Il 4 agosto è scomparso a 92 anni Michele Achilli, figura centrale del socialismo italiano e del PSI tra gli ultimi anni Sessanta e la fine della cosiddetta Prima Repubblica. È stato un politico e un uomo brillante, capace di esprimere senza timori posizioni di minoranza mantenendo con gli avversari, interni ed esterni al suo partito, una pacatezza rara anche di fronte ai temi più divisivi. Aveva capito, già nel 1976 e cioè all’atto della sua elezione a segretario del PSI, che Craxi non avrebbe portato avanti l’alternativa di sinistra caldeggiata dal leader di riferimento dello stesso Achilli, Riccardo Lombardi. Sapeva, Achilli, che anche dopo il Congresso di Torino del 1978, celebrato durante il sequestro Moro in un clima di enorme tensione e che aveva fatto dell’alternativa la linea di tutto il partito, il PSI del suo amico Bettino, con il quale mantenne sempre buoni rapporti personali indipendentemente dai “duelli” politici iniziati in Lombardia, era destinato ad allearsi nuovamente con la DC nel nome della governabilità. E non a puntare su chi si trovava alla sua sinistra, cioè sul PCI (di cui però Achilli mai apprezzò le rigidità) e le forze minori che gli gravitavano intorno (come il PDUP) e che esprimevano posizioni critiche nei confronti dello stesso partito di Berlinguer, al quale non si perdonava (neppure da parte delle varie anime del PSI) il compromesso storico lanciato nel 1973. Ripercorrendo gli anni in cui guidò una sua corrente, autonoma dalla sinistra lombardiana e dal 1981 unita a quella di De Martino, si capisce che, più di quanto egli stesso non abbia immaginato dopo aver abbandonato la militanza attiva, fino al 1984 (l’anno della ricomposizione della sinistra lombardiana senza Lombardi) le proposte politiche di Achilli, sempre attento agli inquietanti rigurgiti fascisti, profondamente laico e rispettoso delle diversità, erano tutt’altro che utopistiche, anche se calarle concretamente nel quadro politico di allora (si pensi ai rapporti di forza a sinistra e ai complessi equilibri internazionali) si rivelò alquanto complesso. Al contrario di molti dirigenti della sinistra italiana, socialisti e comunisti, Achilli aveva una felice peculiarità: quella di comprendere la centralità degli scenari di politica estera. A cominciare da quelli del Medioriente, di cui mostrava di capire a fondo le dinamiche interne in anni di grandi (e non sempre positive) trasformazioni. Achilli lavorò per la pace quando ancora la Guerra fredda era l’elemento centrale intorno al quale ruotava il quadro internazionale, e lo fece senza scadere in slogan sterili ma perseguendo il disarmo bilaterale con determinazione e lungimiranza. Comprese appieno le ragioni dei palestinesi senza mai sognarsi di mettere in discussione l’esistenza di Israele, anzi tentando di capire (studiando e scrivendo) com’era possibile portare un contributo concreto alla definizione di un equilibrio più stabile in quell’area, ancor oggi martoriata da conflitti e tensioni. In Europa non smise di perseguire una maggiore e più efficace cooperazione tra le diverse forze progressiste (dai comunisti ai socialdemocratici) difendendo le epocali conquiste del Welfare State, indispensabile per combattere le diseguaglianze sociali, senza perdere di vista la realtà che mutava sempre più rapidamente e che portava verso una diminuzione della spesa pubblica dopo trent’anni di ascesa nel secondo dopoguerra. Achilli è stato un politico di professione senza tuttavia rinunciare a un’altra professione, quella di architetto, che gli ha consentito di non dipendere dai “palazzi” e di mantenere sempre la schiena dritta. Era insomma, anche per questo, un uomo libero che non amava i dogmi ideologici ma che ha saputo, a lungo, esprimere un sano radicalismo politico-culturale di cui oggi si avverte la mancanza. Il suo riformismo, non soltanto nel settore urbanistico su cui ha scritto pagine illuminanti anche in questi ultimi anni, non era certo di facciata. Era, pensando a Lombardi, una sorta di riformismo rivoluzionario grazie al quale tentò, con l’entusiasmo che l’ha sempre contraddistinto e che si vedeva nel suo bel sorriso, di ampliare i diritti senza perdersi nei sogni impossibili, ma senza farsi schiacciare dal realismo senza prospettiva di finti “saggi” o improvvisati responsabili. Fino all’ultimo Achilli non ha pensato al passato in modo nostalgico ma, mostrando un raro senso della storia per un ex militante e dirigente di partito, ha provato a rivederlo non solo per comprendere meglio se stesso e le vicende del suo “campo”, ma anche per immaginare come costruire una nuova sinistra senza aver alcun timore di usare la parola socialismo, quando questa era uscita dal dibattito pubblico. Mancherà molto quel suo sorriso, dietro al quale si celava una forma di disincanto mai rinunciatario, che coesisteva con una grande curiosità nei confronti del futuro.    

di Andrea Ricciardi

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