Massimo Castoldi, Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il «contrappasso», Roma, Donzelli Editore, 2020, 240 pp.

All’alba del 10 agosto 1944, in Piazzale Loreto, quindici detenuti per motivi politici, prelevati dal carcere di San Vittore, senza alcun processo o condanna specifica, furono uccisi su ordine degli occupanti tedeschi da un plotone di esecuzione composto dai militi della Legione autonoma mobile Ettore Muti. La fucilazione fu violenta e scomposta, una carneficina più che un’esecuzione. I corpi massacrati, ammucchiati presso una staccionata in legno contigua a un distributore di benzina, furono esposti, secondo una macabra ritualità, fino al tramonto, sotto il sole cocente d’agosto, davanti a una folla silenziosa e sbigottita. A presidiare la zona e i cadaveri i militi della Guardia nazionale repubblicana (Gnr), con l’assoluto divieto a famigliari e conoscenti di avvicinarsi e ricomporre i corpi insanguinati, sui quali i fascisti continueranno a infierire per tutta la giornata, negando loro nella maniera più brutale il diritto all’ultima dignità.

Intrecciando sapientemente fonti di diversa tipologia in gran parte inedite – documenti d’archivio, inchieste giudiziarie, testimonianze e memorie famigliari – Massimo Castoldi, innanzitutto, ricostruisce per la prima volta le biografie umane e politiche dei quindici martiri, il loro ruolo nell’antifascismo e nella Resistenza, le vicende dell’arresto, le logiche, le dinamiche e le responsabilità dell’eccidio; nel contempo decostruisce le mitologie, le deformazioni,  le manipolazioni strumentali che, durante e dopo, sono fiorite su quel drammatico evento, ripercorrendo le modalità attraverso cui ne è stata elaborata e veicolata la memoria pubblica.

In primo luogo, la strage di Piazzale Loreto non fu una rappresaglia seguita a due attentati compiuti l’8 e il 9 agosto e attribuiti ai Gruppi di azione patriottica (Gap): le bombe, cioè, esplose sotto un autocarro tedesco che stazionava in Viale Abruzzi, provocando la morte di otto passanti italiani, e l’uccisione su piazzale Tonoli di un capitano della milizia ferroviaria della Gnr. Così venne presentata, nell’immediato, dal Comando tedesco e dalla Gnr e così venne divulgata dalla memorialistica successiva dei reduci di Salò e dalla pubblicistica neofascista che diffusero, perfino, la leggenda del «buon Carlùn» «l’anziano bonario maresciallo»  Heimnz Khün – rimasto leggermente ferito nel corso dell’esplosione – che ogni mattina  distribuiva  gratuitamente viveri per la popolazione, servendosi dell’autocarro per il trasporto di frutta e verdura.

L’indagine condotta sull’eccidio  nel 1946 dallo Special Investigation Branch britannico –  archiviata e occultata per anni nel famoso “Armadio della vergogna” assieme ad altri  694 fascicoli relativi ai crimini e alle stragi nazifasciste –  e la sentenza di condanna tardiva del 9 giugno 1999 pronunciata dal Tribunale militare di Torino contro il capitano delle SS Theodor Emil Saeveche, unico tra i criminali nazisti a essere imputato e processato come responsabile dei fatti di Loreto, costituiscono le principali fonti documentali  di cui si serve l’autore per confutare la tesi della rappresaglia e chiarire le ragioni della fucilazione dei quindici antifascisti. Dalla lettura, in particolare, dei verbali di interrogatorio degli uomini al vertice dei comandi tedeschi a Milano e in Lombardia e di quelli ai vertici del potere fascista a Milano emerge chiaramente come la strage e la scelta di quei quindici nomi fossero il risultato di una strategia pianificata tesa a colpire in modo mirato una struttura portante dell’antifascismo e della resistenza milanese.  Se è vero, infatti, che Piazzale Loreto era vicina a viale Abruzzi e a piazzale Tonoli, era soprattutto però, come scrive Castoldi, «il luogo dove arrivavano e partivano i tram» pieni  di operai diretti verso le principali fabbriche che erano state teatro degli scioperi del marzo 1944, la più grande protesta di massa nell’Europa occupata dai nazisti, e che avevano avuto negli uomini uccisi alcuni tra  i principali organizzatori, tra i quali Libero Temolo ed Eraldo Soncini; nella zona a ridosso al Piazzale erano inoltre attivi alcuni  tra i centri più importanti dell’antifascismo milanese, in cui si tenevano riunioni, si smistava la stampa clandestina e dove quei quindici uomini si erano incontrati operavano, coordinavano la loro azione, intessendo relazioni e contatti. Nell’intento di risalire alle responsabilità dell’eccidio, il libro contribuisce peraltro a fare luce sulle articolazioni della struttura occupazionale tedesca a Milano che dava luogo a una caotica proliferazione di centri di potere le cui competenze spesso si sovrapponevano. Un intricato “sistema policratico” a cui faceva riscontro il policentrismo poliziesco della Repubblica sociale italiana (Rsi), con i suoi corpi armati spesso in aperto conflitto fra loro, pronti a contendersi il triste primato nella repressione dell’attività sovversiva, oltre al potenziale umano. In questo senso, uno dei grandi meriti di Castoldi è proprio quello di aver sottolineato il ruolo non semplicemente gregario o secondario  dei fascisti di Salò: «se  la decisione definitiva dell’eccidio è partito dal Comando germanico, tutta la sua gestione, dal prelievo dei condannati a morte a San Vittore al loro trasporto, alla loro fucilazione, al presidio sul piazzale, fu non solo condotta, ma anche rivendicata dai militi fascisti», come si evince dall’affissione di un manifesto sul luogo della strage che indicava quale sorte spettasse ai “traditori della patria”. Dunque, si voleva dare un segnale: «quei quindici uomini dovevano essere uccisi in Piazzale Loreto, i loro corpi dovevano rimanere esposti per un’intera giornata allo sguardo della popolazione milanese. […] la folla di uomini, donne e anche bambini indotta a sfilare davanti ai morti furono elementi che connotarono l’eccidio, lo resero emblematico, proprio perché realizzato in pubblica piazza». La crudeltà di queste pratiche, messe in atto dai fascisti, rimanda a strategie dimostrative, intimidatorie e punitive inscritte nel contesto della guerra civile, «a dimostrazione che il potere fascista, come scrive Michela Ponzani, può esibire la sua forza non solo nella mortificazione e nel disprezzo che fa subire ai morti, ma soprattutto nella punizione e nel terrore che infligge ai vivi»: la legittimazione della Rsi, il fondamento stesso della propria credibilità istituzionale,  veniva inseguita nei corpi esposti ed esibiti dei nemici uccisi.
La ricostruzione, poi, dei profili biografici dei Quindici consente anche di uscire sia dal «mito comunista» dei ragazzi di Loreto, «martiri operai» o gappisti, sia dal paradigma delle vittime innocenti: furono uomini diversi per età, provenienza sociale e culturale, orientamento ideologico, appartenenza politica; uomini che scelsero consapevolmente di opporsi ai fascisti e ai nazisti, accettando di correre tutti i rischi, compreso quello di morire. Alcuni furono già attivi durante il Ventennio, come nel caso di Salvatore Principato – nonno dell’autore –, maestro elementare, socialista, il più anziano del gruppo, già sorvegliato speciale durante il regime, o di Giulio Casiraghi, comunista, condannato negli anni Trenta dal Tribunale speciale. Vi erano poi i giovanissimi, come per esempio, Renzo Del Riccio, di soli 20 anni, che militava in una brigata partigiana. Il quadro che descrive Castoldi ci dà la misura della dimensione plurale e corale della Resistenza: quasi tutti loro erano parte di una stessa rete cospirativa che agiva dentro e fuori le fabbriche, con collegamenti sul territorio, con le formazioni partigiane in montagna e con gli Alleati, come nel caso del dirigente cattolico Vittorio Gasparini.
Nei giorni della Liberazione Piazzale Loreto divenne piazzale Quindici martiri: si avviava, così, quel processo di costruzione e di trasmissione della memoria della Resistenza, quale fondamento dell’Italia libera e democratica. Tuttavia, oggi, «nella memoria collettiva Piazzale Loreto è anche altro, è soprattutto altro», è la Piazzale Loreto del 29 aprile 1945, quando i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fucilati a Dongo furono portati nel Piazzale, presidiati dai partigiani che cercavano di contenere la pressione della folla e di preservare quei corpi dallo scempio, issandoli infine al distributore di benzina. È la celebrazione violenta della fine del regime, la rappresentazione di una folla inferocita che voleva vedere il corpo morto del duce. È stato scritto che andò allora in scena «un arcaico e feroce contrappasso», dove il corpo del tiranno fu «esposto e vilipeso» nel luogo in cui erano stati esposti i corpi dei quindici martiri. Un’interpretazione, però, che ha finito per aprire la strada a manipolazioni e distorsioni di quell’evento le quali si sono profondamente radicate nella percezione pubblica: «quelle poche ore della mattina del 29 aprile, si sono espanse, dilatate e deformate nella memoria pubblica, come se fossero state un’intera giornata, nella quale i comportamenti dei guardiani e della folla sono stati sovrapposti e confusi».
La mancata ricostruzione delle ragioni storiche dell’eccidio e delle vicende umane e politiche che lo avevano determinato ha senza dubbio favorito l’accostamento, per contrapposizione, tra i due eventi, fino a eclissare e ridurre Piazzale Loreto del 1944 a una sorta di prologo di quanto avvenne il 29 aprile 1945. Non solo: lo sgretolamento della coesione delle forze antifasciste, l’affermarsi, negli ultimi anni, di un revisionismo strisciante piegato alle convenienze della politica, la crisi del paradigma antifascista e contestualmente l’emergere di forme di rilegittimazione del fascismo hanno contribuito sia all’affievolirsi  del ricordo dei Quindici, circoscritto quasi esclusivamente alle memorie dei famigliari e alle commemorazioni delle associazioni partigiane, sia a un capovolgimento paradossale della storia, per cui – in certa pubblicistica –  i partigiani appaiono come i carnefici e i gerarchi fascisti come le vittime innocenti della storia.
Siamo di fronte oggi – scrive Castoldi –  a «una memoria debole, che si logora tra la retorica delle vittime e la retorica della pacificazione» e che produce effetti fuorvianti: «i cadaveri insanguinati sono tutti uguali, il dolore dei congiunti e dei famigliari è pari, sia che a morire sia un uomo che ha dedicato la vita a difendere i diritti civili e la libertà, sia a che morire sia un tiranno, un adulatore, o un traditore, ma le loro vite sono state profondamente diverse, diametralmente opposte. Se non studiamo queste vite, non comprendiamo la storia. […] Se si confondono, non si scrive la storia».
Un libro, dunque, intenso e rigoroso che ci aiuta a riflettere anche su questioni di stringente attualità, dalla costruzione dei processi della memoria collettiva, all’uso politico della storia, alle ambiguità che caratterizzano la narrazione pubblica del passato.

di Roberta Cairoli

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