Pacifisti non si nasce, si diventa: lo sosteneva anche il grande scienziato Albert Einstein, che alla causa della pace nel mondo ha saputo dedicare non pochi sforzi. Del resto, una conferma molto esplicita la offre la biografia di Ernesto Teodoro Moneta, il primo e unico italiano insignito del Premio Nobel per la pace nel lontano 1907.
«Quando, nel pomeriggio del 10 dicembre 1907, ricevetti la lieta notizia del premio che mi era stato conferito da Voi, Signori, la soddisfazione fu generale in Italia, come lo dimostrarono le testimonianze di affetto e di stima che mi giunsero da tutte le classi sociali, e dal Re Vittorio Emanuele in particolare, che nel suo telegramma di congratulazioni per questo alto riconoscimento, rinnovava i suoi fervidi auguri per il ‘trionfo della grande causa della pace’. Di cotanti onori e di tante pubbliche manifestazioni, le maggiori che un uomo possa desiderare, sono Vostro debitore, Signori, e troppo breve sarà il tempo che mi rimane da vivere per potervi testimoniare, con una rinnovata attività nella mia opera di propagandista, la mia imperitura riconoscenza».
Con queste parole, il 25 agosto del 1909, Ernesto Teodoro Moneta era intervenuto a Oslo – quasi due anni dopo l’assegnazione del famoso premio –, per affrontare, parlando all’Istituto Nobel norvegese, un tema a lui particolarmente caro: “La pace e il diritto nella tradizione italiana”. Aveva ormai settantasei anni, e in Italia godeva di una certa nomea e, soprattutto, di una vasta stima e popolarità, conferitagli dalla lunga e operosa attività nel campo giornalistico. Perché il pacifismo, di cui Moneta si dichiarava appassionato e convinto sostenitore – impegnato, spesso in modo quasi frenetico, a fare da “propagandista” di una diffusa “politica per la pace” – è solo un aspetto, seppure il più importante, del suo itinerario biografico: quello che, appunto, varrà a assicurargli un nome, e un posto, nella storia dei premi Nobel.
Nato a Milano nel 1833 (lo stesso anno in cui veniva al mondo anche Nobel), Moneta non era ancora quindicenne all’epoca delle Cinque Giornate di Milano del 1848, e gli era toccato capire subito quanto brutale fosse la guerra, appena aveva visto cadere uccisi alcuni soldati austriaci, mentre aiutava suo padre a sistemare sassi e mattoni, caso mai fosse necessario farne uso, come armi improprie.; mentre un po’ dovunque – non solo in Italia – era in atto la cosiddetta “primavera dei popoli”. Anzi, tornati gli austriaci, aveva dovuto fuggire di casa e darsela a gambe levate; ma subito aveva intuito che per contribuire a liberare l’Italia, occorreva il coraggio di partecipare in prima persona a quello che verrà chiamato il nostro “risorgimento nazionale”. Nasce da lì la sua scelta di correre volontario a combattere con i “Cacciatori delle Alpi” nella seconda guerra d’indipendenza, quella del 1859, e di unirsi, l’anno dopo, alla Spedizione Medici, raggiungendo Garibaldi in Sicilia. Della stessa carica di patriottismo combattivo darà prova anche più tardi, fino a prendere parte nel 1866 alla terza guerra d’indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Custoza, nonostante l’amara sconfitta.
Ma proprio il diretto contatto con le tante, drammatiche conseguenze, che quei sanguinosi avvenimenti bellici gli avevano messo sotto gli occhi, doveva portare Moneta a maturare il suo progressivo rifiuto verso ogni forma di guerra: preludio della sua successiva, e definitiva, scelta a favore del pacifismo. Infatti, molti anni dopo, sempre parlando nel 1909 all’Istituto Nobel, si sentirà in dovere di confessarlo lui stesso con queste limpide parole: «Sentii quanto vi è di disumano e di crudele nella guerra, che fa diventare nemici, con pregiudizio reciproco, i popoli che avrebbero tutto l’interesse a intendersi e ad essere amici», aggiungendo che «questa impressione si rinnovò più tardi molte volte in me, davanti ai feriti ed ai morti di tutte le guerre della nostra indipendenza alle quali presi parte».
La scelta pacifista, dunque, non si verifica immediatamente, perché appena finisce la fase del Moneta “patriota” emerge la sua decisione di diventare quello che possiamo definire il Moneta “giornalista”. Tant’è vero che per un intero trentennio – esattamente dal 1867 fino al 1896 – svolge un’attività “pubblica” di crescente rilievo come direttore del quotidiano Il Secolo, al punto da riuscire a rendere questo giornale milanese la “voce” più significativa e più autorevole di una linea radical-progressista, capace di interpretare le aspirazioni dei nuovi ceti emergenti (in aperto dissenso con la linea moderato-conservatrice, sostenuta dal “Corriere della Sera”, nato nel 1876) e di polemizzare, spesso duramente, non solo contro gli uomini della Destra storica al potere ma anche contro la successiva politica, quella incarnata dal famoso “trasformismo” di Agostino Depretis, e poi dalle ambizioni velleitarie di Francesco Crispi, finite con il famigerato disastro di Adua.
C’è di più: Moneta concepisce il giornalismo non solo come un moderno, efficace mezzo di informazione ma anche come uno strumento valido di “formazione”, tanto più indispensabile se si considera quanto era ancora “basso” l’indice di alfabetizzazione nel nostro Paese (e, tuttavia, molto più esteso e sviluppato nelle aree del Nord d’Italia, rispetto alle pessime condizioni in cui, ancora per non poco tempo, si sarebbero trovate tante zone del Mezzogiorno). Basta sfogliare Il Secolo, per accorgersi che quel giornale aveva una serie di “servizi” e una “cronaca cittadina”, in grado di dare spazio anche al “malcontento” (un termine simile l’ha usato proprio Moneta fin dal 1869), magari attraverso dettagliati resoconti degli scioperi in atto nella capitale lombarda e in quello che poi diventerà il “triangolo industriale” del settentrione. Così si capisce come mai Il Secolo, nel giro di pochi anni, riesce a passare dalle trenta alle centomila copie!
Però, già durante gli anni ’70-’80 comincia a emergere l’immagine del Moneta “pacifista”, che si impone come animatore di quella “Società per la pace e la giustizia internazionale”, che avrebbe ampliato l’attività della “Unione lombarda per la pace e l’arbitrato internazionale”, sorta a Milano nel 1887. «Diffondere idee ed educare sentimenti umanitari per la cessazione delle guerre. Favorire l’affratellamento dei popoli. Propugnare le soluzioni attraverso gli arbitrati nelle vertenze internazionali. Promuovere la trasformazione degli eserciti permanenti, sostituendo ad essi le nazioni armate»: ecco, nel tipico linguaggio di fine ‘800, le idee-forza, i principi-chiave di quella “politica per la pace”, che bisognava fare assurgere a un vero e proprio dovere civile, per contribuire tutti insieme – ai vertici di ogni Stato come alla base di ogni società – a “cambiare il mondo”, che significava, in parole semplici, cercare di fare piazza pulita di ogni sopraffazione, di ogni violenza, di ogni guerra.
Purtroppo, il cammino da seguire era ancora molto lungo e impervio, perché – come sosteneva Moneta nella sua opera, uscita in quattro volumi fra il 1904 e il 1910, intitolata “Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo XIX” – gli Stati continuavano nella loro pericolosa politica di «educare la gioventù all’idea di uccidere altri uomini a migliaia – sono le sue esatte parole –, preparare strumenti di spaventevole sterminio delle vita umane […], cogliere il momento propizio per assaltare, rovinare, spegnere quel paese verso il quale fino a quel momento si sono prodigate dichiarazioni di buon vicinato». Ecco, dunque – come reazione all’incombere di sempre nuovi conflitti – lo stretto rapporto, caratteristico del pacifismo monetiano, che occorre instaurare fra l’impegno a creare e diffondere condizioni di pace in ogni angolo del mondo (e in primis, sul continente europeo) e la ricerca a rendere finalmente operante il principio della giustizia internazionale.
Per spiegare questi grandi motivi ideali Moneta aveva dato vita fin dal 1890 a una pubblicazione molto originale, destinata a uscire ogni anno con il titolo Almanacco della Pace e con la collaborazione di “grandi firme” della cultura e del giornalismo, da Cesare Lombroso a Vilfredo Pareto, da Edmomdo de Amicis a Roberto Ardigò, da Giovanni Bovio a Napoleone Colajanni, cui si aggiungevano le illustrazioni fatte da artisti di prestigio, come Gaetano Previati o Giuseppe Mentessi o Cesare Tallone. Lo stile doveva essere semplice, didascalico, adatto a un tipo di lettori curiosi, eppure dal livello culturale un po’ “basso”. Ecco perché, spesso, già sulla copertina spiccavano espressioni molto forti: “Giù le armi!” si legge nell’Almanacco del 1895, quando eravamo in piene guerre coloniali. “Bandiera bianca” si legge sull’Almanacco del 1899, a richiamare le drammatiche vicende dell’anno prima, il famoso Novantotto, denunciato da Moneta per “i tumulti e le repressioni non degne di un paese civile”. “Pro Pace” si legge sugli Almanacchi del 1916 e del 1918, quando un po’ tutta l’Europa era sconvolta da quella che sarà chiamata Grande Guerra.
Certo, non va neppure taciuto che – pur confermando piena fedeltà agli ideali del pacifismo – Moneta non ha esitato a esprimere adesione e consenso anche in coincidenza di specifici avvenimenti di notevole rilevanza: per esempio, ai tempi della guerra di Libia e, poco più tardi, a favore dell’intervento italiano fra il 1915 e il 1918, per poter realizzare quella conclusione del risorgimento e dell’indipendenza nazionale, che aveva visto Moneta assertore convinto fin dagli anni giovanili. Del resto, fin dal 1898 aveva fondato un’altra rivista, La Vita Internazionale, e già nel numero del 5 dicembre 1905 aveva voluto pubblicare un intervento, che conteneva un imperativo-slogan, così concepito: “Né belligeri, né imbelli”, dove Moneta spiegava quello che occorreva decidersi a saper fare: «Non belligeri – scriveva –, perché la passione della guerra è segno di barbarie e gli italiani, civilmente evoluti come sono, non potrebbero ridivenire belligeri senza retrocedere nella storia. Non imbelli, perché lunghi secoli di servitù e di oppressione hanno già troppo insegnato agli italiani ciò che costano la fiacchezza morale e la disabitudine dalle armi».
Intendiamoci: in taluni giudizi espressi da Moneta non si può negare una dimensione di “eurocentrismo”, o addirittura qualcosa di simile a un vizio “eurocentrico” (comune a molti ambienti operanti fra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo). Eppure resta impossibile misconoscere la chiarezza di certe prese di posizione, che hanno accompagnato il pacifismo di Moneta, mai disgiunto da una carica di idealismo etico. Basta leggere, per esempio, quanto scriveva sul “Secolo” fin dal dicembre del 1881: «Se gli uomini buoni di ogni partito dessero mano a far cessare quella triste e pagana distinzione fra le due morali, la privata e la pubblica, che è la sorgente di tutti i mali civili, non passerebbe gran tempo senza che i governi non fossero costretti a por fine alle loro torbide macchinazioni e ad adottare una più onesta e umana politica». Tesi che Moneta avrebbe ribadito nel 1902, all’XI Congresso mondiale della pace: «Non vi è che una morale al mondo, e questa consiste non solo nel non far male ad alcuno, individuo o popolo, ma nell’operare in guisa di poter giovare, colla propria condotta, alla buona convivenza generale».
Ecco perché se ancora oggi – di fronte ai tanti conflitti che continuano a insanguinare il Pianeta Terra – c’è chi sente il diritto-dovere di esprimere la propria solidarietà a fianco di chi, in qualunque zona del mondo, è oppresso, e soffre, e lotta per rompere ogni tipo di catene, vuol dire che quella lontana lezione etico-politica di Ernesto Teodoro Moneta alla costante ricerca della pace – la “pace dei liberi e dei forti”, come preferiva indicarla – continua a servire da provvido esempio per ciascuno di noi.
* Testo redato in occasione del catalogo della Mostra su Ernesto Teodoro Moneta, curata da Pietro Redaelli e promossa dalla Fondazione Villa Nobel di San Remo (2007)
di Arturo Colombo