Il 16 febbraio 1926 moriva a Parigi Piero Gobetti, giovane intellettuale antifascista, senza avere ancora compiuto 25 anni. Soltanto diciassettenne fondò nel 1918 la sua prima rivista, Energie Nove, attraverso la quale intese inserirsi nel dibattito pubblico promuovendo, in primo luogo, un rinnovamento culturale e morale in un Paese, l’Italia, appena uscito dalla guerra e fortemente instabile dal punto di vista politico e socio-economico. Molto vicino a Gaetano Salvemini, Gobetti nell’immediato primo dopoguerra non accettò di dirigere la rivista fondata nel 1911 dallo storico molfettese, L’Unità, pur partecipando a un embrione di movimento politico, la Lega democratica. In rapporti con Gramsci, Gobetti, sempre più attento al ruolo centrale della classe operaia nella società e al suo crescente peso politico, collaborò con il quotidiano del PCd’I L’Ordine nuovo in veste di critico teatrale e letterario. Ostile a Giovanni Giolitti e al “giolittismo”, che a tratti lo divise da altri antifascisti come Salvatorelli, nel 1922 fondò La Rivoluzione liberale, a cui fece seguire una casa editrice molto innovativa, che gestì con grande difficoltà di ordine pratico ma che rappresentò una sorta di oasi culturale nella fase in cui l’Italia liberale si stava sgretolando sotto i colpi della violenza fascista, che aveva fortemente indebolito la sinistra (politica e sindacale) con il determinante appoggio di una buona parte delle classi dirigenti e delle stesse autorità fin dall’inizio del decennio. È bene ricordare che il fascismo, nato come movimento nel 1919 e nel novembre 1921 divenuto partito, provocò prima della Marcia su Roma più di tremila morti (oltre a diverse migliaia di feriti) e che, a onta di qualche “smemorato” impegnato in grotteschi distinguo coerenti con la fiera rivendicazione delle origini anti-antifasciste (e antidemocratiche) dell’MSI, da cui discende direttamente la principale forza dell’attuale governo, la violenza fu il suo principale tratto distintivo fino al 1945 (e anche oltre).    

Nel settembre 1924, dopo aver subito un violento pestaggio dai fascisti, occasionato da una frase (contenuta in un articolo) ai danni di Carlo Delcroix, un mutilato di guerra che aderì al fascismo, Gobetti non si arrese al nascente regime totalitario e pose le basi per la genesi di una nuova rivista, Il Baretti, che vide la luce alla fine dello stesso 1924 e che gli sarebbe sopravvissuta fino al 1928. Tuttavia gli spazi di libertà in Italia, dal discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925 e grazie alla complice inazione della monarchia sabauda di fronte alla scelta aventiniana delle opposizioni, si restrinsero al punto da non lasciare alcun autentico margine di movimento all’antifascismo organizzato, pur in presenza di altre riviste e giornali (come Il Caffè e Il Quarto Stato) che tentarono di resistere alla censura e ai numerosi sequestri fino alla definitiva chiusura. Gobetti, molto attento alla questione meridionale (importante un suo viaggio in Sicilia proprio nel 1924, quasi due mesi dopo le elezioni), provò a lanciare i Gruppi della Rivoluzione liberale con l’obiettivo di sviluppare una militanza politica attiva di tipo nuovo, che potesse affiancare i partiti esistenti per promuovere un rinnovamento radicale. Tuttavia, viste le crescenti difficoltà nel tradurre in pratica le sue molte idee, nel 1926 Gobetti prese la sofferta decisione di lasciare la famiglia a Torino (l’amata moglie Ada e il piccolo Paolo), dove era nato nel 1901 da una famiglia di umili origini, e di emigrare a Parigi per continuare la battaglia antifascista tentando di caratterizzarla per un più ampio respiro internazionale. L’esilio, tuttavia, durò solo otto giorni: dall’8 al 16 febbraio. Le conseguenze del pestaggio del 1924, unite ad altri problemi figli delle reiterate violenze subite (compresi arresti, minacce, perquisizioni), purtroppo si fecero sentire e non gli diedero scampo conducendolo a una morte prematura. Mussolini, com’era stato per Matteotti nel 1924, ben cosciente dell’intransigenza di Gobetti, trasse un notevole vantaggio dalla scomparsa di un altro suo irriducibile avversario e, nella parte finale dello stesso 1926, poté stravolgere definitivamente l’architettura dello Stato liberale e cancellare ogni garanzia di libertà con le “leggi fascistissime”.

La forza di Gobetti e l’ampiezza dei suoi interessi sono evidenti nel carteggio del 1924, ora pubblicato da Einaudi e curato con estremo rigore da Ersilia Alessandrone Perona, che si era già occupata con la stessa profondità d’analisi dei carteggi gobettiani degli anni 1918-1923 raccolti in più volumi. Ci si augura che Alessandrone Perona, studiosa esperta e di grande spessore, voglia completare l’opera con un ultimo volume che, coprendo il 1925 e i primi due mesi del 1926, possa restituire appieno la complessità e la ricchezza di una figura di assoluto rilievo della storia del Novecento italiano. Entrando nel merito del carteggio del 1924, sia pure limitandone in questa sede l’analisi per via della sua ampiezza (1765 lettere, il 90% scritte a Gobetti, il volume è di 1507 pagine più il corposo saggio introduttivo di Alessandrone Perona, che ne chiarisce i contorni nel miglior modo possibile), molte cose colpiscono il lettore. Le lettere ci dicono che esistono diversi piani attraverso cui leggerle: ideologico-politico, editoriale (che contempla diversi elementi economico-organizzativi non trascurabili), letterario (e artistico in generale). Inoltre i mittenti (le personalità più note ma anche le figure di secondo piano, non meno importanti delle prime per cogliere l’impressionante ampiezza del reticolato di rapporti costruito da Gobetti), esplicitando le loro riflessioni, raccontano un pezzo della loro storia. Emergono dunque le proposizioni e l’energia, ma anche i timori e la rabbia, le contraddizioni e le inevitabili incertezze palesate dai molti corrispondenti. Tra questi Ernesto Rossi, Dorso, Carlo e Nello Rosselli, Croce, Curzio Suckert (fascista), Prezzolini (grande amico di Gobetti ma destinato a rompere con l’antifascismo e con Salvemini), Giovanni Amendola (anch’egli morto in Francia per i postumi della violenza perpetrata ai suoi danni dai fascisti), Bauer, Augusto Monti, Brosio, Luigi Einaudi, Lussu, Giovanni Ansaldo (che poi aderì al fascismo), Mario Grieco, Umberto Morra di Lavriano, Edoardo Persico, Felice Casorati, Francesco Saverio e Vincenzo Nitti, Tommaso Fiore, Carlo Levi, Novello Papafava, Santino Caramella, Montale, Sturzo, Missiroli, Guido Mazzali, Zuccarini, Max Ascoli, Adriano Tilgher, gli stessi Salvemini e Salvatorelli, soltanto per citarne alcuni. Guardando alla struttura del libro e alle modalità seguite dalla curatrice per approfondire il mondo gobettiano, sono fondamentali le 328 biografie (pp. 1256-1475) con le quali, prima dell’ampio indice dei nomi, si chiude il lavoro.

Un’ultima considerazione riporta al valore dei carteggi come fonte storica imprescindibile per cogliere l’atmosfera del passato, riguardo alla dimensione pubblica e a quella privata dei corrispondenti. Non è opportuno usare le fonti primarie, come talvolta fanno anche gli studiosi, per piegarle a un “teorema” costruito servendosi delle categorie interpretative del presente. È vero che al passato si rivolgono domande diverse a seconda delle epoche, ma rimane il fatto che contestualizzare una fonte significa provare a coglierne il significato che ricopriva quando è stata prodotta. Soltanto tenendo presente questo approccio, proprio di Alessandrone Perona, ci si può calare nella complessità del reale ed evitare di banalizzare il corso degli eventi. Nell’era dell’attimo che viviamo, travolti da slogan e informazioni non sempre utili a capire la realtà, si può confondere la ricerca storica con la divulgazione, che pure è centrale in tempi in cui l’uso distorto della storia domina la scena pubblica.  

di Andrea Ricciardi

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