PREMESSA
L’Italia è l’unico paese d’Europa in cui esistono ancora oggi associazioni che si richiamano all’esperienza della guerra di liberazione. E che sono diventate associazioni di carattere permanente per una precisa scelta politico-culturale maturata anni dopo la fine del conflitto.
Ciò è avvenuto per due ragioni strettamente connesse tra di loro. Nel primo caso si fa riferimento al 25 aprile, data fondante della nostra identità nazionale e quindi alla necessità di preservarne e attuarne il messaggio, riflesso nei dettami della nostra Costituzione. Nel secondo  ci si misura con una controparte, parliamo in generale della destra italiana, che si ritiene, a torto o a ragione, ripetutamente tentata, in determinate circostanze, di non rispettare più le regole del confronto democratico.
Un problema con il quale la sinistra si è dovuta confrontare, lungo tutto l’arco di quello che potremmo chiamare il “secolo lungo”. Perché inizia, nel 1911 , con la guerra di Libia. Ed è presente anche oggi.
Un secolo lungo di cui percorreremmo insieme le principali tappe. Senza preconcetti dogmatici o pretese scientifiche. Ma per ritrovare, insieme, quella memoria su cui si basa la nostra identità.

1911- 1922. DALLA GUERRA DI LIBIA ALLA MARCIA SU ROMA
La guerra di Libia non è una normale guerra coloniale. Non nasce a sostegno di una presenza politica e economica già in atto; e per stroncare o anticipare le conseguenti rivolte delle popolazioni indigene.
É invece, in tutti i sensi, una guerra ideologica. Nessuna offesa cui reagire. Nessuna ragione economica e/o strategica fondata sulla realtà di un paese di cui non si sa nulla. Né esistono con la Turchia conti da regolare o aspirazioni pregresse.
E, allora, si parte per il “bel suol d’amore” perché l’Italia vuole essere, o comunque apparire, come una grande potenza; a partire dal suo riconoscimento come potenza coloniale. E, ancora, perché si ritiene che  la consistenza interna di una nazione, trovi la sua verifica definitiva nella sua capacità di fare la guerra e di vincerla.
A coronare il tutto la celebre frase di Pascoli: “la grande proletaria si è mossa”. A completare un mito che sarà poi sviluppato dal fascismo sino alle sue estreme conseguenze.

Protagonista dell’operazione, Giolitti. E per motivazioni di politica interna. Aveva aperto prima ai socialisti, fino a farne i coprotagonisti dell’età giolittiana”. Poi ai mazziniani, con la giunta Nathan a Roma.. Poi a cattolici, con il patto Gentiloni. Ora, a uso e consumo dei nazionalisti, una guerra facile facile.
Quattro anni dopo avrebbe motivato la sua opposizione all’intervento  anche con lo stato di impreparazione del nostro apparato militare durante la guerra di Libia. Ma era stato lui ad aprire il vaso di Pandora; e, nell’esaltazione delle “radiose giornate” il suo sarebbe apparso come un mediocre discorso di un ragioniere. O, più esattamente, nel clima isterico di quei giorni, di un venduto allo straniero.

In sintesi,  il 1915 era tutto contenuto  nel 1911. Ma ad ascoltare il segnale d’allarme, e reagire, furono soltanto i socialisti. Massimalisti ma anche riformisti. Ad essere espulsi nel 1912 i  pochi esponenti del partito che dopo aver detto sì all’avventura libica sarebbero stati, qualche anno dopo, convinti sostenitori dell’interventismo. A subire analoga sorte, nel 1915, praticamente il solo Mussolini. E non tanto per le sue opinioni in merito alla guerra; ma per aver fondato, vero e proprio atto di tradimento , il Popolo d’Italia.
Il no alla guerra accomuna dunque tutti i socialisti( con Matteotti in prima fila a chiedere un’opposizione più dura). I massimalisti, che vedono confermate le ragioni della loro intransigente opposizione a qualsiasi collaborazione con la borghesia; ma anche, e soprattutto, i dirigenti riformisti che vedono nella guerra il male assoluto. Perché portatrice di disastri materiali e morali . Perchè fonte di imbarbarimento del confronto politico e sociale . Perché volta a contrastare il processo di emancipazione del mondo del lavoro.
La risposta sarà il celebre “non aderire né sabotare”. A significare: “a voi di fare la guerra; a voi di pagarne le conseguenze”. Non era una minaccia. Né l’annuncio di progetto rivoluzionario. Era la visione della rivoluzione come un fatale divenire. Di cui la guerra avrebbe accelerato i tempi.
Sia come sia la rivoluzione non ci fu. Visse come sogno e utopia e intorno al mito di un ottobre che, agli occhi del popolo socialista, faceva tutt’uno con il febbraio. Ma socialisti e comunisti convennero ben presto che era irrealizzabile. I socialisti perché mancavano le condizioni oggettive; i comunisti perché non si era costituito il soggetto rivoluzionario.

Arrivò invece il fascismo. Reazione eccessiva agli eccessi dei socialisti ? E’, a cent’anni data, il giudizio rimasto in campo. Ma per pura forza d’inerzia ( in questo caso, intellettuale).  In realtà le premesse per il suo successo ci sono tutte nel maggio del 1915; a partire dal rapporto perverso tra quelli che avevano deciso l’intervento e quelli che l’avevano imposto nelle piazze.
I primi si ispirano al sacro egoismo. L’Istria e la Dalmazia per fare dell’Adriatico un “mare nostrum” per la Marina; la costa meridionale della Turchia  a complemento del Dodecaneso; Fiume come accesso al mare per  l’impero austro-ungarico, di cui si dà per scontata la sopravvivenza. E, ciechi e sordi di fronte allo spettacolo della guerra di trincea, già in atto in atto sul fronte occidentale, i loro generali manderanno al massacro centinaia di migliaia di uomini, tenendo pronta la cavalleria per la carica decisiva nelle pianure ungheresi.

Nel 1919, a Parigi, si troveranno di fronte a un mondo di cui ignoravano l’esistenza: quello dello scontro tra il wilsonismo e i nazionalismi, l’uno contro l’altro armati. Con la sostanziale vittoria dei secondi. Ne usciranno ridicolizzati. Alimentando la leggenda della vittoria mutilata. E della responsabilità delle classi dirigenti nell’averlo consentito. Queste assisteranno, allora, in un’impotenza che assumerà sempre più i contorni della complicità, allo scontro tra l’”Italia  di Vittorio Veneto”e quella di Caporetto. Da una parte quelli che avevano combattuto e vinto la guerra; dall’altra quelli che non l’avevano voluta e  l’avevano, con la loro propaganda, sabotata. Che erano poi anche quelli che sputavano sugli ufficiali e precipitavano il paese nel disordine antesignano della rivoluzione bolscevica. Questo per dire che il 28 ottobre sarà, in qualche modo, la conseguenza logica, l’esito finale di un processo avviato il 24 maggio. E avvenuto con il loro pieno consenso. Resta, allora, da capire in che misura socialisti e comunisti ne fossero consapevoli; e cosa abbiano fatto, o potessero fare, per ostacolarlo.

di Alberto Benzoni

La guerra italo-turca o impresa di Libia fu combattuta dal Regno d’Italia contro l’Impero ottomano tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica. Tra i favorevoli il poeta Giovanni Pascoli, tra i contrari Gaetano Salvemini (nella foto)

 

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