Da una lettera di Emilio Lussu a Paolo Vittorelli (alias Raffaele Battino) del 13 giugno 1942, cioè nove giorni dopo la fondazione a Roma del Partito d’Azione. La maggior parte dei dirigenti di GL, allora, era in esilio o in carcere, soltanto in un secondo tempo il movimento entrò nel Pd’A. Vittorelli si trovava al Cairo dove, tra il 1940 e il 1944 (quando rientrò in Italia), mantenne in vita GL pur tra moltissime difficoltà, legate in primis alla sostanziale impossibilità di comunicare regolarmente con i compagni.
Schiavetti è in Svizzera, Trentin è in Francia, Cianca è in America, Leo [Valiani] è in Messico, Dolci è in Argentina, Ascarelli è a Rio de Janeiro ecc. Sono al loro posto, attivi in sommo grado, in alto il vessillo di “G. e L.” E attorno a noi, come sempre, sono tutti gli altri […]. Fai sempre e fate sempre tutto quello che potete, antifascisticamente. Prima di tutto, siamo antifascisti, e qualunque cosa possa arrivare di sgradevole nell’ansia del dopo-guerra, la fine del fascismo sarà sempre un bene immenso per l’umanità.
Nenni, nei diari, fece riferimento più volte alla figlia Vittoria (Vivà), morta ad Auschwitz nel luglio 1943 dopo una terribile agonia dovuta alle condizioni di vita e al tifo. Il leader del PSI fu informato della scomparsa di Vittoria soltanto il 29 maggio 1945 da De Gasperi, che gli consegnò una lettera di Saragat, allora ambasciatore d’Italia in Francia, il primo dopo il fascismo. L’11-12 agosto 1945, nella stessa Parigi, dopo aver ricevuto all’ambasciata italiana la visita di Charlotte Delbo Dudach, che era stata compagna di prigionia di Vivà proprio ad Auschwitz, Nenni scrisse parole particolarmente significative.
Vivà è arrivata ad Auschwitz il 27 gennaio 1943. Il suo gruppo era composto di duecentotrenta francesi, due mesi dopo era ridotto a quaranta. Il viaggio era stato molto duro ma esse erano lungi dall’immaginare che cosa le attendeva ad Auschwitz […]. Sono state spogliate di tutto, vestiti, biancheria, oggetti preziosi, indumenti intimi e rivestite di sudici stracci a righe carichi di pidocchi. La loro esistenza si è subito rivelata bestiale. Sveglia alle tre e mezzo, appello alle cinque, lavoro dall’alba al tramonto in mezzo al fango delle paludi. Un vitto immondo e nauseabondo. Non acqua. Neppure un sudicio pagliericcio, ma banchi di cemento e una lurida coperta. Vivà ha reagito con ogni forza all’avvilimento fisico e morale. Era fra le più intrepide e coraggiose. Sul braccio destro le deportate portavano il loro numero. Vivà aveva il n. 31635 […]. Charlotte è stata ammalata di tifo prima di Vivà e dice di dovere la vita alle cure assidue di mia figlia. A sua volta ha assistito Vivà come una sorella. Il tifo si è dichiarato l’11 aprile […]. Seppe dello sbarco in Sicilia e se ne rallegrò per suo padre… è morta il 15 luglio pregando una compagna di giaciglio di far sapere a suo padre che era stata coraggiosa fino alla fine e che non rimpiangeva nulla […]. Sono come ossessionato dalle cose apprese ieri. Non riesco a pensare ad altro. Divoro un libro di una deportata polacca Vingt mois à Auschwitz. Alcuni dettagli del racconto di Charlotte saranno l’incubo della mia vita.