Tratto da Antologia Lettera ai Compagni. Scritti scelti – 1° ed. dicembre 2015 – pp. 280 – 296
L’analisi delle forme e del significato della presenza femminile nella seconda guerra mondiale,
sostenuta da una ormai consolidata tradizione di studi, è venuta a costituire, in anni recenti, un elemento essenziale all’interno delle nuove tendenze della storiografia contemporaneistica.
La rilevanza conferita “alla dimensione totale delle guerre del Novecento, alla questione della guerre civili, dei collaborazionismi e delle molteplici forme della Resistenza, al problema delle violenza e dei suoi effetti sulle popolazioni civili e sulle comunità locali” si è intrecciata con un’attenzione sempre maggiore ai soggetti “in armi e senz’armi” presenti nel teatro della guerra, alle loro scelte ed alle loro azioni in un quadro segnato dallo sconvolgimento radicale delle norme e delle istituzioni all’interno delle quali essi erano abituati ad operare. In questo contesto di sovvertimento dei confini tra quotidiano ed eccezionale, pubblico e privato, quali sono state le esperienze vissute dalle donne?
Come ha operato il rapporto tra i sessi? Come si sono ridefinite le identità sociali di genere storicamente costituite? E ancora quale contributo la Resistenza ha dato alla libertà delle donne, e fino a che punto costituisce un punto di svolta fondamentale per la soluzione della “questione femminile”? Interrogativi questi che, negli ultimi anni, sono stati al centro del dibattito storiografico. È evidente come la storia delle donne e di genere abbia conferito nuovi significati alle categorie storiche di guerra e di resistenza.
Se Claudio Pavone ha caratterizzato la Resistenza come guerra di liberazione nazionale, guerra di classe e guerra civile, inaugurando un nuovo paradigma storiografico, la storia delle donne ha consentito di definire la Resistenza con la categoria di resistenza civile (una resistenza non armata che non si oppone a quella armata, ma sottrae legittimità e autorevolezza all’occupante e alle sue regole e che ha coinvolto numerose donne ma anche molti uomini), respingendo una visione dualistica della lotta di liberazione che distingueva con un taglio netto i protagonisti, cioè i combattenti e i vertici politici da un lato, e dall’altro i civili, adibiti a meri ruoli di cura e di supporto (da qui l’esclusione delle donne dalla storia e dalla memoria pubblica). Con l’applicazione di questo nuovo apparato concettuale non solo si abbatte l’idea di una “zona grigia” massificata e indistinta contrapposta alla minoranza armata, ma si dimostra assai poco efficace, se non addirittura superato, il rilievo conferito in più occasioni alla questione numerica.
Non solo perché la maggior parte delle donne coinvolte non ha avanzato domande di riconoscimento o di risarcimento – su questo aspetto ci ritorneremo – ma era ed è impossibile quantificare la massa esterna alle maglie della politica. La storia di genere ha consentito, inoltre, di ridefinire la resistenza anche con la categoria di resistenza femminista, dal momento che il programma dei Gruppi di difesa della donna (Gdd) contemplava richieste paritarie sul piano dei diritti accanto a rivendicazioni più generali ed esprimeva un proprio modo di vivere e immaginare la politica 1.
Attraverso le pagine di “Lettera ai compagni” non solo è possibile delineare le forme e il linguaggio in cui è stata rappresentata sul piano storiografico l’esperienza delle donne nella guerra e nella Resistenza ma seguire la riflessione promossa dalla stessa rivista sugli spazi dedicati dalla storiografia contemporanea alla presenza femminile. Non sono poche, peraltro, le testimonianze raccolte e pubblicate su “Lettera ai compagni” che ci restituiscono le voci delle protagoniste oltre agli echi del dibattito storiografico.
Nell’arco del settantennio si possono individuare almeno tre fasi di sviluppo degli studi: il periodo compreso tra il 1945 e il 1975; dalla seconda metà degli anni Settanta agli anni Ottanta; dagli anni ’90 ad oggi.
Il primo periodo è caratterizzato dall’esiguità delle pubblicazioni e dalla debolezza dei contenuti: se, infatti, negli anni ’50, in occasione del primo decennale – nel clima difficile per la memoria della Resistenza – si pone la questione di documentare la presenza femminile, tuttavia l’esperienza delle donne viene tratteggiata, almeno fino alla prima metà degli anni ’70, riproponendo antichi stereotipi di genere, sacrificio, umanità, solidarietà, eroismo, purezza. Un esempio, in questo senso, ci viene dato da “Lettera ai compagni” del 1971: “l’opera sapiente, virtuosa, coraggiosa e umanitaria delle donne di tutte le età – madri, spose, figlie e sorelle – fu altamente encomiabile perché, fra strazi e sacrifici di ogni sorta, portavano non solo il viatico di un aiuto molto spesso determinante per la loro salvezza, ma anche il conforto di una parola ristoratrice e incitatrice – e ciò è ampiamente confermato e documentato dagli «storici» che hanno riconosciuto il loro eroico apporto alla lotta di Liberazione in decine di libri, ancora non molto conosciuti dal grosso pubblico, animate soltanto da un profondo amor di patria e da un altissimo senso di umanità” 2. Non solo: si è per lungo tempo parlato di contributo o partecipazione delle donne quasi che fossero un elemento secondario e indifferenziato. E le stesse protagoniste hanno offerto, per così dire, il fianco a sottovalutazioni, negligenze e rimozione del loro agire, opponendo alla prosopopea eroica degli uomini, la discrezione, il riserbo e il più delle volte il silenzio. Racconta, per esempio, su queste pagine, la partigiana Lina Majocchi: “Non ho mai avuta la vocazione di parlare di me, ho sempre pensato di tacere o quanto meno sdrammatizzare, per quel poco di buono e di utile, che ho avuto occasione di partecipare. Mi è sempre bastata la soddisfazione personale. […] A liberazione avvenuta, venni invitata dal Comando Alleato (mi pare si chiamasse cosi) in via Faruffini, dove mi venne proposta un’attestazione di partigiana, alla quale mi sono garbatamente rifiutata”.
Solo con il 1975, anno del trentesimo anniversario della Liberazione, la storia della Resistenza compie un salto qualitativo sul piano storiografico. I libri di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, “La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi” (1976) e di Bianca Guidetti Serra, “Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile” (1977) inaugurano una nuova stagione di studi, sulla spinta di un forte movimento delle donne sulla scena politica: le donne diventano oggetto privilegiato della storiografia contemporanea. Ma non si tratta solo di uno spostamento di oggetto: a partire da quegli anni si opera una rottura rispetto all’approccio per cui l’esperienza delle donne viene vista come esperienza “propria”, specifica, da interpretare attraverso categorie di analisi capaci di renderla nella sua interezza. Le nuove indagini tendono a far emergere i segni della soggettività femminile nei racconti delle donne, anche attraverso l’analisi del linguaggio con cui la memoria si esprime.
Il cambiamento di prospettiva è ben reso dalle parole di Massimo Raffaelli, in “Lettera ai compagni” del 2004: “l’archetipo era invasivo e dotato di forza pedagogica, ma imponeva una figura priva di prerogative che non fossero materne, sororali e insomma ausiliarie: l’età era rigorosamente climaterica, ruolo e funzione della donna nella lotta confermavano paradossalmente la opacità e subalternità femminile all’interno della famiglia borghese e proletaria. Di colpo, le dodici voci che intramano la Resistenza taciuta svelano per etimologia, altrettante donne, depositarie dunque di uno specifico magistero sul corpo/psiche circa gli eventi che lo hanno segnato. Non di fianco ma al centro, non per vanità ma per necessità, non per essere coadiutrici ma per essere delle militanti, spesso delle fiere combattenti”.
A partire dagli anni Novanta, gli studi sulle forme di resistenza messe in atto da soggetti diversi nei territori occupati e nella stessa Germania nazista – si veda a questo proposito l’articolo qui pubblicato, “Berlino: quelle eroine della Rosenstrasse che sconfissero Hitler” – ha portato ad interrogarsi e a guardare più attentamente le forme di azione femminile e a ridefinire, come si è detto precedentemente, le stesse categorie di guerra e resistenza, grazie soprattutto agli studi di Anna Bravo e Dianella Gagliani, e al fiorire di ricerche di carattere locale e regionale.
LE MOLTEPLICI FORME DELLA RESISTENZA CIVILE
Due, in particolare, i tratti salienti che sono emersi dai numerosi lavori di ricerca: la complessità e la molteplicità dei modi e delle forme della presenza delle donne in questa guerra totale – le donne furono presenti in tutte le forme in cui la Resistenza si è espressa, da quella civile a quella armata – e la dimensione corale della resistenza femminile che i dati numerici non sono in grado di testimoniare.
Il biennio 1943-45 ha visto significativamente l’affermarsi di un modello di aggregazione femminile che prendeva corpo da un fittissimo intreccio di relazioni solidali e di reciproco aiuto, in cui sono state coinvolte moltissime donne diverse per appartenenze generazionali, sociali, culturali e ideologiche, un modello che in quel contesto è stato forse il maggior punto di forza della politica agita dalle donne.
Sia la complessità, sia la molteplicità si manifestano innanzitutto nella ricostruzione del percorso esistenziale e/o politico che porta all’ingresso nella Resistenza. In termini generali, per alcune donne la Resistenza è stata la conseguenza naturale di una scelta maturata da tempo, nell’opposizione antifascista degli anni Venti e Trenta, le cui vicende ci riconducono a tre ambiti, la cospirazione interna, l’emigrazione politica, il carcere e/o il confino. Le cifre del dissenso politico riconosciuto durante il fascismo sono ormai note: 15.806 deferiti al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato tra il 1926 e il 1943, tra cui 748 donne; dei 5.620 effettivamente processati, 124 sono donne; tra i 12.330 inviati al confino, 145 sono donne. A fronte di una storiografia e di una certa retorica resistenziale per lungo tempo reticenti ad attribuire un significato politico alla scelta delle donne – vivandiere, guardarobiste, portaordini, staffette e persino le partigiane combattenti – considerandole fondamentalmente motivate ad agire dal loro essere madri, spose, sorelle e fidanzate dei combattenti, questi dati e il rapporto con le fonti e con le testimonianze rivelano, invece, come abbiamo già sottolineato, che l’adesione alla Resistenza rappresentò proprio, in alcuni casi l’approdo di una consapevole scelta antifascista maturata negli anni in cui il regime, consenso o non consenso, appariva saldissimo. “Lettera ai compagni” ricostruisce, per esempio, il percorso umano e politico di alcune militanti antifasciste di primo piano, da Camilla Ravera 3, dirigente del Partito comunista d’Italia, condannata a 13 anni di carcere a Teresa Noce 4 che prende parte alla guerra civile spagnola, da Lidia Campolonghi 5, attiva nell’emigrazione politica in Francia, a Joice Salvadori Lussu 6, “antifascista, pacifista, terzomondista”.
La scelta di opporsi al regime implicava per le donne, rispetto agli uomini “un di più di motivazioni direttamente proporzionali ai maggiori ostacoli che s’incontr[ano] lungo quel percorso” 7: decidere di essere contro il fascismo le obbliga non solo a schierarsi politicamente ma anche ad uscire dalla tradizionale domesticità per proiettarsi sulla scena pubblica. È una scelta trasgressiva, nel senso letterale del termine, rispetto alle norme sociali e culturali che definivano il comportamento femminile.
Per la maggioranza delle donne, tuttavia, è stato proprio l’evento della guerra e dell’8 settembre 1943 a rappresentare il punto di partenza di una nuova consapevolezza di sé e del loro ruolo nella società.
Spingendole inevitabilmente al superamento della soglia tra privato e pubblico, tale evento ha contribuito ad accelerare e diffondere la formazione di una presa di coscienza, ha fornito loro l’occasione di occupare fisicamente e simbolicamente nuovi spazi, costringendole ad “inventare” la propria presenza anche al di fuori dei tracciati tradizionali. La guerra ha portato gli uomini al fronte o in clandestinità, allontanandoli dai posti di lavoro e dai nuclei familiari, ha alterato tutti i ritmi della vita quotidiana, indebolendo ogni forma e luogo istituzionale dell’organizzazione sociale. In un tale contesto, le donne, nei fatti, si sono trovate nella possibilità di essere soggetti attivi, indispensabili sia nell’apparato produttivo, che nel funzionamento del contesto sociale.
Lo stretto collegamento con il contesto della guerra – senza il quale non è possibile comprendere né la nascita della Resistenza, né le forme in cui essa si esprime, né il significato che assume – permette di caratterizzare la Resistenza anzitutto come rifiuto della guerra e dei suoi effetti di morte, distruzione, imbarbarimento della società civile e delle relazioni umane. Il rifiuto della guerra alla base della scelta della Resistenza, come ha sottolineato Dianella Gagliani, non ha solo un risvolto negativo (il no alla guerra), ma un risvolto positivo: l’azione di cura dei corpi concreti, il tentativo di sottrarli alla morte, alle mutilazioni, alle sofferenze provocate dalla guerra. Pensiamo, per esempio, al maternage di massa nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre – l’aiuto, cioè, di moltissime donne ai militari sbandati in fuga rivestiti con abiti civili – che ha in sé una valenza simbolica forte: “Da un certo punto di vista nei giorni che seguirono l’armistizio, la tradizionale passività delle donne, che fino ad allora avevano accettato come un destino immutabile il fatto che lo Stato allungasse le mani sugli uomini per farne dei soldati, venne infranta per la prima volta”. La Resistenza, in questo senso, si configura come lotta per uscire dalla guerra e dalla sua ideologia che impone il sacrificio di vite umane, mettendo in discussione l’impalcatura concettuale di fondo che aveva sorretto il fascismo come estremizzazione del militarismo e del nazionalismo 8.
Come abbiamo già detto, per comprendere la parte giocata da tante donne in questa guerra è stata fondamentale l’introduzione della categoria di Resistenza civile, perché conferisce visibilità, spessore e dignità politica alle forme di lotta più legate alla quotidianità, a quelle azioni “di cura della vita e di erosione continua del potere degli occupanti”, che al di là di scelte politiche esplicite o di appartenenze partitiche significavano un’opposizione e l’affermazione di una soglia oltre la quale la violenza di chi aveva voluto la guerra non poteva più essere accettata. Una forma specificamente femminile di resistenza civile, secondo la definizione di Anna Bravo, è proprio il maternage di massa. Sono molti gli esempi che testimoniano, in quei giorni, la nascita di una vasta rete di assistenza e solidarietà che serve non solo a salvare i singoli smarriti soldati, ma offre agli sbandati la possibilità concreta di iniziare ad organizzarsi in bande. Racconta, per esempio, Lucia Corti: “l’8 settembre ’43 ero a Torino: ricordo l’atmosfera cupa e il nostro smarrimento. Cosa fare? Non c’erano notizie certe ma già davanti alla stazione e agli angoli delle strade stazionavano giovanissimi soldati teutonici con mitra puntati, minacciosi, armati forse prima di tutto della loro propria paura. E dentro la stazione, sui binari, i carri bestiame inzeppati di soldati e uomini validi pronti per la deportazione; riuscivamo a stento ad avvicinarci ai vagoni e dai finestrini in alto, da cui sporgevano solo i cappelli – ricordo le penne degli alpini – buttare dentro qualche genere di conforto. Ma in alcune località le donne riescono ad aprire i vagoni, a far fuggire più soldati possibile prima di essere esse stesse buttate a terra o arrestate. Altrove sono proprio le loro manifestazioni che fanno sospendere le partenze” 9. E Nila Mori: “Aiutavamo militari che fuggivano, procuravamo loro gli abiti borghesi, li indirizzavamo nelle formazioni, aiutandoli a raggiungere i raggruppamenti, li ospitavamo in casa.
Ne tenni nascosti due per tutto il periodo, uno era di Cosenza e uno di Altamura (Bari), poi io e mio marito li aggregammo alle Brigate Mazzini” 10.
Nei venti mesi successivi la resistenza civile assume altre forme, la schiera delle vite a rischio si alza e così si moltiplica l’attività delle donne. Alcune, per esempio, si occupano della raccolta di viveri, di denaro e di vestiario e medicinali, garantendo la sopravvivenza fisica dei partigiani, spesso facendo della propria casa una sorta di sartoria clandestina; molte svolgono un ruolo fondamentale nell’organizzazione e nella diffusione della stampa clandestina, di volantini nei cinema, nei mercati rionali, alcune imparano in quelle circostanze a battere a macchina; oppure ci sono le impiegate negli uffici, nei distretti militari dove forniscono, tessere e documenti di identità falsa che consentono a molti di darsi alla macchia, e dove agiscono talvolta da informatrici; alcune organizzano evasioni dagli ospedali militari e dal carcere. E pensiamo anche alle case che da luoghi eminentemente privati diventano politici, sedi di una vera e propria rete logistica della lotta clandestina. Sono luoghi di sostegno e di rifugio, ma anche basi partigiane: lì si nascondono ricercati o esponenti di passaggio, partigiani, ebrei, ex prigionieri alleati, si raccolgono armi, si organizzano passaggi di frontiera, si tengono riunioni, si ciclostilano i volantini.
È il caso, per esempio, di Antonia Leonora Denevi, chiamata affettuosamente dai partigiani “Lala”, zia nel dialetto locale, che nella sua casa di Debbio, piccola frazione di Zignago, accoglieva e nascondeva i partigiani, coordinava aiuti e soccorsi e trasmetteva messaggi: un vero e proprio quartier generale dei partigiani 11. “Si proteggeva i nascondigli degli Ebrei – racconta Nila Mori – finché non si trovava il modo di farli fuggire all’Estero. Nell’appartamento attiguo al mio ve ne era uno (fidanzato con una mia conoscente) da un buco eseguito dietro al letto gli passavamo i viveri.
Avevamo saputo mascherare tutto così bene, sia dalla parte del mio locale che da quello della mia conoscente, che nonostante tre perquisizioni subite, non riuscirono mai ad accorgersi” 12.
Punto di riferimento essenziale era anche la pensione “Villa Fiorita”, a Roma, gestita dall’anziana proprietaria Gina Archetti, ad un passo dal comando tedesco, dove “partigiani, ebrei, soldati e ufficiali, scappati dal Nord o dal Sud, o provenienti da Roma stessa, si alternavano con ritmo continuo per uno, due o più giorni e talvolta anche per delle settimane; chi aveva documenti falsi, chi non li aveva per niente, chi veniva solo a mangiare, chi a dormire, chi nascondeva armi nel giardino, dove due splendidi aranci selvatici rendevano molto piacevole il soggiorno! Ma la signora Gina fece di più. Aiutò più volte con i propri mezzi e con piccole opere di propaganda un modestissimo commercio di «cose varie» che servì a far tirare avanti alla meno peggio chi doveva vivere nella più completa latitanza e sobbarcarsi alla borsa nera dei viveri” 13.
Ciò significa per le donne e le loro famiglie compiere scelte precise, accettare i rischi, agire nel teatro della guerra e subirne le tragiche conseguenze. Ospitare, dar da mangiare, favorire espatri clandestini, informare, sono atti politici. E far politica, in quel contesto, caratterizzato dalla precarietà delle regole, dalle drammatiche condizioni di vita e da un regime di occupazione che espone tutti e tutte a continue perquisizioni, requisizioni, arresti e deportazioni, significa una piena assunzione di responsabilità verso i propri simili allo scopo di ridare valore alla dignità della persona umana e su questa base fondare il nuovo patto sociale.
I GRUPPI DI DIFESA DELLA DONNA
“E le donne con i Gdd – scrive su “Lettera ai compagni” Lucia Corti – esprimono il loro doppio impegno in quel momento di sofferenza collettiva. Le difficili condizioni di vita, approvvigionamento; i pericoli continui, le ingiuste condizioni di lavoro nelle fabbriche, la minaccia dell’inverno alle porte; il destino degli uomini prelevati dalle guerre ingiuste di Mussolini, ora in campi di concentramento o di prigionia, tutto ciò mobilita le donne: abbiamo o non abbiamo noi donne dentro di noi una parte che riecheggia la sofferenza degli altri e improvvisa, creativamente e concretamente, le risposte? Dalla minestra calda alle calze di lana per i partigiani, agli scioperi nelle fabbriche, alle 10.000 mondine che interrompono il lavoro. I Gdd danno forma e sostegno a questo organismo di massa in cui confluiscono e trovano una guida unitaria donne di ogni appartenenza” 14. I Gdd si costituiscono a Milano, nell’autunno del 1943, per iniziativa di militanti e aderenti alle formazioni politiche del Cln con l’obiettivo di mobilitare donne di ogni ceto sociale, di ogni tendenza politica, di partito o senza partito “facendo appello alle motivazioni più elementari e ai bisogni più urgenti e immediate della lotta”: sostenere le formazioni partigiane, soccorrere ricercati e militanti in clandestinità, organizzare nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nelle campagne la resistenza alle violenze tedesche, il sabotaggio della produzione, il rifiuto di consegnare i vivere agli ammassi; raccogliere viveri, indumenti, farmaci; assistere le famiglie dei partigiani, dei fucilati, dei detenuti nelle carceri. E in secondo luogo, rivendicare attraverso scioperi e dimostrazioni, l’aumento delle razioni alimentari, insufficienti a garantire il minimo necessario alla vita, l’alloggio per gli sfollati, il combustibile, i vestiti, le scarpe, l’adeguamento dei salari al costo della vita.
È soprattutto dalla fabbrica che partono le iniziative. Tra le operaie i Gruppi creano quella rete di collegamenti e relazioni che determineranno la riuscita dei presupposti programmatici. Le operaie ottengono parziali vittorie relative alla distribuzione dei viveri, combustibile e vestiario, alla possibilità di uscire durante gli allarmi aerei, alla revoca dei licenziamenti, al riconoscimento dell’indennità di presenza: sono, inoltre, in prima linea, nell’impedire il reclutamento forzoso, la deportazione per lavoro in Germania della manodopera femminile e maschile e svolgono un lavoro essenziale nella propaganda e nella raccolta di fondi. E i Gruppi presenti nelle fabbriche ad alta concentrazione di manodopera femminile avanzano piattaforme rivendicative incentrate sui temi della parità salariale, sulla tutela delle lavoratrici madri, rivendicando assistenza pre o post parto. È dunque evidente che al di là dell’impegno di appoggiare la lotta di liberazione i Gruppi si pongono anche l’obiettivo di una graduale emancipazione femminile: “la donna deve conquistarsi la libertà politica, l’indipendenza economica, la parità del diritto con l’uomo mediante la lotta al fianco di tutto il popolo italiano”.
LE PARTIGIANE
Alcune donne scelgono di agire all’interno delle varie brigate partigiane, vivendo così in stretto contatto con i partigiani. Numerose, innanzitutto, le staffette. La staffetta è forse il “vero Jolly della guerra partigiana”, la sua struttura portante, il cuore dell’intera rete organizzativa. Più libere di muoversi sul territorio, meno sospette o sospettabili degli uomini giocando sul terreno della visibilità/invisibilità hanno saputo intrecciare abilmente le pratiche del quotidiano con una preziosa attività di informazione e di collegamento. Nella loro borsa, con il doppiofondo, vengono nascoste le armi, l’esplosivo, il materiale di propaganda; a loro vengono affidati i messaggi, gli ordini e le disposizioni del Cln alle formazioni e di una brigata alle altre brigate. Tra le staffette c’è anche chi reperisce informazioni utili sugli spostamenti dei nemici e sulla dislocazione dei comandi tedeschi e fascisti. In sella all’inseparabile bicicletta, simbolo di tutto un periodo, la staffetta percorre chilometri e chilometri per portare a termine la missione che le è stata assegnata: “La bicicletta? Che bello, quasi me n’ero dimenticata – racconta Tiziana Bonazzoli “Bianca”, collegatrice garibaldina fra la periferia e il centro, fra Milano e Varese.
Un mezzo mirabile. La bicicletta era ambita, giudicata pericolosa dal nemico, un frutto del diavolo che andava tolta di mezzo. Infatti i gerarchetti locali, spiazzati dall’attività del partigianato su due ruote, avevano emesso delle ordinanze di sequestro! Anche a me cercarono di portare via la Bianchi. Fu in occasione di un rastrellamento in via dei Boderi in casa di papà ma la cameriera implorò i fascisti che quella bici era sua e che le serviva per lavorare. Finì che li commosse e la Bianchi rimase dov’era” 15.
L’attività partigiana comporta necessità di camuffamento e simulazione per far fronte a situazioni di pericolo, fino all’adozione di un nuovo nome. A emergere con forza dai racconti è anche il modo in cui queste donne, molto spesso giovani e giovanissime, utilizzano la propria immagine femminile per attraversare indenni le maglie dei controlli fascisti e nazisti, facendo del riferimento al materno, al privato, al domestico la principale arma di manipolazione del nemico: infilano le armi nella carrozzina del figlio; imbottiscono i gomitoli di lana di bigliettini da recapitare, indossano giarrettiere per nascondere il materiale clandestino, fingono simpatia o particolare gentilezza a un posto di blocco, assumono la maschera della ragazza svagata, fanno di un nastro colorato tra i capelli un segnale per i compagni. Tante le partigiane che hanno lasciato una testimonianza o che vengono ricordate su “Lettera ai compagni”: dalla socialista Lina Majocchi 16, impiegata nella ditta Gorla Siama, con il compito di portare e diffondere in stabilimento giornali e materiali vari clandestini di propaganda, e a cui vengono affidate bombe da consegnare all’esterno, alla valdese Frida Malan 17, di “Giustizia e Libertà”, che tiene i collegamenti tra Torino e la Val Pellice; da Gisella Floreanini 18, la prima donna ministro nella libera Repubblica dell’Os- sola ad Elsa Sacobosi “Anita” 19, ufficiale di collegamento della 1° e della 2° Divisione “Garibaldi”, una delle poche donne ad ottenere il grado di ispettore militare.
Alcune donne scelgono, poi, di partecipare alla Resistenza, usando le armi, prendendo direttamente parte agli scontri, sia in montagna, ma anche in città inquadrate nei Gap (Gruppi di azione patriottica). La questione del rapporto delle donne rispetto all’uso della violenza e alla partecipazione alla lotta armata costituisce, ancor oggi, uno dei nodi più spinosi e controversi della riflessione storiografica: se in precedenza si diceva della rimozione delle donne dalla storiografia e dalle celebrazioni pubbliche questo vale soprattutto per le partigiane combattenti che non hanno trovato e ancora faticano a trovare una collocazione e un riconoscimento nel discorso tramandato dalla Resistenza.
Fatto salvo l’omaggio al coraggio e all’abnegazione, la resistenza armata resta maschile e la promiscuità nelle bande, che è pure esistita, un fenomeno nel migliore dei casi accennato di sfuggita.
Questo oscuramento è avvenuto fin dal primo momento in cui la Resistenza ha rappresentato se stessa, nelle sfilate dei partigiani nel maggio del 1945: le staffette non sfilarono e le combattenti si trovarono esposte alla disapprovazione se non al dileggio della comunità. Gli stessi comandanti giudicarono inopportuna la sfilata di partigiane vestite da uomo e con le armi, anche per la preoccupazione di non indebolire l’immagine di un vero esercito: “Le donne in armi – scrive Santo Peli – rappresentano una novità dirompente e indigeribile: illuminante paradosso di una situazione dove, accanto a progetti di drastico rinnovamento politico-sociale, permangono archetipi culturali che né la guerra partigiana né l’Italia democratica e repubblicana avrebbero messo in crisi, e dove si sceglie di oscurare la parte femminile della resistenza armata, perpetrando un altro paradosso per un esercito volontario, visto che solo le volontarie a pieno titolo nella resistenza sono le donne” 20.
Più facile è stato, per le donne e per gli uomini, iscrivere questa imbarazzante trasgressione nel codice materno: si è trattato di madri, mogli, sorelle, figlie che combattevano per aiutare e proteggere la vita dei propri cari. E se ciò ha fornito una legittimazione e un valore alla loro azione, altrimenti trasgressiva, l’ha sminuita rispetto all’analogo comportamento maschile.
PER CONCLUDERE: DIVENTARE CITTADINE
«La Resistenza – scrive Aldo Aniasi in “Lettera ai Compagni” – segna una rottura non solo con il fascismo, ma anche con una cultura che emarginava le donne in un ruolo subalterno. Il suffragio universale, il voto alle donne è il primo e più appariscente segnale” 21.
La questione del suffragio femminile percorre l’intera storia dell’Italia unita e viene riportata alla luce nel giugno del 1944 dalla promulgazione del decreto n. 151 che, introducendo il suffragio universale per l’elezione dell’Assemblea Costituente, pone le basi del nuovo stato democratico. Nel 1944, per iniziativa di alcune esponenti dei partiti antifascisti, tra le quali Marisa Rodano, Rita Montagnana e Giuliana Nenni, nasce a Roma l’Unione Donne Italiane (UDI) con il compito di aggregare donne di diverso orientamento politico per rendere più incisiva la partecipazione femminile e favorire la formazione delle nuove elettrici, obiettivo condiviso anche dalle donne cattoliche che creano una propria organizzazione, il Centro italiano femminile (Cif).
Nell’ottobre del ’44, nasce per volontà delle due associazioni e con il benestare dei partiti antifascisti il “Comitato pro voto” che presenta al Cln una petizione per la concessione del diritto di voto alle donne e ne riceve in cambio un impegno formale. La questione del suffragio femminile viene discussa in una riunione del Consiglio dei ministri, sul finire del gennaio 1945, in cui viene promulgato il decreto luogotenenziale n. 23 che estende alle donne il suffragio attivo, escludendo le prostitute schedate che esercitano la professione nelle “case chiuse”. Si arriva quindi alla concessione del diritto di voto alle donne senza un vero dibattito politico in un momento in cui il Nord Italia è ancora sotto l’occupazione tedesca e senza riallacciare i legami con la battaglia condotta dal movimento suffragista agli inizi del secolo (si veda, per esempio l’articolo qui pubblicato di Butticci) 22. Questa circostanza avvalora l’inesat- ta percezione, diffusasi nell’immediato dopoguerra, di un diritto concesso, e non conquistato, a parziale riconoscimento del ruolo ricoperto dalle donne durante la Resistenza.
Sulla scia di quanto avvenne in altri parti del mondo occidentale anche in Italia, la concessione dell’elettorato attivo viene disgiunta da quello passivo. Infatti, se nel gennaio del 1945 le donne sono state ammesse al diritto di voto, per la loro eleggibilità si deve attendere il decreto n. 74 del 10 marzo 1946, decreto che permetterà ai partiti di candidare donne nelle proprie liste alle imminenti elezioni amministrative. L’allargamento del suffragio stimola, tuttavia, ataviche resistenze e conferma radicati pregiudizi; le resistenze si fanno sentire all’interno dei partiti restii a candidare le donne, che sottraggono posti agli uomini (sono solo 226 le candidate all’Assemblea Costituente); i pregiudizi invece attraversano l’intera società italiana che percepisce le donne estranee alla politica. Interessante a questo proposito l’analisi svolta da Bruno Vasari 23 su “la questione femminile”, in cui riporta anche le riflessioni di Anna Kuliscioff. Le donne votano per la prima volta nelle amministrative del marzo 1946, ma la consultazione di maggior valore simbolico è quella del 2 giugno, in cui si afferma l’essenza della democrazia diretta, con il referendum istituzionale, e rappresentativa, con l’elezione all’assemblea costituente formata da uomini e da donne. Le donne italiane sono finalmente protagoniste sulla scena pubblica.
La presenza di uomini e di donne nello scrivere la Costituzione repubblicana è decisiva per l’avvenire democratico del Paese. Le 21 costituenti si sono, infatti, fatte garanti del concetto di uguaglianza e parità tra uomo e donna che la nostra Costituzione sancisce fin dai primi articoli (si veda Aniasi, “Lettera ai compagni”, 1989).
È stato grazie alla volontà e alla fermezza delle Costituenti se all’articolo 3 è stata inserita la frase “senza distinzione di sesso” e a Nilde Iotti si deve l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la parificazione tra figli legittimi e nati fuori dal matrimonio, la tutela della maternità. Hanno affermato con forza la parità tra lavoratore e lavoratrice e il diritto di donne e uomini di accedere ad ogni professione e carica elettiva. Già Anna Kuliscioff – come riporta Bruno Vasari su “Lettera ai compagni” del 1990 – nel lontano 1887 affermava: “Ho prescelto poi la questione del lavoro della donna, perché credo questo il nocciolo di tutta la questione femminile, convinta come sono di questa grande verità fondamentale dell’etica moderna, che vale per l’uomo come per la donna: che cioè il solo lavoro, di qualunque natura esso sia, diviso e retribuito con equità è la sorgente vera del perfezionamento della specie umana” 24.
La Costituzione italiana entrerà in vigore il 1° gennaio 1948, ma le Costituenti sapevano che il cammino per l’uguaglianza tra i sessi sarebbe stato ancora lungo così come sottolineava Teresa Mattei nel marzo del 1947: “è purtroppo ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale” 25.
1 Si veda Dianella Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica. Storie di donne, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2006.
2 Ester Riposi, La partecipazione femminile, in “Lettera ai compagni” mensile della Fiap aprile 1971 anno III, n. 4, pp. 15-16.
3 Camilla Ravera, un secolo di storia, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – marzo-aprile 1988 – anno XX, n. 3-4, p. 5.
4 Sergio Miniussi, Tre donne e la libertà, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – ottobre 1975 – anno VII, n. 10, p. 6.a.
5 Leo Valiani, In memoria d’ una antifascista. Lidia Campolonghi, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – marzo-aprile 1993 – anno XXV, n. 3-4, p. 27. 6 Bruno Vasari, La vita “contro” di Joice Lussu, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap novembre-dicembre 1996 -anno XXVIII, n. 11-12, pp. 25-26.
7 Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 132.
8 D. Gagliani, Resistenza alla guerra, diritti universali, diritti delle donne, in D. Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica, cit., pp. 35-36.
9 Lucia Corti, L’eroismo delle donne nella Resistenza, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – maggio-giugno 1996 – anno XXVII, n. 5- 6 pp. 28-29.
10 Nila Mori, La lotta per la libertà, in Numero speciale. Il contributo delle donne nella Resistenza, in “Lettera ai compagni”
– mensile della Fiap – giugno 1975 – anno VII, n. 6 pp. 1-8.
11 La Val di Vara orfana di “Lala”, la zia dei partigiani, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – giugno 1992 – anno XXIV, n. 6, p. 23.
12 Nila Mori, La lotta per la libertà, in Numero speciale. Il contributo delle donne nella Resistenza, in “Lettera ai compagni”
– mensile della Fiap – giugno 1975 – anno VII, n. 6 pp. 1-8.
13 Giovanna Criscione, Un rifugio a pochi metri dai nazi, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – aprile 1977- anno IX, n. 4 p. 6.
14 Lucia Corti, L’eroismo delle donne nella Resistenza, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – maggio-giugno 1996 – anno XXVII, n. 5- 6 pp. 28-29.
15 Quella bicicletta che fece tremare tanti nazifascisti, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap- novembre-dicembre 2008
– anno XL, n. 6, pp. 24-28.
16 Lina Majocchi, Lina Majocchi, in “Lettera ai compagni” – mensile della Fiap – giugno 1975 – anno VII, n. 6, p. 9.
17 Sandro Galante Garrone, Frida Malan, donna e partigiana, in “Lettera ai compagni” – mensile della Fiap – gennaio-febbraio 1997 – anno XXIX, n. 1-2, pp. 14-15.
18 Aldo Aniasi, Gisella Floreanini, donna nella Resistenza, in “Lettera ai compagni” – mensile della Fiap – novembre-dicembre 1995
– anno XXVII, n. 8, pp. 15-16.
19 Annunziata Cesani, Le battaglie di Anita per un mondo migliore, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap -febbraio-marzo 1996 – anno XXVIII, n. 2-3, pp. 14-15.
20 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino, 2006, p. 187.
21 Aldo Aniasi, La costituzione letta al femminile, in “Lettera ai compagni” – mensile della Fiap – gennaio 1989 – anno XX, n. 1 pp. 1,5.
22 Giulio Butticci, Il voto alle donne, in “Lettera ai compagni” – mensile della Fiap – gennaio 1989 – anno XX, n. 1 p. 9.
23 Bruno Vasari, La questione femminile oggi, in “Lettera ai compagni”- mensile della Fiap – aprile-maggio 1990 – anno XXII, n. 4-5 p. 10.
24 Ibidem.
25 Cit., in Debora Migliucci, il 2 giugno 1946: le donne votano, in Roberta Cairoli (a cura di), Fatti e idee della Resistenza: un approccio di genere, Biblion, Milano 2013, pp. 210-214.