Ritratto di un italiano che ha attraversato il XX secolo
Prefazione tratta dal libro: Massimo Caprara. Discorsi politici e parlamentari, a cura della Biblioteca della Camera dei deputati, Roma 2022
Scelto nel 1944 come segretario particolare da Palmiro Togliatti, Massimo Caprara ha avuto indubbiamente nel suo percorso collocazioni politiche diverse da quelle di partenza. Dopo essere stato collaboratore del segretario generale del Partito comunista italiano e poi componente del Comitato centrale, venne radiato dal Pci nel 1969 con “il Manifesto”, gruppo non allineato di cui fu tra i fondatori. Uscito dalla nuova formazione nel 1972, impiegò l’esperienza e le conoscenze acquisite per descrivere e analizzare, su giornali e in libri, risvolti pubblici e versanti non palesi della politica italiana. Da uomo senza partito non ricorse a sconti né a delicatezze nell’esprimere le critiche radicali progressivamente elaborate verso l’ideologia comunista, verso orrori commessi in Unione Sovietica che prima non aveva compreso o voluto comprendere o non erano venuti del tutto alla luce, verso comportamenti di settori della sinistra giudicati tatticismi privi di orizzonti oppure protesi in direzione di mete sbagliate. Non per questo Massimo Caprara divenne altro da sé o rinnegò se stesso.
Capita di rado che chi fa politica possa mantenere rettilineo il proprio itinerario per la durata di un’intera vita. A indurre a effettuare svolte basta di per sé la varietà delle vicende delle quali una persona impegnata in un partito o in un movimento ha occasione di occuparsi nel corso del tempo. Rispetto a tesi sostenute all’inizio della propria militanza, i cambiamenti possono risultare più o meno marcati. A ciò può accadere che si sommino, per chi ha scelto di darsi orizzonti ideali, ripensamenti su dettagli o sul- l’interezza di teorie condivise in precedenza. Ma tutto ciò non esclude che anche tra le curve e tra i tornanti del cammino di un’esistenza trascorsa in politica, o comunque in relazione con la politica, siano riconoscibili robusti elementi di continuità. Dichiarate o meno, coerenze radicate e di lunga durata possono persistere nel pensare e nell’agire di un o una dirigente di formazioni politiche anche quando dovessero cambiare, oppure estinguersi, le organizzazioni di appartenenza. Individuare coerenze del genere aiuta a distinguere una personalità da altre, a riscontrarne la specificità, e a comprendere meglio le sue affinità e compatibilità con ambienti politici e culturali.
«Non sono più comunista ma non diventerò mai anticomunista», scrisse Massimo Caprara nel 2004, a sua nipote Flaminia, in una lettera che compare nell’appendice di questo libro (nota 1). Richiesto allora da una bambina di spiegare come si considerasse politicamente, si definì “piuttosto al Centro”. Quasi come se rifiutasse di arrestare i propri passi adattandosi a una posizione statica, riservò le pronunce risolute a osservazioni e principi che reputava più sostanziali: «Posso dire forse che non sono né di Destra o di Sinistra: semplicemente Uomo con le sue debolezze e le sue forze, che ama la Libertà e conserva amore per la Democrazia. La giustizia uguale per i ricchi e i poveri è il mio ideale».
UN VIAGGIO TRA CORREZIONI DI ROTTA E CONTINUITÀ
Benché da ragazzo si fosse immesso nell’involucro di un costume ideologico che per tanti, e anche per lui, ebbe costrittivi tratti di acciaio, Massimo Caprara non lo aveva fatto per una propensione alla sottomissione. Nel suo primo colloquio con Togliatti in un appartamento di via Broggia a Napoli, il primo maggio 1944, il giovane antifascista dovette rispondere innanzitutto a domande sulla letteratura. Fu una sorta di esame senza programma didattico stabilito, e su diverse materie. L’esaminato trasse vantaggio dalle proprie letture di studente e dalla dimestichezza con l’arte recepita a Milano quando frequentava il liceo Manzoni ed era stato ospite dallo zio Adriano Pallini, sarto e collezionista di quadri e sculture che come clienti e amici aveva pittori tra i quali Giorgio De Chirico, Massimo Campigli, Mario Sironi (nota 2).
Dall’incontro in via Broggia il ventiduenne Massimo Caprara ricavò l’impressione che Togliatti fosse «un intellettuale pedagogo dalla mente spregiudicata, alacre e bene ordinata», come più tardi avrebbe raccontato a Roberto Fontolan in Riscoprirsi uomo (nota 3). Gratificato dal venire ascoltato da un interlocutore che in cerchie ristrette era leggendario, che era venuto in aereo e nave dalle Russie passando per l’Africa, e di certo era capace di incutere soggezione, lo studente di giurisprudenza ricevette il compito di coordinare la futura redazione di “La Rinascita”, rivista comunista tutta da creare. Pochi giorni dopo, durante un viaggio verso Salerno, la città dell’Italia divisa che Togliatti doveva raggiungere nella sua qualità di ministro nel Governo Badoglio II, il capo del Partito affidò a Massimo Caprara anche l’incarico di segretario particolare (nota 4).
Fu la percezione che le nuove mansioni non avrebbero dovuto imporre una rinuncia al proprio senso critico a indurre il giovane militante a proseguire nel cammino profilatosi. La carta sulla quale stampare “La Rinascita” Togliatti dispose che venisse chiesta al “Colonnello Merryll”, un ufficiale dell’VIII armata britannica in servizio a Napoli. Precisamente, nella sezione delle forze alleate per la guerra psicologica, Psychological Warfare Branch. Il colonnello era Renato Mieli, ebreo nato ad Alessandria di Egitto, mente acuta e portata al disincanto. Quando Massimo Caprara contattò il colonnello gli sentì esprimere «un’adesione consapevole senz’enfasi al comunismo sovietico nel momento del suo schierarsi contro Hitler, ma anche una sua moderazione nel condividerne storia e vicende interne del gruppo dirigente». Questa fu la sintesi della conversazione che Massimo Caprara fornì nel libro L’inchiostro verde di Togliatti. Ne trasse la seguente valutazione: «Paradossalmente, immaginai che fosse per me possibile stare responsabilmente in un partito senza condividerne disciplinarmente tutti i comportamenti, anzi differenziandosene con elegante e coraggioso distacco (come Mieli), non confondendosi con la rozza brutalità di una pratica irta di fanatismo (alla Spano)» (nota 5). Spano era Velio Spano, dirigente cresciuto, in Italia e all’estero, nella clandestinità.
Da segretario di Togliatti, Massimo Caprara si concesse un’inusitata deroga all’obbedienza nei confronti dell’autorità politica suprema da sé riconosciuta. Si permise di autorizzare un sacerdote a benedire la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure (nota 6). Lo decise convinto che non sarebbe dispiaciuto alla propria madre, cattolica, la quale in seguito, per motivi di fede, avrebbe più volte negato al figlio comunista il voto sulla scheda elettorale. Accadde nell’aprile 1948, mese rovente di elezioni storiche. Il religioso era l’assistente ecclesiastico dei Comitati civici di Luigi Gedda schierati contro il comunismo, don Lucio Migliaccio, il quale nel 2007 confermò l’episodio a chi scrive queste righe.
In quel giorno dell’aprile 1948 il sacerdote si era presentato in abito talare, senza alcun appuntamento, all’ingresso del quartier generale del partito nemico, nel centro di Roma. Chiese di procedere alla benedizione dei locali. Stupita, la “Vigilanza” della sede comunista domandò direttive al funzionario più alto in grado presente nel palazzo. Al marxista e materialista Massimo Caprara la richiesta ricordava la benedizione del prete che la madre, ogni anno, accoglieva nella propria casa di Portici Bellavista. Concedere l’autorizzazione, da parte sua, non significò manifesta ribellione alle direttive del Partito né inibizione nei confronti di un’eventuale scomunica dei comunisti. Il decreto del Sant’Uffizio che la deliberò sarebbe stato promulgato nel 1949. Semmai la decisione di dare via libera alla benedizione derivava da un modo personale di conciliare, di fronte all’imprevisto, un impulso dettato da affetto di figlio e l’attenzione di Togliatti verso i cattolici. Era stato il capo comunista del “Partito nuovo” uscito dalla clandestinità, nelle votazioni dell’Assemblea Costituente, a rendere possibile che la Costituzione confermasse la validità dei Patti Lateranensi sottoscritti nel 1929 da Benito Mussolini. La licenza concessa da Massimo Caprara a don Migliaccio poteva essere un’interpretazione di quella linea. Adottata in autonomia. Largamente estensiva, quanto meno.
Contraddizioni e paradossi sono frequenti nella vita degli esseri umani. E tra le attività più tipiche della specie umana rientra la politica. Seppure con svariate eccezioni, allora i dirigenti e i funzionari del Pci avevano in se stessi, rispetto a italiani di altri partiti, una duplicità interiore. Una doppiezza meno machiavellica e solo indirettamente associabile a quella attribuita da parecchi analisti e avversari a Togliatti, protagonista della costruzione della Repubblica e contemporaneamente uomo legato a Mosca, dunque ritenuto dal centro e dalle destre un potenziale sovvertitore della Repubblica stessa (nota 7).
La duplicità non aveva in ciascuno proporzioni uguali e potrebbe essere riassunta come segue. Quei dirigenti e quei funzionari erano italiani con indoli dissenzienti e tendenzialmente ribelli rispetto a un ordine costituito che identificavano in capitale, Stato, Chiesa. Se la loro attitudine all’insubordinazione poteva favorire contrasti anche duri all’interno del mondo comunista, secondo criteri leninisti essa doveva essere anche domata, modellata, temperata e resa funzionale all’occorrenza. Entravano perciò in campo criteri formativi utili a dotare il partito di disciplinati, rigorosi promotori della linea indicata dal segretario generale. Sia che la linea del momento fosse condivisa dal singolo dirigente sia che non lo fosse, tant’è che anche numerosi dei comunisti più rivoluzionari si adeguarono all’indicazione togliattiana di partecipare all’edificazione della Repubblica italiana. Il proposito della Rivoluzione, in essi, venne confinato tra le parentesi di una riserva mentale da realizzare in un futuro indeterminato.
Per sottrarsi al servizio militare in epoca fascista, stando a un’aneddotica familiare, Massimo Caprara da ragazzo si sarebbe leso una rotula. A colpi di gavetta sul ginocchio. L’indole insubordinata che poteva trasparire da quel gesto era probabilmente rispuntata nell’eliminare ostacoli alla richiesta di don Migliaccio, una pretesa quasi da incursore. Dalla seconda metà degli anni Sessanta nel deputato del Pci la componente ribelle prevalse più dell’accettazione della disciplina alla quale era stato chiamato, nei fatti, da giovane di apparato di partito. Del resto era stata la conoscenza della letteratura, non una scialba vocazione a un acritico obbedire, ad aver indotto Togliatti a notare quel ragazzo mentre cercava un collaboratore da far lavorare vicino a sé.
Gli interventi di Massimo Caprara raccolti in questo libro offrono fotogrammi di stagioni rilevanti nella storia politica e parlamentare d’Italia. Li forniscono senza ambire a inquadrare la realtà da angolature imparziali. Discorsi e testi a disposizione del lettore sono per lo più dovuti alla militanza in un partito o alla partecipazione a battaglie culturali. Sono dunque inevitabilmente di parte. Oltre a raccontare aspetti dell’Italia, consentono di ripercorrere tappe del tragitto tra formazioni politiche e correnti di pensiero compiuto da un italiano che, passando per luoghi non accessibili a tutti, effettuò una sua traversata del XX secolo e fu deputato per quattro legislature, dal giugno 1953 al maggio 1972.
Nell’ordine delle pagine, all’inizio della raccolta si trovano interventi che risalgono alla ricostruzione del nostro Paese dopo la Seconda guerra mondiale, tempi segnati anche dalla contrapposizione tra opposizione comunista e maggioranze di governo imperniate sulla Democrazia cristiana. Seguono interventi pronunciati alla Camera negli anni Sessanta mentre l’Italia conobbe uno sviluppo economico disomogeneo, nei mesi delle proteste giovanili e sindacali, in momenti che per la sinistra furono di successi e crisi. Altri discorsi e scritti attraversano la parte conclusiva del XX secolo e i primi anni del XXI. Nell’appendice, considerazioni di Massimo Caprara di anni della gioventù e sue riflessioni dell’età avanzata.
Tra frammenti di un passato che è stato comune a numerosi italiani, si possono ravvisare gli elementi di continuità nell’azione e nelle idee del deputato. Almeno tre.
Il primo: la determinazione con la quale Massimo Caprara sosteneva pro- prie convinzioni non ha nel complesso eliminato un’altra inclinazione, la volontà di approfondire la conoscenza della realtà, di guardare le cose ri- cavando insegnamenti anche da sguardi diversi dal proprio. Coltivata da ragazzo, poi contenuta e mai soppressa, è una caratteristica che si accentuò durante la seconda metà dei 25 anni di militanza nel Pci. Come si può constatare nelle prossime pagine, gli interventi di Massimo Caprara nell’Aula di Montecitorio, il più delle volte, per quanto schierati pro o contro qualcosa erano costruiti sulla base di dati, sulla ricerca di riscontri il più possibile fattuali a sostegno delle tesi sostenute. Un metodo che aveva premesse nella gioventù.
Nel gennaio 1944 un gruppo di studenti napoletani aveva dato vita a una rivista. La caduta del velo scuro della censura fascista stava sprigionando energie che non avevano potuto dispiegarsi in pieno durante un ventennio di dittatura. Con le parole “Latitudine – Contributi alla cultura” per testata, quei ragazzi mandarono in tipografia un fascicolo. Una trentina di pagine, in italiano con alcune parti in francese, contrassegnata dall’ambizione di contribuire con «una prima meditata approssimazione ad una nuova cultura europea» (nota 8). Il progetto si avvalse di versi del poeta surrealista Paul Eluard e del cattolico Pierre Emmanuel.
Non superò la durata di un lampo. Si bloccò dopo la pubblicazione del numero uno. Mancavano i soldi e nella situazione magmatica della Napoli liberata (magmatica anche in senso letterale: l’ultima eruzione del Vesuvio fu nel 1944) il gruppo dirigente comunista cittadino sottopose i ragazzi più impegnati nella rivista a una confutazione ideologica prossima a un processo (nota 9). Le loro esplorazioni nel sapere letterario e artistico finirono sotto accusa. Gli inquisiti non erano neppure ancora iscritti al Pci o almeno non tutti.
A “Latitudine” oggi potrebbe essere riconosciuto l’azzardo inventivo di una start-up senza fini di lucro. L’esperimento apparve innovativo, frutto di studi e ricerca. Generò un prodotto editoriale oscillante tra versi di poesia capaci di colpire chiunque e paragrafi di prosa fin troppo torniti, raffinati, elitari. In ogni caso, considerata l’età degli autori, un progetto di qualità non scontata. Tra coloro che scrissero articoli o tradussero poesie per “Latitudine”, oltre a Massimo Caprara che ne era stato eletto direttore, vi erano ragazzi inconsapevoli di essere destinati a fare strada. Giorgio Napolitano, che nella redazione coltivava il suo interesse per il teatro e nel secolo successivo sarebbe diventato Presidente della Camera e della Repubblica. Raffaele La Capria, che in anni seguenti avrebbe arricchito con testi intensi di illuminante originalità la letteratura italiana. Luigi Compagnone, che sarebbe stato un altro autore di pregio di narrativa e poesia. Maurizio Barendson, destinato a una sua popolarità in qualità di giornalista sportivo della Rai.
Giuseppe Patroni Griffi, che avrebbe acquisito notorietà da drammaturgo e regista cinematografico. A gravitare nel medesimo giro, Antonio Ghirelli, che poi avrebbe ricevuto l’incarico di consigliere per l’informazione del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che avrebbe diretto giornali, e Francesco Rosi, che avrebbe guadagnato autorevolezza nel dirigere film di denuncia su mali e lati ombrosi della storia italiana.
I giovani si erano conosciuti perché compagni di scuola o per attività su cinema e teatro collegate a un’altra rivista, quella del Gruppo universitario fascista della città, “Novemaggio”. Diversi di essi vi avevano collaborato. Secondo quanto riportato da Cesare Pillon in I comunisti nella storia d’Italia (nota 10), un intellettuale dotato di estro, Renato Galdo Galderisi, aveva indotto la compagnia a pubblicare sull’organo del GUF articoli di Karl Marx adatti a essere scambiati dalla censura per brani fascisti. Uscivano con altre firme. Napolitano, nel parlare con chi scrive, ha riferito che i materiali proposti dall’ideatore della trovata erano dell’Internazionale comunista. Galdo Galderisi, più tardi, sarebbe morto da partigiano nei Balcani.
Un alternarsi di spiragli di luce e scossoni dovuti a dolori diretti o indiretti contrassegnò per quei ragazzi la prima metà degli anni Quaranta. Come sua madre e suo padre, dopo l’8 settembre 1943, a causa della guerra, Massimo Caprara non ebbe notizia per quasi due anni dei fratelli Carlo, Adriano e della sorella Annamaria. Le sole eccezioni consistettero in un paio di lettere da e per i genitori, un paio in tutto, affidate a un religioso per essere consegnate oltre la Linea gotica. Il primo dei ragazzi, militare, era stato deportato in Germania e internato in campi di lavori forzati.
In un suo articolo che trattava del Significato del dipingere, su “Latitudine” il direttore della rivista sostenne: «Ciò che l’artista ha in comune con gli altri è la sua sete furibonda di sapere» (nota 11). Fu quella sete intimamente «furibonda» a far sì che l’autore del testo si sentisse autorizzato, nel corso della vita, a ripensamenti e cambiamenti di rotta. Una analoga sete poté essere riscontrata facilmente nei percorsi del resto dei ragazzi.
«SETE FURIBONDA DI SAPERE», DIFESA DEL MEZZOGIORNO E DEL PARLAMENTO
Altri due elementi sono stati costanti e intrecciati nell’attività politica, giornalistica e culturale di Massimo Caprara. Una difesa intransigente, ed esigente, del Parlamento. Un meridionalismo che non avesse «la mano tesa dell’accattone», bensì si prefiggesse di sviluppare in maniera continuativa e salda, ben piantata, le capacità produttive del Mezzogiorno. Quella dell’in- cisività dell’istituzione parlamentare era una difesa che da deputato, e più avanti da giornalista, Massimo Caprara credeva non si dovesse incagliare in contorcimenti condannati a essere vani e superflui. Per dirne uno, non nel- l’arroccarsi in tentativi di proteggere prolissità concesse dai regolamenti anche quando erano eccessive. L’ex segretario di Togliatti riteneva occorresse preoccuparsi invece di contrastare ogni svuotamento, palese o meno, dei poteri di decisione della rappresentanza elettiva del popolo. Poteri da am- pliare, non da indebolire.
Già espresso durante la militanza nel Pci e ribadito con energia negli anni de “il Manifesto”, il proposito di innalzare consigli di fabbrica e rappresentanze di movimenti di massa a ruoli quasi istituzionali è stato motivato non soltanto da ambizioni a un processo rivoluzionario, risultate caduche per Massimo Caprara come per milioni di italiani legati a una parte della sinistra nel dopoguerra. Proveniva anche da una volontà di affrontare, e di non assecondare, la tendenza a un restringersi dei poteri effettivi del Par- lamento.
Al di là della parentesi di fine anni Sessanta e inizio dei Settanta, c’era un’impostazione che potrebbe sembrare di derivazione anglosassone, dell’Europa del Nord più che dell’Est, in questo genere di riformismo. Così si configurava anche se fino ad allora Massimo Caprara avrebbe respinto per sé la qualifica di riformista (sebbene in Aula proponesse riforme, il les- sico comunista assegnava al termine “riformismo” un senso, da respingere, di arrendevole o traditrice rinuncia a essere rivoluzionari). A Montecitorio, nel 1962, durante il dibattito in corso il parlamentare invitò a interrogarsi su una ritrosia costante nella politica italiana: su «per quali ragioni certi uomini politici e certi gruppi fremono ogni volta che si parla di un mutamento, diventano furibondi alla sola idea che possa esservi e funzionare un sistema di controlli democratici, di controllori che non passino finalmente attraverso il vaglio della discriminazione o della connivenza politica» (nota 12).
Era un’idiosincrasia che ha teso a scoraggiare in Italia ricambi nella classe dirigente e in modi di fare nelle istituzioni. È stata uno degli effetti collaterali della divisione del mondo in due blocchi, uno filo-americano e uno dominato dall’Urss, e dei conseguenti vincoli che ne sono derivati per il nostro sistema politico. Meglio sarebbe stato che ce ne si fosse resi più compiutamente conto, pur sapendo che, per altri versi, quella divisione del pianeta ci ha garantito libertà e benessere ai quali, collocati dalla parte op- posta, non avremmo avuto altrettanto accesso.
Convinto che le Camere dovessero essere «lo specchio del Paese» e riflettere «davvero le tendenze e lo stato della società nazionale», come disse in aula il 27 settembre 1967, Massimo Caprara mise in guardia dall’avere «un Parlamento appesantito o inceppato nelle sue funzioni e nel suo ruolo». Perché a ciò, teorizzò, «corrisponde in genere una società (parte della società nazionale) che stenta a trovare un ritmo uniforme e continuo di sviluppo». Continuò: «È per questo che noi assegniamo al Parlamento non soltanto una funzione di riflesso, ma gli assegniamo un ruolo attivo, un ruolo di guida, di stimolo, di anticipazione, un ruolo che non fa di noi parlamentari puramente dei notai, ma che ci trasforma in protagonisti dell’azione tra le masse» (nota 13).
Difendere, rinvigorire le principali istituzioni elettive, dunque. Durante la militanza nel Pci ciò poteva coincidere con la volontà del partito di tenere alta l’influenza delle Camere perché dal 1947 i legami di Botteghe Oscure con Mosca impedivano la presenza dei comunisti nei governi. Che l’elaborazione di Massimo Caprara in materia fosse anche autonoma si ravvisa però da quanto da ex deputato osservò in un convegno, “Il Parlamento nella Costituzione e nella realtà”, promosso nel 1978 dal Gruppo parlamentare radicale (nota 14). In ragione di quell’«amore per la democrazia» rivendicato nella lettera alla nipote citata pagine addietro, tutt’altro che per disprezzo verso la politica, l’ormai ex dirigente de “il Manifesto” segnalò un rischio. Uno scadimento della vitalità del meccanismo decisionale, dovuto al combinarsi di un «progressivo schiacciamento dell’opposizione reale nelle istituzioni» e del «contemporaneo riemergere o resistere di una protesta, di una opposizione nel Paese». Insomma, un pericolo determinato dal moltiplicarsi nella società di pressioni e istanze che la sinistra storica e le istituzioni non riuscivano a incanalare in se stesse, a depurare e a immettere nel circuito democratico. Massimo Caprara si spinse ad affermare: «Gli uomini che siedono a Montecitorio e dintorni paiono oggi figuranti di un processo, di una rappresentazione tutt’altro che scontata e pacifica, ma che li supera e sempre più spesso li scavalca». Lo disse senza compiacersene.
Nella sua attività parlamentare, l’ex segretario di Togliatti mosse obiezioni alla «inemendabilità del testo sul quale il governo abbia presentato la questione di fiducia». Già nel 1971, in una seduta di Aula su modifiche al regolamento della Camera, da deputato de “il Manifesto” aveva proposto che il Governo potesse chiedere un voto di fiducia «con un ordine del giorno specifico», non su testi normativi. Quindi, senza «ostacolare» «l’autonomia del legislatore nel momento in cui questo si appresta ad affrontare un articolo, un emendamento, una legge» (nota 15). La proposta non venne accolta.
«La fiducia diventa […] un volto di medusa che pietrifica interamente il dibattito», accusò il giornalista da relatore nel convegno radicale all’hotel Parco dei Principi. A esprimersi così fu uno che in seguito avrebbe guardato con favore a snellimenti di procedure perseguiti dal segretario socialista Bettino Craxi e, successivamente, non avrebbe lanciato anatemi a priori verso alcuni dei modelli di riforme istituzionali ipotizzati da Alleanza nazionale, la formazione di destra fondata a metà anni Novanta da Gianfranco Fini. Nel 1978 Massimo Caprara raccomandava tutele delle minoranze per evitare la «spuntatura delle componenti scomode del quadro politico». Esortava a superare «la non pubblicità del funzionamento delle commissioni bicamerali». La riservatezza dei lavori di questi organismi formati da deputati e senatori non era eccezionale quanto lo è oggi, mentre il fenomeno risulta ridotto e, per volontà delle Presidenze delle due Camere, lo è finanche retrospettivamente attraverso la declassificazione di resoconti su delicati passaggi di sedute che non meritano più segretezza.
UN MERIDIONALISMO SENZA «MANO TESA DELL’ACCATTONE»
Alla «mano tesa dell’accattone» Massimo Caprara si era riferito nell’Aula di Montecitorio il 6 luglio 1961. «Non siamo del parere che bisogna accampare melodrammaticamente diritti e crediti che Napoli può vantare, ma che possono, con lo stesso diritto, vantare altre e grandi gloriose città del Mezzogiorno e anche dell’Italia settentrionale» (nota 16), sottolineò. Nel dopoguerra il deputato aveva giudicato indispensabile elevare le condizioni grame dei «trogloditi». Non era una definizione metaforica, purtroppo. Era un sostantivo, amaramente veritiero: nella Napoli che era stata offesa dai bombardamenti vi erano ancora nel 1961 migliaia di cittadini costretti dalla miseria ad abitare in grotte. I baraccati costituivano una categoria sociale, e non circoscritta.
Nel 1955 Massimo Caprara aveva fatto presente alla Camera che nella sola zona urbana esistevano in totale 25.154 «bassi». Le abitazioni ricavate da angusti e spesso insani locali al pian terreno di palazzi ospitavano «103 mila persone in condizioni di addensamento, di promiscuità, in condizioni di assoluta carenza di luce e di igiene» (nota 17). Circostanze tali da rendere al di sotto della media cittadina anche le loro aspettative di vita. Esistenze più in basso, esistenze più brevi.
Per l’impegno contro la speculazione edilizia che mise aree di Napoli alla mercé di imprese predatrici, incuranti della salute dei futuri abitanti di case e dei suoli, su figure come quella di Massimo Caprara il regista Rosi volle ritagliare un personaggio del suo film Le mani sulla città. Rientrare tra gli oggetti di una sceneggiatura cinematografica per l’attività svolta da oppositore della giunta comunale non comportava una vita da cronaca rosa. Al netto delle trattenute che andavano al partito, dell’indennità parlamentare che gli veniva assegnata dallo Stato “l’Onorevole” del Pci riceveva l’equi- valente dello stipendio di un operaio metalmeccanico. Nel suo collegio elet- torale, come altri dirigenti comunisti, era obbligato a circolare con l’“ac- compagnatore”. Il suo era il fidato Ernesto Gargiulo, portuale, munito di regolare porto d’armi, militante e uomo del popolo tenuto per conto del Pci a dissuadere eventuali aggressori.
I LATIFONDI DI FIUMICINO E NAPOLI «AI LIMITI DELL’INFARTO URBANISTICO»
È esistita una curiosa corrispondenza tra come Massimo Caprara parlava in Aula, scriveva su pubblicazioni, e come si vestiva. Il deputato torniva le frasi. Sceglieva accuratamente i vocaboli. Dimostrava connaturata abilità nell’adoperare spesso a proprio vantaggio le interruzioni ricevute mentre interveniva, in pochi secondi ritorte a scapito del contraddittore. In modo analogo il suo abbigliamento si atteneva a uno stile classico, sobrio. Per Togliatti il suo ex segretario non fu tra i parlamentari ai quali ebbe bisogno di raccomandare di indossare la cravatta affinché essi si attenessero a un contegno consono al ruolo istituzionale ricoperto. Di prescrivergliela non ve ne era la necessità.
Risalta, a decenni di distanza, quanto affermazioni pronunciate oltre mezzo secolo fa dal parlamentare di Portici possano sembrare attuali o recenti. Nel 1957 Massimo Caprara proponeva nell’assemblea di Montecitorio interventi volti ad affrontare strutturalmente, senza misure tampone, lo stato malmesso delle casse dell’amministrazione comunale di Napoli (nota 18). «Un Comune che è già nel baratro del fallimento» (nota 19), avvisò.
Nel 1962 il deputato sostenne la proposta di un’anagrafe patrimoniale per ministri e personalità politiche. Nell’ambito di una campagna contro il modo e il luogo, Fiumicino, nei quali venne costruito il principale aeroporto di Roma (nota 20), Massimo Caprara denunciò in Aula un «concubinaggio tra i gruppi finanziari e l’amministrazione pubblica». Sulla base di atti parlamentari, mise in evidenza il divario tra l’ammontare che lo Stato avrebbe pagato all’ettaro per espropriare terreni a latifondisti dal blasone nobiliare e quanto l’erario versava, per appezzamenti adiacenti, a un pio istituto. Dieci volte di meno. «Siamo nello scandaloso regno dei favoritismi, delle lucrose protezioni, degli affari senza scrupolo», accusò Massimo Caprara in quell’intervento. Qualunque opinione si abbia in materia, il fatto che anomalie nella scelta di Fiumicino denunciate dal deputato nel 1962 possano poi essere state avvertite da tanti utenti, da milioni di utenti, può perfino rattristare: «…non è stata ancora risolta – denunciava – una questione che in altri aeroporti di altri Paesi è stata considerata pregiudiziale, quella dei collegamenti celeri, cioè ferroviari. Con Fiumicino tali collegamenti non vi sono ancora. Considerato che la località dista 34 chilometri da Roma, è chiaro che questo problema va risolto, altrimenti si rischia di impiegare meno tempo per arrivare a Parigi che non per compiere il percorso da Roma all’aeroporto». Sono trascorsi decenni prima che i collegamenti ferroviari per Fiumicino si avvicinassero a essere validamente alternativi, ed esclusivamente da alcune parti di Roma, a quelli su auto private e su taxi.
Lo «sfasciume urbano di Napoli» (nota 21). Nel 1969 il deputato qualificava così il risultato del tipo di incremento delle cubature edilizie che era stato effettuato in una città per altri aspetti incantevole e incisiva nell’arte e nella cultura europee. «Ai limiti dell’infarto urbanistico» (nota 22), era la sua diagnosi sullo stato della metropoli a causa della speculazione edilizia. Per come era diventata, Massimo Caprara paragonava Napoli a «un mostruoso corpo invertebrato». Dell’espansione incontrollata delle costruzioni individuava una delle principali origini in «un meccanismo unico di concentrazione e di sottosviluppo funzionale a questa concentrazione». Intendeva con ciò un compattarsi di poteri allergici a responsabilità nei confronti della comunità cittadina, figurarsi alla trasparenza, e un’economia distorta. Entrambi i fattori, riteneva, avevano portato la città a essere «non accidentalmente esclusa dal processo capitalistico» per venire impigliata tra gorghi di affarismi spregiudicati, speculari a rendite di posizione improduttive.
Bersagli del parlamentare comunista erano clientelismo e assistenzialismi congeniali a interessi nel mantenere il Sud in condizioni di inferiorità e dipendenza. Massimo Caprara addebitava i due fenomeni innanzitutto a potentati locali dilatatisi nella Democrazia cristiana, benché non sottovalutasse la complessità della Dc e la presenza di forze progressiste al suo interno. Passarono anni prima che gli venisse offerto di candidarsi a sindaco di Napoli, nel 1993, in qualità di indipendente appoggiato dal Partito popolare e da quanto rimaneva del pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli. Il terremoto politico, giudiziario ed elettorale che aveva demolito la Democrazia cristiana e altre forze storiche non era ancora concluso. L’ex direttore di “Latitudine” non si tirò indietro, anche se era assai probabile che non avrebbe vinto.
Fautore di una programmazione volta a far correggere dallo Stato dinamiche del mercato penalizzanti per i ceti deboli, Massimo Caprara deplorava «una concezione episodica, improvvisata e dispersiva, dell’intervento pubblico nei vari campi dell’economia» (nota 23). A politiche elettoralistiche delle mance, a paternalismi, contrapponeva per il Sud la necessità di industrializzazione e di innovazione, incluso il ricorso a tecnologie di avanguardia in agricoltura.
Nell’estate 1972 “l’Unità” prese di mira Massimo Caprara perché, uscito da “il Manifesto”, aveva cominciato a collaborare con “Il Mondo”, settimanale laico indipendente. Il direttore della rivista Arrigo Benedetti rispose all’organo del Pci definendo «ovvio il nostro incontro con Massimo Caprara, il quale rifiuta, da meridionale colto, l’idea di un Sud pittoresco e canagliesco, riserva di voti per gli uomini politici senza scrupoli». Concluse Benedetti: «Noi, il Sud pittoresco perché povero, lo lasciamo agli esteti stranieri e italiani, e ci ha fatto piacere che un marxista, che ha la virtù di essere considerato eretico, ci dia la sua collaborazione, scrivendo di cose che conosce bene» (nota 24).
MARXISTA DE “IL MANIFESTO”
Marxista, in effetti, è stato Massimo Caprara nella prima parte della sua vita. Molto meno un leninista, anche se con Teodorico Boniello fu tra gli ideatori dell’insediamento della stele di Giacomo Manzù in onore di Lenin tra le rocce di Capri, isola nella quale il giovane comunista italiano aveva accompagnato Togliatti da Curzio Malaparte e accolto il poeta Pablo Neruda esule dal Cile. Un affievolito leninismo non lo rese inesperto in ferree contrapposizioni. Per comunisti che si erano formati in anni di ferro e di fuoco, la politica non era sfera da riservare a tenerezze. Abituato da giovane a considerare la ragione ideologica superiore a sentimenti personali, primogenito di una famiglia di media borghesia che durante la Guerra fredda risentì al proprio interno di quel gelo, Massimo Caprara si guardò ad esempio dal mitigare per motivi familiari le critiche che rivolgeva alle partecipazioni statali. A suo giudizio le imprese di Stato, o allo Stato collegate, erano meno ambiziose di quanto sarebbe servito all’economia italiana. Nel 1966, in Aula, dichiarò che i dirigenti «della Finmeccanica, della Fincantieri, dell’Eni» indossavano come un abito «la grinta del padrone, o meglio la grinta di dirigenti di imprese statali ammalati di una mentalità aziendalistica di tipo privato» (nota 25). Che dirigente dell’Eni, dal 1961, fosse stato nominato da Enrico Mattei suo fratello Adriano, mai comunista, elettore di centro senza affiliazioni a partiti, non lo indusse ad ammorbidire quello e altri interventi in materia. Deviare una rotta dell’agire politico per un motivo del genere non era ipotesi che il costume comunista di allora avrebbe prescritto. Né il deputato in questione la avrebbe considerata.
Tutto questo non impedì che Massimo Caprara risentisse della durezza di alcuni distacchi tra compagni con i quali aveva condiviso esperienze e battaglie. Dal Pci, nel 1969, i fondatori della rivista “il Manifesto” furono “radiati”, termine che si differenzia da “espulsi” perché il provvedimento deriva da giudizi politici e non investe anche il piano morale. Della testata l’ex segretario di Togliatti apparteneva al nucleo originario. Il suo allontanamento dal più grande partito comunista dell’Occidente venne notato anche a Washington, come conferma l’informativa inedita della diplomazia statunitense su Massimo Caprara qui riportata nell’appendice fotografica.
I promotori della rivista comunista pagarono l’aver rivendicato libertà di esprimere dissenso nel dibattito interno al partito, l’essersi attratti l’avversione di Mosca per aver deplorato senza esitazioni l’invasione della Ceco- slovacchia compiuta da truppe sovietiche nel 1968. Scontarono l’aver coltivato illusioni in una prospettiva rivoluzionaria in Italia e l’averlo fatto in collisione con una maturazione del Pci che era di certo convergente con la democrazia costituzionale e, tuttavia, ancora incapace di tagliare il cordone ombelicale con l’Urss.
Il 27 settembre 1969, riuniti a Bologna, il Comitato centrale e la Commissione centrale di controllo radiarono Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Già escluso dal Comitato centrale dopo aver pronunciato nel febbraio 1969 l’intervento al XII congresso del Pci che si trova in questo libro (nota 26), Massimo Caprara venne messo fuori dal partito su deliberazione della federazione di Napoli. In Campania la stessa misura venne adottata per Liberato Bronzuto. Con Natoli, Pintor ed Eliseo Milani, a Montecitorio i due deputati si iscrissero al Gruppo misto. Nel frattempo Valentino Parlato, funzionario esperto in economia, venne licenziato dall’ap- parato di Botteghe Oscure. Fuori dal Pci anche Luciana Castellina e Lidia Menapace, altre firme de “il Manifesto” dal principio.
Per tutti loro cominciò una stagione esplorativa. Creativa, disordinata, anche allegramente inquieta tra intuizioni e un abbaglio a Oriente. Dell’infatuazione di allora per il modello maoista cinese Massimo Caprara più tardi sarebbe stato forse il primo a ricredersi, individualmente. Fra i comunisti, il gruppo fu avveduto nell’aprire gli occhi sulla propensione re- pressiva del regime di Fidel Castro a Cuba.
DIVISIONI TRA EX COMPAGNI. DIALOGHI TRA AVVERSARI
Dopo 25 anni di militanza nel Partito, per il deputato radiato e per i compagni di questo tratto di viaggio il distacco da Botteghe Oscure ebbe tra i suoi effetti lacerazioni di legami personali. Si ruppero amicizie con decine di coloro che avevano votato o promosso negli organi dirigenti le radiazioni. Si incrinò l’appartenenza a un’estesa comunità nella quale si era vissuti a lungo. Tra quanti avevano fondato la rivista “il Manifesto”, che sarebbe stata trasformata in quotidiano nel 1971, la propensione all’eresia continuò a convivere in altre forme con una collaudata educazione alla disciplina. Entrato alla Camera dei deputati nel 1953, Massimo Caprara riteneva prematuro e azzardato che il gruppo dei radiati e alcune migliaia di seguaci si proiettassero nel 1972 nella contesa elettorale per la Camera. Contrario a presentare liste alle elezioni, come lo era Natoli, l’ex segretario di Togliatti espresse le sue riserve negli organi dirigenti de “il Manifesto” (nota 27), diventato piccola formazione politica. Poi fu Massimo Caprara a recarsi nel carcere di Regina Coeli per convincere a candidarsi per la Camera Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e ritenuto innocente (nota 28). Fu ancora Massimo Caprara, in un comizio con Luciana Castellina in piazza Campo de’ Fiori, a concludere dalla capitale d’Italia la campagna elettorale della formazione. Soltanto in seguito all’apertura delle urne nelle quali “il Manifesto” non raggiunse il quorum, esito da cui aveva messo in guardia, il dissenziente sulla presentazione delle liste riaffermò le riserve che aveva avanzato in precedenza e lasciò il gruppo per scrivere su “Il Mondo”.
Tra i rapporti con ex compagni di partito che si erano interrotti rientravano quelli con Giorgio Napolitano, uno dei dirigenti comunisti più distanti da “il Manifesto”, già peggiorati in precedenza a causa di divergenze politiche maturate a Napoli. Svanita l’amicizia giovanile, tra i due prevalse reciproca freddezza. Nonostante fosse stato criticato da Massimo Caprara in più di un articolo dai toni taglienti, alla morte del deputato con il quale era entrato alla Camera nel 1953 Napolitano espresse in un messaggio di condoglianze «grande tristezza» per «la dolorosa scomparsa». Sentimento provato nel ricordo, specificò, delle «prime esperienze culturali e politiche nella Napoli degli anni di guerra» e «dei lunghi anni del suo impegno pubblico, del suo personale e complesso percorso critico nella politica italiana» (nota 29). Nessuno dei due lo ha dichiarato né forse pensato, ma con impostazioni e temperamenti diversi, e pur riservando all’altro il tipo di rocciosa severità che a Botteghe Oscure veniva impiegata verso chi era fuori linea, i due hanno avuto in comune uno dei tratti principali della propria identità politica. Entrambi, in tempi diversi, hanno maturato la convinzione che i legami con l’Urss fossero insani e che occorresse uscire dalla tradizione comunista.
Anche se da posizioni a lungo in contrasto, e arrivando a esprimere tesi diverse di fronte a una Corte d’assise, più cordiali sono stati nel complesso i rapporti che Massimo Caprara ebbe con un particolare alleato e poi av- versario di gioventù, Giulio Andreotti. Tra le nuove leve che ebbero modo di partecipare alla costruzione delle istituzioni dell’Italia antifascista e dell’Italia Repubblicana, i due erano come compagni di scuola inseriti in due classi diverse e in competizione l’una contro l’altra. Proveniente dalla Fuci, Federazione universitaria cattolica italiana, nato nel 1919, Andreotti fu collaboratore di Alcide De Gasperi dal 1943. Nato nel 1922, Massimo Caprara lo fu di Togliatti dal 1944.
Negli anni Quaranta Andreotti lavorava al fianco del ministro democristiano senza portafoglio nel Governo Bonomi I, poi ministro degli Esteri nel Bonomi II, nel Governo Parri e dal 1945 Presidente del Consiglio. Il secondo lavorava al fianco del comunista venuto da lontano che era ministro senza portafoglio nei Governi Badoglio II e Bonomi I per poi essere nominato vicepresidente del Consiglio nel Bonomi II e ministro della Giustizia nei Governi Parri e De Gasperi I. Per un tratto furono strade parallele, quelle di Giulio Andreotti e Massimo Caprara, destinate dal 1947 a distanziarsi per effetto della rottura della maggioranza di unità nazionale pur rimanendo ancora numerose le occasioni di incontro. Il giovane della Dc aveva cominciato la sua attività parlamentare alla Costituente ed era stato eletto deputato nella prima legislatura. Il giovane del Pci aveva ottenuto un seggio alla Camera dalla seconda legislatura. A differenza del democristiano, che dal 1947 ebbe incarichi di governo, il comunista sarebbe rimasto all’opposizione.
Nel suo ritratto di Togliatti stampato nel 1982 in Visti da vicino, Andreotti ne analizzò la figura di ministro comunista senza portafoglio. Nel corso della parte romana del mandato del Governo Bonomi, Togliatti, come il collega De Gasperi che guidava la Dc, ebbe il suo ufficio in Palazzo dei Marescialli. Nei confronti del segretario del Pci al giovane democristiano non capitava di poter andare oltre «un fuggevole saluto in ascensore o nei corridoi». Il Togliatti tornato nel 1944 dall’esilio a Mosca, sostenne Andreotti, sembrava far fatica «a reinserirsi nelle abitudini italiane fatte anche di intervalli tra un atto e un altro; e non solo a teatro». Nello spiegare il personaggio che scrutava dentro il palazzo, Andreotti notò: «Esercitava anzi un’influenza formativa nei suoi immediati collaboratori da renderli ogni giorno più riservati e circospetti. Lo constatavo in Massimo Caprara, sempre cortesissimo, ma che andava perdendo, foglia a foglia, la sua napoletanità per assomigliare a un compassato giovane diplomatico della Mitteleuropa» (nota 30).
Tra i resoconti degli interventi di Aula che vengono pubblicati in questo libro della Camera ricorrono momenti nei quali il deputato napoletano del Pci ha avanzato obiezioni e indirizzato addebiti a comportamenti di Giulio Andreotti. Sul caso della cosiddetta “Anonima banchieri” che ebbe al centro Giovambattista Giuffrè e rapporti non mistici tra finanza, pezzi di Stato e ambienti religiosi, il 22 gennaio 1959 Massimo Caprara chiese le dimissioni di Andreotti da Ministro del tesoro a nome del Partito comunista. Non fu l’unica rinuncia a mandati che gli sollecitò. Un’idea del clima la fornisce una frase. Il deputato del Pci asserì che il ministro aveva «scritto la propria sentenza di condanna» (nota 31).
Entrambi usavano chiamarsi per cognome. Nessuno dei due era propenso a smancerie. Ma le contrapposizioni non impedirono rispetto reciproco. Nel 1974 era ricorrente l’attenzione di giornali verso relazioni tra alcuni generali e neofascisti emerse in inchieste sulla strage di piazza Fontana a Milano, commessa il 12 dicembre 1969. Da Ministro della difesa, l’8 giugno 1974 Andreotti ricevette Massimo Caprara nella sua qualità di firma de “Il Mondo”. Per un’intervista. Il secondo riportò sul settimanale che Andreotti, addebitando non a sé «uno sbaglio grave», e accennando a una riunione a palazzo Chigi, aveva affermato: «Bisognava dire la verità: cioè che Giannettini era un informatore del Sid…» (nota 32). La sigla era quella del Servizio informazioni difesa, il servizio segreto italiano, militare. Giannettini era Guido Giannettini, giornalista di ambienti di estrema destra. Su quali fossero state le sue funzioni la magistratura si era sentita opporre dallo Stato il segreto militare.
La rivelazione ebbe un’eco notevole. Una lettera del ministro riguardò la riunione a Palazzo Chigi sul segreto da apporre, da lui non confermata (nota 33). Massimo Caprara ribadì di avere scritto quanto aveva ascoltato (nota 34). Nella percezione diffusa nulla cambiò riguardo alla notizia su Giannettini e Sid. In seguito Andreotti ricevette il terzo dei sette incarichi da Presidente del Consiglio che avrebbe ricoperto. Dovette comparire davanti alla Corte di assise di Catanzaro nel processo sulla strage di piazza Fontana. Dopo toccò a Massimo Caprara. Nella sua corrispondenza dalla Calabria l’inviato speciale del “Corriere della sera” Roberto Martinelli riportò: «A questo punto il presidente rompe gli indugi e rivolge al testimone la domanda-chiave: la riunione. La frase riportata nell’intervista, Andreotti gliela disse oppure no? La risposta secca è un “sì” categorico. Il silenzio dell’aula viene rotto da un sordo brusio» (nota 35). Andreotti aveva dichiarato il contrario.
Venne deciso di mettere i due a confronto. Il 7 gennaio del 1978, davanti ai magistrati, ognuno restò sulla propria posizione. Riferì il “Corriere” che il Presidente del Consiglio, «visibilmente stanco, col passare del tempo, sotto le domande della Corte, ha brillantemente superato la piccola crisi fisica»(nota 36). A Catanzaro l’autore dell’intervista su “Il Mondo” aveva avuto già occasione di definire «molto corretta e molto precisa per quanto mi riguardava» la lettera dell’allora Ministro. Aggiunse: «Prendo atto delle dichiarazioni di Andreotti. Per quanto mi riguarda confermo di aver sentito le parole “Palazzo Chigi” e per l’esperienza politica e professionale che ho in materia ritengo che Andreotti mi avrebbe senz’altro fatto intendere la differenza del significato fra “sede politica superiore” e Palazzo Chigi».
Massimo Caprara si attirò l’attenzione di apparati dello Stato, i quali non ebbero modo di muovergli addebiti. A distanza di quasi mezzo secolo, di quel confronto spicca una caratteristica: la comune capacità di sostenere tesi diverse senza alcuna intemperanza e senza tracce di rancore. Come se ognuno dei due ritenesse che la divergenza non meritasse toni alti. Che non intaccasse minimamente la sostanza delle cose. Che a ciascuno spettasse di adempiere al proprio ruolo conoscendone esattamente confini e doveri e cosciente di quelli ai quali era tenuto l’altro.
Non significa coincidenza di opinioni politiche. Né condivisione delle scelte e dell’agire altrui. Risultava intatta la lieve distanza della quale il continuare a chiamarsi per cognome, non per nome, era segno indicativo. Un modo di intendersi da ex compagni di scuola e ed ex dirimpettai al quale sottostava una consapevolezza, tacita: che se la storia d’Italia e i rapporti di forza tra Democrazia cristiana e Partito comunista fossero andati in altro modo i destini di ciascuno sarebbero stati radicalmente diversi. E forse, presto o tardi, dolorosi per entrambi. Sia per chi si sarebbe trovato oppositore di un governo comunista sia per chi in seguito si sarebbe trovato in dissenso, seppure all’interno dalla parte più potente delle due.
Su Giannettini informatore del Sid, il 29 aprile 2005, l’agenzia Adnkronos riferì di Andreotti queste parole: «Lo dissi a chi me lo chiedeva, cioè a Massimo Caprara». Nel 2006 l’ex giovane segretario particolare informava i fratelli Carlo, Adriano e chi scrive di avere una «continua corrispondenza con Andreotti». Il senatore era curioso di conoscere aspetti del dopoguerra visti da un’angolatura diversa dalla sua.
Era stata del resto un’angolatura non sempre accessibile a molti. Non priva tra l’altro dei risvolti bizzarri che la vita talvolta riserva. Nel 1950, in una delle occasioni nelle quali vide di persona Stalin, Massimo Caprara fu causa di un singolare equivoco. Mentre il capo del Cremlino stava per arrivare in visita con scarso preavviso in una dacia russa messa a disposizione del segretario generale del Pci, Togliatti chiese al segretario particolare di precederlo con Nilde Iotti nel giardino per la dovuta accoglienza. Neve per terra. Temperatura bassissima. Il giovane collaboratore non fece in tempo a indossare un cappotto. Durante l’attesa Massimo Caprara cominciò a lacrimare. Dal freddo.
Il «Padre dei popoli, Vessillo delle Vittorie, Genio dell’Umanità», raccontava mezzo secolo dopo l’ex segretario particolare citando plaudenti definizioni sovietiche gradite al dittatore, lo guardò comprensivo con i suoi «occhi penetranti e il viso butterato». Poi gli mise una mano sulla spalla per fargli coraggio credendo che le lacrime derivassero da emozione per l’incontro. «Senza far niente, lo avevo ingannato, e sarei stato uno dei pochi a non pagare per questo» (nota 37), osservava il protagonista del fraintendimento commentando quella volta con Stalin.
Era diventato fiero di aver involontariamente raggirato Stalin, Massimo Caprara. Quando ebbe la sensazione di aver ingannato se stesso, ricorse a correzioni di rotta. Anche a prezzo di pagarne conseguenze nei rapporti personali o nel suo status. Poté impiegare del tempo per farlo. Ma questo altro genere di inganni non se lo permise.
di Maurizio Caprara
1 Si veda alle pp. 194-195.
2 Su Adriano Pallini (1897-1955) si veda Adriano Pallini, Milano, Dall’Oglio, 1956 e Atelier Pallini: storia di una collezione italiana, 1925-1955, a cura di Nicoletta Pallini Cle- mente, Milano, Mazzotta, 2014.
3 Massimo Caprara, Roberto Fontolan, Riscoprirsi uomo: storia di una coscienza, Genova, Marietti 1820, 2004, p. 13.
4 Ibidem, p. 22.
5 Massimo Caprara, L’inchiostro verde di Togliatti, Milano, Simonelli, 1996, pp. 52-55.
6 Si veda la lettera del 9 gennaio 2003 in appendice, a p. 193 e Riscoprirsi uomo, op. cit., p. 75.
7 Sulle attività segrete del Pci nel dopoguerra si rinvia a Maurizio Caprara, Lavoro riser- vato: i cassetti segreti del PCI, Milano, Feltrinelli, 1997.
8 Il fascicolo, edito a Napoli dalla Casa editrice Rossi, è riprodotto in allegato all’articolo di Virginie Vallet, «Che l’uomo ritorni all’uomo»: la revue Latitudine et l’engagement des in- tellectuels napolitains d’après-guerre, in “Laboratoire italien”, 20, 2017, http://journals.opene- dition.org/laboratoireitalien/1529. La citazione proviene dalla premessa a p. 1. Si veda anche, della stessa autrice, La rivista letteraria «Latitudine» e il ritorno alla storia con la presa di coscienza di un destino storico nella Napoli del dopoguerra, in “L’acropoli”, 2016, n. 5, pp. 439-462.
9 Sull’episodio, oltre alla testimonianza di Massimo Caprara in L’inchiostro verde di To- gliatti, op. cit., pp. 26-30, si veda anche Giorgio Napolitano in Dal PCI al socialismo europeo: un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 8.
10 Cesare Pillon, I comunisti nella storia d’Italia, Milano, Calendario del Popolo, 1966- 1967, vol. 1, p. 653. Il ricordo di Massimo Caprara è in I littoriali fascisti, apparso sul pe- riodico di Caserta “Il Corso” e consultabile a http://memoriecasertane.altervista.org/littoria- li-fascisti/.
11 Massimo Caprara, Significato del dipingere, in “Latitudine – Contributi alla cultura”, gennaio 1944, pp. 23-24, riprodotto alle pp. 189-190.
12 Si veda a p. 74.
13 Si veda a p. 104.
14 Si veda alle pp. 149-161.
15 Si veda a p. 142.
16 Si veda a p. 52.
17 Si veda a p. 10.
18 Si veda alle pp. 16-28.
19 In Camera dei deputati, Discussioni, seduta del 25 settembre 1957, p. 35412.
20 Si veda alle pp. 60-80.
21 Si veda alle pp. 125-136.
22 In Camera dei deputati, Discussioni, seduta del 29 ottobre 1969, p. 11690.
23 In Camera dei deputati, Discussioni, seduta del 18 gennaio 1967, p. 30110.
24 Un nuovo collaboratore del «Mondo», in “L’Unità”, 4 agosto 1972, p. 11; Arrigo Be- nedetti, Liberamente, in “Il Mondo”, 17 agosto 1972, p. 4.
25 Si veda a p. 83.
26 Si veda alle pp. 118-124.
27 Si veda alle pp. 146-148.
28 “Il manifesto”, 10 e 11 marzo 1972. Caprara fu accompagnato in quella occasione dal giovane Pio Marconi, come riferito in Aldo Garzia, Da Natta a Natta: storia del Manifesto e del PdUP, Bari, Dedalo, 1985, p. 59 e confermato a chi scrive dall’interessato.
29 Il messaggio può essere consultato sul Portale storico della Presidenza della Repubblica, a partire da https://archivio.quirinale.it.
30 Giulio Andreotti, Visti da vicino: i profili di alcuni protagonisti della nostra storia recente, disegni di Vincio Delleani, Milano, Rizzoli, 1982, p. 110.
31 Si veda a p. 43.
32 Massimo Caprara, Andreotti: questa è la verità, in “Il Mondo”, 20 giugno 1974, pp. 4-5.
33 Sulla lettera, e in generale sulle testimonianze rese successivamente nel corso del pro- cesso a Catanzaro, si rinvia alla sentenza della Corte d’assise, 23 febbraio 1979, pp. 346- 352. Si vedano anche le note in Giulio Andreotti, I diari degli anni di piombo 1969-1979, a cura di Serena e Stefano Andreotti, Milano, Solferino, 2021, pp. 307, 423-424, 574-575.
34 Massimo Caprara, Le verità di Andreotti, in “Il Mondo”, 27 giugno 1974, p. 6.
35 Roberto Martinelli, La Corte di Catanzaro decide se convocare ancora Andreotti, in “Cor- riere della sera”, 29 settembre 1977, p. 1.
36 Giancarlo Ghislanzoni, Il confronto Andreotti-Caprara non chiarisce le «due verità» sulle protezioni a Giannettini, in “Corriere della sera”, 8 gennaio 1978, p. 5.
37 L’episodio è narrato in diverse pubblicazioni di Massimo Caprara, da ultimo, in Ri- scoprirsi uomo, op. cit., pp. 66-67.
Il volume è a cura della Biblioteca della Camera dei deputati.
In copertina ritratto conservato presso l’Archivio storico della Camera dei deputati, Fondo Cantera-Luxardo.
Il libro è stato reso possibile dall’esistenza della Biblioteca della Camera dei deputati “Nilde Iotti”, vastissimo giacimento di documenti equiparabili per la storia d’Italia e del suo Parlamento a pietre preziose. Da lì vengono i resoconti stenografici degli interventi in Aula e la maggior parte dei testi riprodotti. Ringraziamenti vanno al personale della Biblioteca per l’attività costantemente svolta e per l’egregia collaborazione fornita in questa occasione.