Alla fine di marzo, esattamente un secolo fa, si consumavano gli ultimi giorni di una campagna elettorale tragicamente storica, che si sarebbe chiusa con le elezioni politiche del 6 aprile 1924, quelle celebrate con la Legge Acerbo e che furono le ultime consultazioni della storia dell’Italia liberale. Non furono elezioni libere, considerato il clima di violenza diffuso nel paese e le continue spedizioni punitive degli squadristi inquadrati ormai nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Mussolini era a capo del governo già da un anno e mezzo, i fascisti (incontrastati) dominavano la scena con minacce, ricatti, pestaggi, ferimenti e omicidi, come quello del candidato socialista alla Camera Antonio Piccinini, avvenuto a Reggio Emilia il 28 febbraio.

Anche questo crimine fu denunciato da Giacomo Matteotti, determinato a lottare fino alla fine pur essendo sempre più cosciente del progressivo e definitivo restringimento degli spazi di libertà in una società disorientata, impaurita e per lo più incapace di cogliere il grave pericolo rappresentato da un dittatore che, in barba a ogni forma di coerenza, portò il paese alla rovina. Questo clima, dopo l’assassinio del segretario del PSU e la scelta delle opposizioni di dar vita all’Aventino, si sarebbe tradotto alla fine del 1926, attraverso l’approvazione delle “leggi fascistissime”, nella piena affermazione del fascismo totalitario, favorito dalla monarchia sabauda e da una parte consistente della classe dirigente liberale. Senza dimenticare il ruolo nefasto esercitato dalla magistratura e dalle forze che avrebbero dovuto mantenere l’ordine e che, al contrario, fin dall’inizio degli anni Venti contribuirono in modo decisivo al vittorioso assalto al potere di una forza autenticamente eversiva, affermatasi alimentando il disordine nell’interesse degli agrari e dei potenti.

La natura dell’opposizione di Matteotti al fascismo e le istanze di cambiamento che caratterizzarono il suo modo di essere un socialista riformista radicalmente pacifista, ma non dogmatico, sono il fulcro del denso volume di Mirko Grasso L’oppositore. Matteotti contro il fascismo (Carocci, Roma 2024). Un libro importante, venuto alla luce in un periodo di grandi rievocazioni del martire socialista non solo attraverso numerosi volumi (in alcuni casi ristampe), ma anche con mostre e lavori elaborati con altri linguaggi, come i podcast. Il libro, volutamente, non affronta (se non in poche pagine iniziali) il rapimento e il delitto, né il processo “farsa” ai suoi assassini né l’eredità morale di Matteotti. Si concentra, invece, sul percorso politico-culturale di un uomo molto coraggioso che, di origine borghese, lottò sempre per ampliare i diritti delle classi più disagiate e fece del pragmatismo la cifra del suo socialismo, senza elaborare una dottrina ma, al contrario, studiando il più possibile il funzionamento della società reale per incidere in concreto sul suo cambiamento, senza sognare improbabili rivoluzioni finalizzate alla dittatura del proletariato.

Matteotti, come ha ricordato Grasso, è stato tante cose: uno studioso di diritto al servizio dei deboli, un intellettuale dotato di una notevole sensibilità artistica, un dirigente politico d’indubbio spessore internazionale, un amministratore competente e “transigente”, un uomo curioso e un parlamentare serio e rigoroso, un uomo di partito talvolta critico verso i suoi stessi compagni anche perché dotato di un carattere non privo di qualche spigolosità. Proprio il suo rigore fu alla base del particolare interesse che gli dimostrò il duce, che aveva militato con lui nel PSI e che, già prima del 1914, quando fu espulso dal partito dopo la svolta interventista, non amava il suo riformismo forte e predicava la rivoluzione. Matteotti studiava, il suo modo di opporsi al fascismo era quello più pericoloso per il duce e i suoi alleati. Attraverso il confronto fra i dati reali (in primis dell’economia) e gli annunci urlati, egli svelava costantemente le bugie della propaganda di Stato (diffuse anche attraverso Il Popolo d’Italia) ed era, quindi, una spina nel fianco di Mussolini. Insultato, malmenato e sempre più isolato, scelse di non demordere e, al fianco della sua amata Velia (conosciuta nel 1912 e con cui mantenne una stretta consonanza umana e culturale), dentro e fuori dalle aule parlamentari mise in difficoltà gli avversari senza, tuttavia, riuscire a trovare il modo di strutturare un fronte unitario per contrastare l’eversione nera con qualche reale possibilità di successo.

Dopo aver contribuito all’elaborazione di un volume pubblicato dal PSI nel 1921, Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, nel febbraio 1924 diede alle stampe Un anno di dominazione fascista e, così facendo, si inimicò ulteriormente i fascisti che, pur nella loro grettezza, avevano compreso quanto fosse insidioso un uomo che lavorava per sviluppare il senso critico nei cittadini, per svegliare le coscienze e far prevalere le regole sull’arbitrio, nel nome dell’internazionalismo pacifista contro il bieco e violento nazionalismo. Matteotti non fu anticlericale e provò a dialogare con i cattolici, nonostante le differenze di vedute. Ma queste aperture, pensando anche alle posizioni del Vaticano, non bastarono a stabilire un’intesa. I rapporti con le altre articolazioni di un movimento operaio sempre più debole e diviso al suo interno furono molto difficili, trovare quindi una piattaforma unitaria anche di fronte alla coscienza del pericolo incombente, considerati soprattutto i pessimi rapporti con i vertici del PCd’I, purtroppo si rivelò un’illusione. Fino al 1924, Matteotti continuò a discutere nel merito leggi e regolamenti occupandosi di spesa pubblica, profitti, tasse, dazi doganali, bilanci. Furono per lui importanti anche l’istruzione, un’assoluta priorità, e gli Stati Uniti d’Europa, un’intuizione avanzata per i tempi ma di difficile attuazione concreta. Non emerge dal volume una costante attenzione di Matteotti verso il sindacato. Grasso, però, evidenzia le critiche matteottiane verso la disponibilità al dialogo con Mussolini manifestata nel 1923 dai vertici riformisti della CGdL che, con l’eccezione di Buozzi, finiranno poi per fiancheggiare criticamente il regime o per ritirarsi a vita privata.

Per Matteotti fu impossibile proseguire la lotta. La sua eredità, considerando le molte battaglie condotte, non fu soltanto “morale”, fu anche prettamente politica. Studiando il funzionamento della macchina statale, l’economia, il diritto, la condizione contrattuale dei braccianti, la politica estera e le iniziative degli altri socialisti europei, egli mirò a incidere sulla realtà. Forse è questo il lascito più attuale di Matteotti che Grasso ci restituisce, facendo parlare lo stesso leader socialista attraverso lunghe citazioni di scritti e discorsi.

Oggi viviamo un’epoca difficile, le cui sfuggenti caratteristiche destano inquietudine. La violenza e gli affari sporchi, su scala globale, sono i veri protagonisti mentre in Italia la propaganda sta assumendo toni tragicamente grotteschi. Ci sarebbe davvero bisogno di competenza, determinazione e onestà. Qualità che Giacomo Matteotti, senza volerne fare un santino da strumentalizzare, possedeva e che fino alla fine, come il bel libro di Grasso dimostra ampiamente, utilizzò nella sua personale lotta contro il fascismo.                   

di Andrea Ricciardi

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