: «l’utopia non è un sogno irrealizzabile, l’utopia è il possibile non ancora realizzato, Joyce Lussu». Un’intuizione talmente chiara da essere quasi lapidaria, assoluta, persino ovvia nella sua precisione – perché non si pensa, a spiegarla così perfettamente, l’utopia? – che mi ha legata per sempre a Joyce Salvadori Lussu e alla scrittrice che l’ha raccontata, Silvia Ballestra. L’avevo trovata in un libro in cui ero incappata per caso, Joyce L., una vita contro, affascinata dal dialogo tra la giovane scrittrice e una donna che conoscevo quasi esclusivamente come compagna di Emilio Lussu. Anch’io avevo pianto, alle elementari, con la poesia Le scarpette rosse, e amavo Nazim Hikmet ma non mi ero mai chiesta chi lo avesse tradotto. Sempre a scuola avevo letto Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni: i libri di Lussu erano parte integrante dell’educazione scolastica, era un modo per trasmetterci un antifascismo limpido, mai retorico. Joyce, quindi, era la compagna di Emilio Lussu, il comandante della brigata Sassari, l’oppositore al regime intransigente e coraggioso, ma di lei non sapevo altro. Quel libricino mi aveva fatto scoprire il suo ruolo fondamentale nella storia del nostro antifascismo e della nostra cultura e, per questo regalo, non smetterò mai di ringraziare Silvia Ballestra, autrice oggi del volume La Sibilla. Vita di Joyce Lussu.
Gli snodi fondamentali della vita di Joyce sono ripercorsi dall’autrice evitando la mera ricostruzione biografica, ma piuttosto ricercando negli eventi noti quel filo che unisce tutte le Joyce che conosciamo: la scrittrice, la poetessa, la militante antifascista, la compagna di vita, la traduttrice, la madre, la donna che organizza avventurose fughe ed evasioni, l’antropologa che si interroga sul senso delle comunità femminili antiche, spazzate via nei secoli bui… Ma che cosa fa di Joyce la stessa Joyce?
Nasce nel 1912, terzogenita dopo Gladys e Max, in una famiglia marchigiana appartenente alla classe dei grandi proprietari terrieri da cui i genitori si allontanano polemicamente. Il padre Guglielmo è docente di Sociologia a Firenze, la madre Giacinta è una convinta antimilitarista e neutralista. Il loro legame con il mondo inglese (la colonia anglo-marchigiana nel fermano) è un potente trasmettitore di apertura mentale, emancipazione, indipendenza e “sensibilità libertaria”. Una coppia, quella dei Salvadori, che da subito si oppone al fascismo e, inevitabilmente, è fatta oggetto di minacce e violenze. Nel 1924 Guglielmo viene convocato nel covo fascista di Piazza Mentana e picchiato selvaggiamente; Max, il figlio, lo ha seguito per cercare di proteggerlo ma viene a sua volta malmenato. L’episodio è centrale nella formazione di Joyce, che ha 12 anni: di fronte al coraggio dei genitori e del fratello, la sua riflessione è limpida poiché messa «di fronte a ciò che è barbarie e ciò che invece è civiltà», non vi possono essere tentennamenti anche e soprattutto dal punto di vista della definizione che Joyce sceglie per se stessa, il «cosa voglio fare da grande, chi voglio essere», come scrive Ballestra. E Joyce sceglie: «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anch’io». È questo l’asse, il centro, la definizione della propria personalità, che guiderà Joyce negli anni futuri. È quella stessa fermezza cristallina che si ritrova in quasi tutti i protagonisti dell’antifascismo italiano, qualunque sia la loro collocazione: la scelta intima, prima ancora che politica, di mettersi dalla parte della civiltà contro la barbarie, un ideale non negoziabile che rende possibile attraversare anni durissimi di esilio, prigione, confino, violenze, lutti che portano via amici fraterni e intelligenze insostituibili.
Dal 1924 i Salvadori sono costretti all’esilio, i tre figli crescono in contatto con la cultura europea del tempo, che del resto fa già ampiamente parte del bagaglio di famiglia. Joyce, la più piccola, legge tutto quello che entra in casa senza alcuna censura e inizia a comporre poesie. Il percorso scolastico molto poco convenzionale le permette comunque di tornare in Italia per sostenere l’esame di maturità. Nel corso di uno dei rientri in patria, che sono concessi ai giovani Salvadori, incontra a Napoli Benedetto Croce, al quale fa leggere alcune sue poesie che il vecchio filosofo mostra di apprezzare. Joyce s’iscrive quindi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Heidelberg, dove si trova in occasione della visita di Hitler, nel 1932. Gli studenti decidono di stendere un documento per organizzare un contraddittorio con il futuro führer e lei è scelta quale portavoce in quanto italiana (in realtà ha già esperienza come oppositrice). Ma la realtà di una città assediata, in balia dei bivacchi nazisti, il «nevrotico, cadenzato abbaiare della voce di Hitler, il fragore degli applausi, altro che contraddittorio!», scrive, la scuotono profondamente. Cerca conforto nei suoi professori (Jaspers, Ricket), ma le loro risposte “ottuse”, incapaci di cogliere la tragedia incombente, dimostrano che forse è giunto il momento di muoversi al di fuori e oltre la raffinatissima ma cieca cultura accademica europea, che non riesce a vedere la catastrofe in arrivo.
Mentre Joyce è in Germania i genitori si trovano in Svizzera e Max vive tra Roma e Milano, conducendo una vita semiclandestina poiché ha aderito al movimento Giustizia e Libertà sin dalla sua nascita, nel 1929. In questa scelta, condivisa da tutta la famiglia, si colloca il punto di svolta nella vita di Joyce, sia come antifascista militante, sia come donna: nel 1933 le viene affidato l’incarico di consegnare al misterioso Mr. Mill un messaggio da parte dei compagni che si trovano al confino a Ponza. Dopo varie peripezie tra Belgio, Francia e Svizzera, in un appartamento di Ginevra incontra finalmente Emilio Lussu (questa la vera identità di Mr. Mill): come dice la stessa Loyce, è «il colpo di fulmine dei romanzi dell’Ottocento». Ma per loro non è ancora il momento giusto: Emilio, il leggendario capitano della Brigata Sassari, l’uomo che ben armato e scegliendo la posizione migliore per mirare respinge l’assalto fascista alla sua casa (persino il tribunale dovrà riconoscergli la legittima difesa), il protagonista della più bella, beffarda e leggendaria evasione da Lipari con Carlo Rosselli e Nitti, che egli stesso racconta con toni leggeri e senza «retorica roboante» perché, ci ricorda Ballestra, «si è antifascisti anche nella scelta dei toni, delle parole», Lussu nel 1933 è un rivoluzionario militante, non può fermarsi, non può pensare di avere legami famigliari. Dunque, si salutano il giorno dopo essersi trovati.
Seguono, per Joyce, quelli che l’autrice definisce «gli anni strani»: si sposa con un possidente marchigiano, fedele al regime, socio del fratello Max in una azienda agricola in Kenia. Forse è una pausa necessaria, per i due fratelli: la cappa del regime negli anni Trenta è oppressiva, impenetrabile, è quasi impossibile immaginare di scardinare il fascismo. Forse per i due giovani è necessario provare ad immaginare una vita che non sia esclusivamente di militanza. Joyce trascorre un lungo periodo in Africa, ma il matrimonio vacilla già nel 1936 e due anni più tardi rientra in Europa con una consapevolezza nuova e più forte, come emerge anche dalle poesie che continua a scrivere. Gli “anni strani” sono serviti a far sì che «quello che arriva dopo», il nuovo incontro con Emilio nel 1938, sia «voluto con ancora più determinazione», la necessità di «riprendere la storia dove si erano lasciati». Joyce adesso sa, avendo attraversato un periodo di crescita intima, che «è Emilio che vuole, è lui il suo uomo, non ce ne sono altri al mondo»: saranno insieme sempre, fino al 1975 (quando Emilio muore), creando un legame profondissimo e libero.
Silvia Ballestra, in una delle lunghe chiacchierate con Joyce, le chiede se non le sia mai venuta la voglia di scrivere un romanzo d’amore, Joyce fa una risata e le risponde «ma io l’ho scritto un libro d’amore!». È Fronti e frontiere, il suo libro più noto, il racconto avventuroso di una coppia che attraversa in lungo e in largo l’Europa in guerra, in una lotta di resistenza che ha una dimensione mondiale (non è solo la guerra ad essere mondiale, lo è anche la Resistenza), un libro di azione e di guerra e, anche, un grande libro d’amore. Sia Joyce sia Emilio, nei rispettivi racconti, descrivono come l’essere una coppia rende tutto più agevole: le polizie di regime sono spesso ottuse e pensano agli oppositori come dei poveracci solitari, mentre una coppia ben affiatata e solidale non suscita sospetti ed entrambi riconoscono che, insieme, sono come «mettere una potenza a un numero, elevandolo». Da qui in poi Joyce ed Emilio cambiano identità, professioni, paesi, lingue, per tutta la durata della guerra viaggiano nell’Europa occupata, «volano, navigano, camminano». Sono nella capitale francese quando arrivano i tedeschi, tra gli ultimi ad abbandonare Parigi mentre i nazisti marciano sugli Champs Elyseés senza incontrare resistenza. Con l’armistizio e il crollo della Francia libera, l’angoscia sembra prendere il sopravvento, il futuro si preannuncia lugubre e duro. Sia Emilio sia Joyce, rievocando nei loro scritti quel momento, usano la parola disperazione. Tutto è ancora più doloroso per Joyce che, poco tempo prima, ha dovuto abortire: impossibile pensare di avere un bambino in quella situazione di costante pericolo.
Quando De Gaulle, attraverso la BBC, chiede di «continuare a combattere», il sollievo è enorme, si può tornare ad agire: è il segnale per l’inizio della Resistenza. Joyce ed Emilio si spostano a Marsiglia, dove l’attività principale è organizzare la fuga e l’espatrio di decine e decine di persone (Joyce si dimostra bravissima nella creazione di documenti falsi), attivando i contatti anche con i servizi d’intelligence inglesi. Costretti però a fuggire, Emilio e Joycesi trasferiscono a Lisbona. Emilio è occupato nel lavoro politico, cerca contatti, progetta insieme ai compagni il futuro dell’Italia libera, si reca negli Stati Uniti dove, tra gli altri ritrova, Salvemini mentre Joyce segue un corso di addestramento militare in Inghilterra. Nel continuo girovagare da un paese all’altro, organizzando e scappando, scappando e lottando, ci sono alcuni obiettivi per loro irrinunciabili: uno di questi è far uscire dalla Francia il vecchio deputato socialista Emanuele Modigliani e sua moglie Vera. Modigliani, l’avvocato di parte civile nel processo Matteotti, è nel mirino dei tedeschi e della polizia di Vichy ed è doppiamente in pericolo in quanto oppositore ed ebreo. La pianificazione e la realizzazione della fuga meriterebbero un romanzo o un film. Dopo alcuni incidenti che rischiano di far saltare il piano, la missione riesce e, come racconta Vera, la dedizione di Joyce nel portare a compimento l’impresa ne fa «un atto squisitamente politico, squisitamente italiano antifascista». Indimenticabile l’immagine, nel racconto delle due donne, del vecchio deputato socialista che esibisce i documenti falsi come se non avesse fatto altro nella vita, «con una disinvoltura degna di un…delinquente consumato!», aggiunge un po’ sbigottita Vera.
Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, Joyce (con documenti regolari) ed Emilio (da clandestino, poiché non si fida di Badoglio) rientrano in Italia. L’emozione è fortissima: lei manca dal paese da 9 anni, lui da 14. Tutti e due raccontano la gioia profonda di poter di nuovo parlare italiano: «mi pareva straordinario, fenomenale che tutti, anche i bambini, parlassero correttamente l’italiano», dice Joyce. Ed Emilio: «quando scesi a Ventimiglia, mi volli fermare, farci un giro…Tutti parlavano italiano!…Ne ebbi tanta emozione che stentai a tenermi in piedi». Ma il crollo del regime non segna la fine della lotta antifascista e Joyce, nome in codice Simonetta, porta a compimento missioni difficili, contando sul fatto che per una donna è più facile attraversare le linee. A Capri, dove si reca come portavoce del CLN, ritrova Benedetto Croce, con il quale intreccia lunghe conversazioni sul futuro del paese: «lo facevo arrabbiare spesso», racconta, perché «io volevo la rivoluzione, lui no». E poi Napoli: la Napoli che si è liberata da sola, dove però gli alleati le sembrano «occupanti colonialisti» mentre il popolo che si è battuto durante le Quattro Giornate è di nuovo costretto al servilismo, a causa della miseria.
Nel giugno del 1944, quando Roma viene liberata dagli Alleati, Joyce ed Emilio si sposano in Campidoglio, due giorni dopo la liberazione della città. I testimoni della sposa, che mostra un bel pancione, sono Modigliani e la moglie Vera; per lo sposo, Silvio Trentin e la portinaia. A metà giugno nasce il figlio Giovanni. Negli anni seguenti Joyce non esiterà a raccontare l’esperienza del parto e della maternità, senza falsi sentimentalismi: come sottolinea Ballestra, è uno dei pochi racconti di parto scritti da una donna nella letteratura italiana. Anche in questo caso, Joyce non si tira indietro, non è reticente, scava nell’esperienza bella e destabilizzante della maternità. Del resto, è una figura anomala, «pericolosa in quanto sovversiva della condizione assegnatale in quanto donna», nota ancora Ballestra, e ne fanno riscontro le innumerevoli dicerie, pettegolezzi, mormorii che colpiscono lei ed Emilio. La reazione della coppia, tuttavia, è esemplare perché, come spiega Joyce, «il fatto è che non si deve perder tempo con chi è peggio di te, ma andare a cercare quelli che sono migliori di te».
Con la fine della guerra, Joyce è consapevole di dover trovare uno spazio, un ruolo che sia esclusivamente suo: se Emilio, ministro nei primi due governi post liberazione, e poi senatore sino al 1968, si dedica all’attività politica nelle istituzioni repubblicane, per lei è subito chiaro che il ruolo di «moglie del Ministro» non le appartiene. Segue quindi il suo particolare percorso politico: collabora con la rivista La Donna, legata al Partito d’Azione; con l’UDI (Unione Donne Italiane) e con il periodico Noi Donne; viaggia in lungo e in largo per il paese tenendo comizi, partecipando a convegni e incontri. Sin dai primi mesi successivi alla Liberazione coglie molto lucidamente i segnali di un paese e di una classe dirigente che hanno accantonato in fretta il desiderio di cambiamento, il vento del Nord smette presto di soffiare. Soprattutto, Joyce interpreta l’amnistia e l’articolo 5 della Costituzione come errori irrimediabili, occasioni volutamente perdute per rinnovare davvero il paese.
Joyce si scontra ben presto con la politica maschile all’interno dei partiti, ma col passare del tempo si fa fortemente critica anche nei confronti delle organizzazioni femminili, con le quali ha condotto in ogni caso battaglie e vissuto momenti importanti di organizzazione tra donne. La fine della guerra, però, è anche il momento in cui Joyce scopre e impara a conoscere la Sardegna e, attraverso di essa, a comprendere ancora più intimamente il suo compagno: la terra sarda rappresenta per Emilio il centro affettivo, ideale e politico del suo agire. Joyce la gira in lungo e in largo, a piedi, a cavallo; i pastori imparano a conoscerla, le donne a fidarsi di lei, e ritrova nelle persone le stesse caratteristiche del compagno, l’essere un tutt’uno con la terra, liberi. Con questo bagaglio di esperienze, sul finire degli anni Cinquanta, abbandona la militanza politica per come l’ha vissuta fino a quel momento e ricomincia a viaggiare, a incontrare nuove culture, nuovi popoli, fuori dal contesto europeo. Incontra chi si sta battendo per la propria libertà e, molto spesso, ne traduce le poesie perché «è convinta che con la poesia si possa fare storia».
Nel 1958 a Stoccolma, al Congresso per il disarmo e la cooperazione internazionale, conosce Nazim Hikmet. Nasce una lunga e profonda amicizia, tanto che il poeta le chiede di tradurre le sue poesie e, nonostante Joyce non conosca il turco, l’intesa intellettuale tra di loro le permette di comprenderle a fondo facendone una traduzione esemplare. Non manca l’occasione, inoltre, di organizzare una di quelle fughe avventurose in cui Joyce è bravissima: si tratta di far uscire dalla Turchia la moglie di Hikmet. All’inizio, solo Emilio – «grande teorico delle evasioni» – la appoggia, ma con una organizzazione degna di un action movie di tutto rispetto. La rocambolesca fuga riesce perfettamente, grazie anche all’aiuto e alla partecipazione di insospettabili personaggi.
L’attenzione di Joyce si rivolge in questi anni ai movimenti di liberazione africani, al processo di decolonizzazione che coinvolge larga parte del continente ed è colpita dalla «nascita di queste nuove società, libere, che si instaurano in paesi tutti da ricostruire», un processo che lei legge come «l’attimo in cui si realizza l’utopia». Qui l’autrice torna sul concetto di utopia, così caro a Joyce, riprendendo uno dei fili che attraversano l’intera trama del suo pensiero. Ballestra ci ricorda la mirabile intuizione per cui l’utopia è «una proposta di un possibile che c’è virtualmente, che ancora non è posto nella vita della società ma potrebbe esserci» tanto che, continua l’autrice, Joyce interpreta la liberazione dal nazifascismo e dal colonialismo come due momenti di piena realizzazione di ciò che, prima di realizzarsi, sembrava essere utopia. Non è solo l’Africa ad attirare Joyce, ma ovunque ci sia un movimento di liberazione, una voce da amplificare, una dissidenza oppressa lei va. Si reca in Albania, dove i partigiani le fanno conoscere poeti «forti e gentili», in Polonia, nel Nord dell’Iraq, nel Kurdistan, dove scopre la bellezza della poesia e della lingua curda e per ognuno di questi popoli trova la via per tradurre i loro poeti. I viaggi, gli incontri, le poesie, assumono ulteriore bellezza perché Joyce sa che, una volta a casa, c’è Emilio a cui raccontare. Con lui può «parlare da pari a pari, discutere insieme la vita che ciascuno inventava autonomamente». Ma non c’è più molto tempo per Emilio: il re pastore, come lo definisce Mario Rigoni Stern, l’uomo «della quercia e delle nuraghe, dei pascoli e delle trincee» muore nel marzo del 1975. Joyce chiude la casa di Roma e torna nelle Marche.
Negli anni seguenti continua a scrivere, raccontare, educare, trova nuovi modi di tessere le memorie e il presente, va nelle scuole, incontra i giovani: la sua casa tra Porto San Giorgio e Fermo, la vecchia casa di famiglia, è accogliente e sempre piena di amici. Sul finire degli anni Ottanta si occupa, da storica e antropologa, delle figure femminili legate alla terra, facendo ricerche sulla sibilla appenninica. Trova tracce di «una società comunitaria esistita in tempi remoti», dove le donne per secoli hanno «governato pacificamente le comunità tramandando e conservando saggezza e conoscenza, modi di vita alternativi e giusti per tutti». Joyce interpreta le sibille come donne sagge e pacifiche, attente all’ambiente. Sugli Appennini, sui monti albanesi (le Zane), a Gerusalemme, in Sardegna, la sibilla è «una donna intera», come dice a proposito di Elisabetta Lovico, sibilla barbaricina, conoscitrice di erbe e guaritrice. Una donna che «aveva autonomia, autorità e identità e le usava non per sopraffare ma per aiutare la sua comunità in maniera interamente femminile, diversa e opposta al potere patriarcale e guerriero». In questo senso, la sibilla ha una forte carica rivoluzionaria, libertaria e antifascista ed è una donna, potremmo aggiungere, che per se stessa, per il mondo e nel tempo in cui vive, sa riannodare e tessere tutti i suoi fili. Ballestra, dunque, riprende tutti i “fili” di Joyce, ne ricompone la trama e l’ordito, tesse per noi il disegno della sua vita, «donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, argomenti, intelligenza» e ci affida la «interezza» di Joyce Lussu, la Sibilla.
di Paola Signorino