Gianluca Scroccu, Piero Gobetti nella storia d’Italia. Una biografia politica e culturale, Le Monnier, Mondadori Education, Milano 2022
In un recente volume su Marx, edito da Carocci nel 2021 (Marx in dieci parole), Stefano Petrucciani ha scritto che il miglior modo di omaggiare un pensatore è quello di elaborarne un’analisi critica, da un lato evidenziandone intuizioni, doti, peculiarità e, dall’altro, limiti, errori di valutazione, contraddizioni. Il libro di Scroccu, di poco più di 150 pagine, dunque breve ma denso di riflessioni oltre che molto fluido, sembra andare in questa direzione. L’autore non è alla ricerca del documento inedito e sceglie di non trattare nei particolari tutti i momenti della vita di Gobetti ma, in quattro capitoli, ne fornisce un quadro completo mostrando di conoscere bene la sua ampia produzione e la storiografia che l’ha riguardato. È opportuno ricordare che la vita di Gobetti fu brevissima e che il suo importante ruolo culturale e politico si dispiegò tra il novembre 1918 e il febbraio 1926. Meno di otto anni in cui, prima di emigrare a Parigi per andare a morire, dopo le percosse subite in patria dai fascisti, il giovane intellettuale torinese fondò tre riviste e una casa editrice, mostrando in concreto di essere innanzitutto un grande organizzatore culturale.
La prima rivista, Energie Nove, ebbe due serie tra il 1918 e il 1920. In quella stagione fu centrale il ruolo di Santino Caramella e di Ada Prospero, sua amata (sorprendentemente contraria all’estensione del diritto di voto alle donne) da cui ebbe il figlio Paolo che le lasciò neonato quando emigrò in Francia. Tra gli illustri collaboratori, si ricordano Croce, Prezzolini, Salvemini, Gramsci, Angelo Tasca, Balbino Giuliano (poi divenuto fascista e nel 1929 ministro dell’Educazione Nazionale) e Ubaldo Formentini. La seconda rivista, il settimanale La Rivoluzione liberale, visse tra il febbraio del 1922 (quando fu pubblicato il “manifesto della Rivoluzione liberale”) e il novembre del 1925, configurandosi come un terreno di analisi e dibattito all’insegna dell’antifascismo radicale e, per questo, causa della rottura politica di Gobetti con Prezzolini, fautore della Società degli Apoti, che rappresentò pure l’inizio della fine dei rapporti con Salvemini. Su La Rivoluzione liberale scrissero anche Bauer, i fratelli Rosselli, Brosio, Carlo Levi, Adriano Olivetti, Sapegno e Basso. La terza rivista, Il Baretti, nacque come supplemento letterario de La Rivoluzione liberale nel dicembre 1924 (pur essendo stato annunciato già nel 1922) e sopravvisse a Gobetti fino al dicembre 1928 divenendo un quindicinale. Alle riviste si aggiunse la casa editrice che portò il suo cognome e che, tra il 1923 e il 1926, pubblicò oltre cento volumi di autori quali l’amato Vittorio Alfieri, Sturzo, Einaudi, Montale, Dorso,Salvemini, Giovanni Amendola, Curzio Malaparte e John Stuart Mill, che ci ricorda come un’altra qualità di Gobetti fosse il suo respiro internazionale, oltre che una straordinaria versatilità.
Il volume di Scroccu, dunque, non si configura come un’agiografia ma come un ritratto equilibrato che non vuole essere esaustivo ma che, concepito non solo per gli “addetti ai lavori”, si può rivolgere efficacemente anche ai giovani che, per lo più e non certo per loro responsabilità, ormai ignorano gli intellettuali e i politici che sono stati centrali nella storia del Novecento, italiano ed europeo. Sulla base della premessa iniziale e di quest’ultima considerazione inerente al clima culturale odierno, ci si può chiedere dove “tornano i conti” in Gobetti, contestualizzando le sue riflessioni e la sua attività politico-culturale, e come si può inquadrare la sua eredità, per alcuni aspetti perfino controversa.
La prima cosa che viene in mente è che Gobetti intuì subito che la buona politica non può essere disgiunta da un’attenzione all’etica, cosa che non significa in alcun modo essere dei moralisti. Nella sua breve esistenza egli assunse posizioni molto radicali e non sempre coerenti tra di loro, ma non è possibile dimenticare che quando fondò Energie Nove aveva 17 anni (!) e che i giovani, in ogni epoca, sono dotati di grande energia e voglia di verità ma, non per questo, possono cogliere al meglio tutte le sfaccettature della realtà, ammesso che ci riescano poi gli adulti. Gobetti aveva certamente una sete di sapere non comune, unita a una maturità per molti aspetti strabiliante. Se così non fosse stato, egli non avrebbe potuto dialogare a fondo con intellettuali maturi come Prezzolini, Croce, Einaudi, Gentile e Salvemini. Quest’ultimo fu forse colui che più di tutti lo influenzò nonostante la distanza politica che, a un certo punto, si creò tra i due dopo la controversa esperienza della Lega Democratica, da cui nacque nel 1920 la Lega degli Amici della salveminiana Unità con sede a Torino, della quale Gobetti divenne segretario.
Due tratti, tipici dei giovani ma in lui affiancati da un senso critico particolarmente spiccato, emergono con forza dai suoi scritti e dalle sue scelte di vita: l’intransigenza e l’onestà intellettuale. Si tratta di caratteristiche, non a caso, figlie in prevalenza del suo rapporto con Salvemini e destinate a influenzare, tra gli anni Venti e Quaranta, migliaia di giovani antifascisti che, oltrepassando i confini di Torino, combatterono il fascismo prima in Giustizia e Libertà e poi nel Partito d’Azione. Gobetti, nonostante lo stretto e complesso rapporto con Gramsci (collaborò con L’Ordine nuovo fino all’ottobre del 1922 tenendo una rubrica teatrale e letteraria) e l’avvenuta presa di coscienza della centralità della classe operaia (s’interessò molto ai consigli operai), fu e rimase fino alla fine un liberale ma, nello stesso tempo, un vero rivoluzionario. Era cioè attento alla persona (ma non “confinata” nell’individualismo) e, insieme, alla collettività senza perseguire il collettivismo, essendosi formato con Einaudi (insieme a Ruffini e Solari suo docente all’università) e Salvemini all’insegna del liberismo economico. Dunque, pur attento al successo della Rivoluzione d’ottobre bolscevica e all’ingresso delle masse nella storia, figlio innanzitutto della Grande guerra, alieno da ogni forma di dogma non fu un socialista né, tantomeno, un comunista.
Essere un rivoluzionario liberale, per Gobetti, significava anche studiare a fondo la storia del Risorgimento e interpretare, in linea con Salvemini ma per alcuni aspetti anche con Gramsci, la questione meridionale come problema nazionale, la cui risoluzione per lui era necessaria pena il mancato sviluppo socio-economico e politico-culturale di tutto il Paese. In quest’ottica, il Risorgimento era stato una “rivoluziona mancata” poiché aveva prevalso un liberalismo conservatore, monarchico, centralista e lontano dai diritti delle classi meno agiate e degli esclusi. La centralità della storia era dunque, per Gobetti, una conseguenza logica per chiunque avesse voluto comprendere il presente e progettare il futuro con una solida coscienza critica. Da qui gli attacchi verbali, anche molto violenti, all’immobilismo di coloro che accettavano il presente in modo acritico e vigliacco, avallando il trasformismo incarnato da Giovanni Giolitti e le ambiguità di una politica, non solo a suo dire, incapace di cogliere la modernità e di valorizzare le giovani generazioni. Da qui prima la vicinanza ideale con i “vociani”, poi con tutti coloro che non accettavano il presente ritenendo di doverlo modificare alla radice con una rivoluzione culturale prima ancora che politica in senso stretto. Ecco la spiegazione della grande attenzione mostrata sempre da Gobetti per l’istruzione, considerata il nucleo della crescita della persona, il viatico per acquisire una libertà di scelta indispensabile per il pieno sviluppo della coscienza.
Da qui si può partire per tentare di comprendere pure cosa “non ha funzionato” in Gobetti che, anche per la brevità della sua vita, non produsse un pensiero organico (comunque non necessariamente una garanzia di buona politica e di benessere sociale) e che fu molto più capace, a livello politico-culturale, di attaccare il conformismo e smontare le certezze che non di costruire o, per dirla meglio, di salvaguardare quel che, sia pure con molti limiti, stava funzionando nell’Italia liberale. Un po’ come Salvemini, Gobetti non comprese i danni e le tragiche illusioni generate dal sostegno all’interventismo democratico (presto schiacciato da quello nazionalista) né i rischi della demonizzazione di tutti i partiti, come se il meccanismo della rappresentanza insito nella crescente centralità del Parlamento, unita al sistema proporzionale che era servito ai partiti di massa per affermarsi nel 1919, fosse del tutto inadeguato a gestire la società.
La cupa visione della realtà, ben lontana dall’ottimismo rosselliano come più avanti notò argutamente Vittorio Foa, si tradusse in un pessimismo quasi del tutto privo di speranza, che coincise con una fiducia eccessiva nella rigenerazione spirituale del Paese come unica strada verso il rinnovamento. Rigenerazione prima affidata a una élite, quasi in contrasto con gli operai rappresentati a livello politico e sindacale dai socialisti che, riformisti o massimalisti, miravano a un’alternativa di sistema che superasse il liberalismo tout court, programma che Gobetti non poteva sposare. Poi demandata agli stessi operai come forza emergente della storia per realizzare, però, una rivoluzione liberale non proprio chiara nei suoi contorni se si pensa al possibile rinnovamento delle istituzioni dell’Italia liberale e della politica nel suo complesso. Ecco che, forse, una forma nobile di populismo sembra fare capolino e, con essa, la difficoltà di descrivere i caratteri di una moderna democrazia liberale. Senza dimenticare che l’attenzione per i soviet e per i consigli di fabbrica, non lontani dalla democrazia diretta immaginata successivamente da una parte degli azionisti come strumento utile a limitare gli squilibri della democrazia rappresentativa, come già accennato non coincise in Gobetti con l’adesione ad alcuna forma di socialismo, utopistico o scientifico che fosse. Eppure quando si trattò d’immaginare nuove forme di socialismo, a cominciare da quello liberale di Rosselli che mise in discussione alla radice il marxismo, non si poté prescindere dalle riflessioni critiche di Gobetti e dalla sua cultura del dubbio.
Un altro limite, per la verità molto diffuso nel mondo politico-culturale italiano, fu una sua tardiva comprensione del pericolo fascista. È vero che, nel maggio 1922, uscì un numero monografico de La Rivoluzione Liberale sul PNF ma è altrettanto vero che Gobetti non si rese conto della pericolosità del magma esplosivo che, nell’immediato primo dopoguerra, caratterizzava la società italiana e un mondo politico sempre più frammentato a sinistra e, tra i liberali come tra i cattolici, per lo più sordo ai campanelli d’allarme rappresentati dalla violenza squadrista tollerata, quando non alimentata, dalle autorità e dalla magistratura in funzione antisocialista. Soltanto nel periodo precedente alla Marcia su Roma, il fascismo provocò circa 3.000 morti e forse in quella fase, più che picconare il sistema e immaginare che il fascismo fosse una nuova incarnazione del tradizionale conservatorismo e della reazione, si sarebbe potuta cogliere meglio la pericolosa modernità di un fenomeno che, ben presto, avrebbe assorbito il nazionalismo e schiacciato le sinistre, divise, incapaci di cogliere le priorità del momento e per lo più concentrate dogmaticamente sull’attualità del socialismo o della rivoluzione ispirata al 1917 russo. Non fecero meglio gli altri antifascisti che, in buona parte, si “svegliarono” davvero dopo l’assassinio di Matteotti, senza tuttavia riuscire ad organizzare un fronte unitario di opposizione e, nella maggior parte dei casi, non cogliendo l’ambigua debolezza del re Vittorio Emanuele III. Salvemini stesso ammise questo deficit di coscienza, Croce passò convintamente all’opposizione soltanto nel 1925, Gramsci e molti esponenti dell’area socialcomunista più avanti capirono che l’alternativa di sistema, allora, sarebbe stata la completa affermazione di una dittatura di destra e non del socialismo (o del comunismo), che in realtà erano già stati sconfitti anche per un profondo mutamento degli scenari internazionali intervenuto tra il 1919 e il 1921.
Il fascismo era sì un fenomeno sfuggente e sfaccettato, come lo era Mussolini e la sua storia politica, ma non era D’Annunzio il vero pericolo. Gobetti fece in tempo a cogliere in parte la pochezza della piccola-borghesia e il consenso al nascente regime totalitario, colto da molti solo in un secondo tempo. Tuttavia, nel vero momento di passaggio, cioè alla fine del cosiddetto biennio rosso, continuò a scagliarsi contro il modello esistente senza capire che, qualora fosse caduto, avrebbe lasciato il posto a qualcosa di molto peggio. Lo stesso duce, fornendo messaggi equivoci, favorì la difficoltà di comprensione del momento da parte di quelli che sarebbero poi divenuti i suoi più accaniti oppositori. Ma questa sua capacità di muoversi come un camaleonte e di fiutare una possibilità concreta di affermarsi fu di certo favorita dall’atteggiamento di chi, in buona fede, guardò forse più al dito che alla luna, in questo caso trasformatasi rapidamente da bianca in nera. Qualche eccezione, Salvatorelli può essere un esempio, non fu sufficiente per sensibilizzare l’opinione pubblica. Quando si capì la forza del fascismo, era ormai troppo tardi per evitarne il successo.
Rimane, in Gobetti, l’interpretazione del fascismo stesso come autobiografia della nazione, un’idea sostanzialmente antitetica a quella di Croce e con alcuni punti di contatto con quella di Gramsci che, tuttavia, pur percependo il rischio della vittoria di una “terribile reazione” come alternativa al successo della rivoluzione, come già accennato si mostrò in ritardo e non capì appieno che la Torino del proletariato industriale non incarnava l’Italia nel suo complesso. Gobetti, con “l’elogio della ghigliottina” del 23 novembre 1922, pur mostrandosi lucido nel cogliere alcuni aspetti dell’atteggiamento degli italiani e sostenendo con forza l’opposizione intransigente al fascismo come unica strada utile da percorrere ad ogni costo, s’illuse che l’affermazione del “tiranno” avrebbe svegliato le coscienze quando queste erano, ormai, per lo più annullate dalla violenza alla quale, molto presto, si sarebbe affiancata la martellante propaganda di regime.
Non è dato sapere cosa avrebbe fatto e scritto Gobetti se fosse sopravvissuto. Si sarebbe avvicinato di più al socialismo? Avrebbe insistito sulla rivoluzione liberale, diversamente declinata in base anche agli sviluppi internazionali dopo il definitivo consolidamento del totalitarismo fascista e l’avvento di Hitler al potere in Germania? Avrebbe insistito sulle battaglie di lungo periodo concentrandosi ancora sulla rigenerazione spirituale del Paese attraverso un’attività essenzialmente culturale o si sarebbe avvicinato alla lotta politica praticata dai dirigenti di partito dell’area laico-socialista costretti all’esilio? Si sarebbe ricongiunto con la famiglia in Francia? Che rapporto avrebbe costruito con il Rosselli fondatore di Giustizia e Libertà o con i comunisti? Nel quarto capitolo Scroccu, autore di un libro intelligente, parla del “lascito e della fortuna di Gobetti nell’epoca repubblicana”. Pur non tacendo evidenti strumentalizzazioni e ambiguità da parte di esponenti di vari partiti e movimenti alla faticosa ricerca di nuovi pantheon, per molti aspetti grotteschi, Scroccu sembra guardare al presente e al futuro della politica e della società civile con più ottimismo del suo biografato. Ci si augura che abbia ragione.
di Andrea Ricciardi