Il 29 ottobre 1999 Nuto Revelli, all’Università di Torino, quando gli venne conferita la laurea honoris causa in Scienze della Formazione, pronunciò un discorso che, a vent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 5 febbraio 2004, è opportuno riprendere poiché contiene concetti tanto importanti quanto attuali. Nel discorso Revelli trattò alcuni passaggi della sua vita partendo da quando, nel luglio 1939, a vent’anni conseguì il diploma di geometra a Cuneo prima di richiedere l’ammissione all’Accademia militare di Modena, di diventare sottotenente degli alpini e di partire volontario per l’Unione Sovietica nel luglio del 1942. Proprio l’esperienza della guerra e la partecipazione alla tragica ritirata gli fecero prendere coscienza della reale natura del fascismo e delle scellerate scelte della monarchia. Questo lo portò, una volta tornato in Italia, a sposare l’antifascismo, ad essere tra i promotori dopo l’8 settembre 1943 del movimento partigiano nella zona di Cuneo, di militare nelle brigate Giustizia e Libertà riconducibili al Partito d’Azione. Nel secondo dopoguerra Revelli scelse di intervistare contadini e montanari delle valli cuneesi, “i vinti” di sempre, per raccontare e per non dimenticare. Di seguito si riportano alcune parti del suo discorso del 1999.

Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza di allora, nei giorni che precedettero la partenza per quel fronte di guerra […]. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressione. I tedeschi vincevano anche per me, e li consideravo degli alleati preziosi. Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? Per “la Patria”. Ma quale “Patria”? Quella del fascismo, o quella della monarchia? Quando si intuisce di essere ignoranti, si compie già il primo passo per uscire dal buio. Mi ripromettevo di elencare i momenti più significativi dell’esperienza che stavo per vivere, di registrare i miei stati d’animo, i miei sentimenti più intimi. Volevo imparare, volevo capire. Durante il viaggio – tra Brest-Litowskye Minsk, a Stoccolma – intravvidi gli ebrei, quelli dei “campi di sterminio”, dei quali ignoravo l’esistenza. Erano una sessantina di relitti umani – donne, uomini, bambini – tutti scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla. Sembravano dei fantasmi. Si trascinavano lungo la nostra tradotta implorando un pezzo di pane. Odiai i due tedeschi delle S. S. che li controllavano da lontano con i mitra spianati. E dissi a me stesso: «Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra». Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi, a scegliere, a capire. Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio del 1943 l’inizio della fine, il disastro. Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata, di quell’inferno. Dirò solo che il 20 gennaio – era il terzo giorno della ritirata – nella immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero, mi resi conto che avevo capito tutto. La nostra colonna – trenta o quarantamila uomini allo sbando – sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi! “Ricordare e raccontare”, questa la parola d’ordine che mi portai nel cuore da quell’esperienza tristissima. Nei giorni dell’8 settembre ero a Cuneo, e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e contro i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi – la maggior parte “contadini in divisa” – mandati a morire per niente in quella guerra maledetta. Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di “Giustizia e Libertà”, con  dei “maestri” come Livio Bianco e Duccio Galimberti. In questi venti mesi diventai adulto […]. Eh l’ignoranza! Eh la retorica patriottarda che mascherava malamente quell’insipienza, quei misfatti […]. Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. I giovani devono conoscere la società in cui vivono. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della “generazione del Littorio”. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta.    

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