Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022, Einaudi, Torino 2023
Il libro affronta un tema centrale benché rimosso della storia repubblicana: la messa in stato d’accusa, attraverso centinaia di procedimenti giudiziari, dell’intera vicenda resistenziale andata in scena con virulenza e con il grande supporto della stampa (quotidiani, periodici, rotocalchi) nell’Italia del dopoguerra. La delegittimazione della Resistenza, fenomeno che parrebbe essere una peculiarità del nostro presente, inquinato da rancorose polemiche, pericolose “contro-narrazioni” e provocatorie menzogne, ha in realtà un’origine assai lontana: si potrebbe dire, senza timore di esagerare, che esordisca sin dal 25 Aprile 1945, se non addirittura dall’estate del ‘44, nelle settimane successive alla liberazione di Roma. Il processo attraverso cui i combattenti per la libertà vennero trasformati in criminali, «assassini, vigliacchi, terroristi» (p. 13), è dunque al centro della ricerca di Ponzani. L’uso spregiudicato, da parte di una magistratura mai epurata, di norme risalenti all’Italia liberale e fascista, il clima di violento anticomunismo e l’evidente timore delle classi dirigenti di un fantomatico pericolo rivoluzionario, resero possibile negli anni Cinquanta il violento attacco contro l’intera esperienza della guerra partigiana.
Il significato profondo di una una scelta ribelle, intima prima che collettiva, quale fu la decisione di prendere le armi contro il nazifascismo, trovava la sua ragion d’essere in una lucidissima tensione contro l’ignavia, nel bisogno di rivoluzionare il paese, di scuotere gli apatici, di scagliarsi contro gli indifferenti. La partecipazione alla Resistenza rappresentò dunque il riscatto morale di un’intera generazione che, dopo il crollo del fascismo e la catastrofe dell’8 settembre, decise di combattere per la sopravvivenza propria e della patria. La speranza che questo slancio potesse sopravvivere intatto all’indomani del 25 Aprile si rivelò però un’utopia. Altrettanto utopico, tuttavia, fu immaginare che quello stesso slancio si potesse placare di colpo, “con una tirata di freno” e un immediato rientro nella normalità. Con il ritorno alla vita civile, i partigiani avrebbero desiderato la riconoscenza del paese, non solo in termini di agevolazioni economiche, ma soprattutto con il pieno riconoscimento del loro ruolo pubblico e l’inserimento nelle nuove istituzioni, garantendone la partecipazione attiva alla ricostruzione democratica del paese. La posizione assai scettica, per non dire ostile, del governo militare alleato e il timore della classe dirigente moderata che l’ala più radicale della Resistenza prendesse il sopravvento, contribuirono invece alla veloce «rimessa in discussione della legittimità degli atti di resistenza armati» (p. 11). Inoltre, nel paese stanco di guerre e violenze, lacerato, desideroso di “normalità”, emersero le posizioni di un a-fascismo rancoroso e scettico, brodo di coltura ideale per la progressiva criminalizzazione dei partigiani. Già all’indomani della Liberazione, e con sempre maggior virulenza negli anni seguenti, si palesò dunque con grande chiarezza «la messa sotto accusa dell’antifascismo», trasformando chi aveva combattuto contro i nazifascisti in «pericolosi fuorilegge che avevano attentato al bene della patria esponendola all’invasione angloamericana e alle rappresaglie», mettendo a repentaglio la sicurezza nazionale (p. 13). In realtà, già i Tribunali militari alleati avevano dato il via ai primi arresti nell’Italia del Nord, soprattutto a carico di partigiani garibaldini, nonostante la loro azione si fosse dimostrata indispensabile per «frenare gli istinti bestiali della folla inferocita» a causa delle indicibili violenze perpetrate da fascisti e nazisti. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, dunque, i partigiani vennero delegittimati dalla magistratura e dalla stampa mentre gli ex fascisti, repubblichini, responsabili di razzie, stragi e altri crimini contro i civili, sarebbero stati assolti, graziati e persino riabilitati.
Ponzani sottolinea come una delle cause principali dell’offensiva giudiziaria fosse da ricercarsi, dal punto di vista normativo, nella mancata equiparazione dei partigiani ai membri effettivi delle forze armate. Ma è chiaro che la sola normativa non sarebbe stata sufficiente per giustificare l’ondata di processi che, tra il 1948 e i primi anni Sessanta, trascinò «sul banco degli imputati tra i quindicimila e i ventimila partigiani». Si trattò, con tutta evidenza, di «una repressione sistematica sul filo di un’offensiva giudiziaria espressamente politica» (p. 14) che coinvolse oltre agli ex combattenti antifascisti (celebrati come eroi dalla retorica ufficiale, ma non nelle corti di giustizia e nella stampa popolare), centinaia e centinaia di militanti comunisti e socialisti attivi nelle lotte agrarie e sindacali, nell’occupazione di terre e in genere nei movimenti di protesta. Portati in tribunale, furono giudicati secondo leggi emanate durante il regime, nell’atmosfera violentemente repressiva degli anni Cinquanta.
Avvalendosi di una corposa documentazione, tra cui gli atti processuali, i fascicoli degli archivi giudiziari, dei tribunali militari e civili nonché delle carte dei collegi di difesa dei Comitati di solidarietà democratica, fortemente voluti da Umberto Terracini, Ponzani descrive la capillarità del “processo alla Resistenza” che si alimentò di una serie complessa di concause. Innanzi tutto, come ricordato, il mancato riconoscimento dello status di guerra legittima (definita tale in quanto condotta all’interno di un apparato statale) metteva a rischio “illegalità” ogni azione di guerriglia e ogni individuo che vi avesse preso parte; al contrario, i fascisti inquadrati nella Repubblica di Salò erano “protetti” dall’aver obbedito agli ordini dei superiori. A cascata, tale mancanza portava con sé una serie di conseguenze nefaste: il non riconoscimento della legittimità dei Tribunali partigiani trasformava le pene e le sentenze capitali comminate per reati gravissimi in “omicidi”; le azioni di battaglia e le requisizioni necessarie alla sopravvivenza delle bande divenivano atti criminali, omicidi, furti, razzie. E ancora, come ricordato, l’atteggiamento degli Alleati che mal sopportavano la presenza di un movimento partigiano armato, la mancata epurazione e il ritorno in posizioni chiave (anche nella magistratura) del personale del regime, le amnistie per fatti di guerra di cui poterono usufruire soprattutto gli ex fascisti, la Guerra fredda e il violento anti comunismo, portarono nel volgere di pochi anni alla criminalizzazione della Resistenza. Ponzani ricorda dunque le centinaia di casi che coinvolsero ex partigiani arrestati e costretti a scontare lunghissimi periodi di carcerazione preventiva (addirittura, per alcuni, fino a cinque anni) per essere poi prosciolti da ogni accusa. Come pure la paradossale vicenda di antifascisti della prima ora, condannati dal Tribunale speciale a decenni di carcere e costretti a scontare la pena ben oltre la caduta della dittatura. O, ancora, le vite sconvolte di chi, dopo aver combattuto per la libertà, dovette fuggire dall’Italia per evitare lunghi e insensati processi. Va sottolineato, tuttavia, che accanto al dolore per il trattamento loro riservato dalla nuova Italia, per molti partigiani e partigiane l’imperativo fu di nuovo quello di resistere: la scelta fatta originariamente tornava ad imporsi in tutta la sua chiarezza. Amarezza, delusione e rabbia riuscirono, nonostante tutto, a non prevalere grazie alla certezza che la Resistenza aveva aperto comunque alla democrazia.
Tra i casi eclatanti che segnarono in modo indelebile l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei partigiani, non si può non ricordare Via Rasella e il massacro delle Fosse Ardeatine. Con la complicità colpevole della stampa e dei rotocalchi, i processi contro gli esecutori dell’attentato romano diventarono il palcoscenico su cui mettere in scena la peggior criminalizzazione della Resistenza. Se il tema del consenso dei civili nei confronti delle azioni partigiane, soprattutto nelle città, ha piena legittimità ed è anzi essenziale nella ricerca storiografica e nella riflessione sulla storia della guerra di Liberazione, altro è invece la trasformazione dei combattenti in carnefici e dei carnefici in presunte vittime innocenti della crudeltà della guerra. Via Rasella e le sue conseguenze ancora oggi rappresentano un nodo cruciale nel dibattito pubblico, nonostante sentenze definitive della magistratura ne attestino la piena legittimità nel contesto bellico. Ad ogni anniversario, il “circo mediatico” si rimette in moto, distribuendo a piene mani informazioni imprecise, valutazioni tendenziose, improponibili ricostruzioni di presunti esperti, fino a vere e proprie menzogne e manipolazioni da cui purtroppo non sono esenti le maggiori cariche dello Stato, a dimostrare che il processo alla Resistenza non conosce pause ed è ancora in atto.
In ultimo, è necessario ribadire come all’opera della magistratura si affiancò sin dall’inizio l’azione capillare della stampa e dell’informazione, sia attraverso i rotocalchi a diffusione popolare e la televisione, sia grazie alle “migliori penne” del giornalismo italiano che nell’arco dei decenni diedero un contributo fondamentale nell’accreditare un’immagine distorta della Resistenza, sfruttando tra l’altro le ghiotte occasioni dei processi ai criminali nazisti (Kappler, Priebke, Reder). Campioni di questa campagna denigratoria nei confronti dell’esperienza partigiana furono, in momenti diversi, Indro Montanelli e Giampaolo Pansa, i quali trovarono ampio consenso presso un’opinione pubblica scettica e confusa, a cui veniva presentata l’immagine di una guerra partigiana militarmente inutile, di fatto sovversiva, volta – in fondo – a pareggiare odi personali e vendette familiari, condotta da individui in cerca di facili guadagni alle spalle della gente “per bene”, come d’altra parte ampiamente sostenuto dalla pubblicistica dei reduci di Salò. Né, sottolinea l’autrice, si possono dimenticare le posizioni assunte da Renzo De Felice, in particolare a metà degli anni Settanta, quando l’interpretazione del regime fascista come “dittatura soft”, abilmente veicolata dai mezzi di comunicazione, divenne la vulgata per ampia parte dell’opinione pubblica, delegittimando di conseguenza la necessità dell’antifascismo e della Resistenza. Con ciò, si chiudeva il cerchio andando incontro sia a quella parte del paese a-fascista e a-democratica, sia solleticando l’acrimonia vittimistica dell’estrema destra neofascista. Destra che poté tranquillamente giocare la carta della “equiparazione vittimaria”, utilizzando la retorica del comune cordoglio per le vittime di una guerra di cui nessuno portava la responsabilità. Si sanciva così la prevalenza della memoria sulla conoscenza storica, eludendo colpevolmente il nodo della guerra civile cui il fascismo aveva portato il paese.
La conclusione cui giunge Ponzani è chiaramente esplicitata nel sottotitolo del volume: il processo alla Resistenza, iniziato nel 1945, perdura ancora oggi. Se è pur vero che non è più dibattuto nelle aule dei tribunali, è divenuto tuttavia materia di scontro e di delegittimazione costante, pericolosa, a tratti eversiva, di ciò che è scaturito dalla guerra partigiana: la Repubblica e la sua natura costituzionalmente antifascista.
di Paola Signorino