Il bel volume di Monica Fioravanzo ha il grande merito di riportare l’attenzione su Lina Merlin, la “Senatrice” per antonomasia, ricordata spesso solo in relazione alla legge che porta il suo nome. Approvata nel 1958 dopo una decennale battaglia parlamentare, la Legge Merlin aboliva finalmente e con colpevole ritardo “la regolamentazione della prostituzione”, con la chiusura delle case di tolleranza, normando “la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui” (dal titolo della legge). È la stessa autrice a sottolineare la scelta di non farne il tema centrale del libro, sia perché ampiamente noto, sia per non offuscare ancora una volta l’intera vicenda politica e umana di Lina Merlin, decisamente più ricca, interessante e feconda di suggerimenti sulle vicende italiane del Novecento (p. 129). Tuttavia, ricordare la perseveranza e la caparbietà con cui la Senatrice portò avanti la battaglia per l’approvazione della legge racconta molto del suo modo di intendere la militanza politica e il ruolo di parlamentare.
Il volume, oltre ad un primo capitolo che, ricordando i pochi studi dedicati a Merlin, motiva l’urgenza di ritornare ad occuparsene sottraendone l’immagine ai luoghi comuni, alle approssimazioni o all’oblio, è articolato su altri tre capitoli più un’Appendice documentaria. Un’agile biografia ripercorre le tappe fondamentali della vita di Angelina Merlin, nata nel 1887 in provincia di Padova in una famiglia della piccola borghesia, “di condizione civile”, secondo la sua definizione (p. 23), in cui l’istruzione e la cultura ebbero un ruolo notevole. La stessa Lina infatti ebbe modo di studiare fino a diventare maestra. La Grande guerra, nel corso della quale tre suoi fratelli morirono, segnò un momento fondamentale nella sua crescita umana e politica tanto da guidarla senza tentennamenti verso la militanza socialista. Sin dagli esordi il suo impegno si indirizzò verso temi che la contraddistinsero per tutta la vita: la difesa dei più deboli (le donne, i bambini), degli sfruttati (i lavoratori, i braccianti del suo Polesine), la pace (dopo gli orrendi lutti della guerra), l’istruzione e l’educazione. La sua adesione al PSI, tra il 1919 e il 1920, non maturò attraverso “un rigoroso convincimento ideologico e intellettuale”, ma per “realizzare un ideale di giustizia” (p. 28). E dunque, a Padova, si dedicò alla realizzazione di iniziative come una biblioteca per adulti, il teatro del popolo, un ricreatorio laico per i “fanciulli” e – seppure con grande fatica – una sezione femminile del partito. Né mancò di instaurare rapporti di collaborazione con altre donne socialiste, fra tutte Anna Kuliscioff, scrivendo articoli per il periodico da lei fondato e diretto nel 1912, La Difesa delle Lavoratrici. In ambito locale, Merlin scrisse con continuità per L’Eco dei Lavoratori, organo del Partito socialista padovano, sino a diventarne di fatto direttrice nonché unica redattrice dopo l’avvento del fascismo. Instancabile oratrice, percorse in lungo e in largo i collegi dove era candidato Matteotti durante la campagna elettorale del 1924, fornendogli molta della documentazione sui brogli e sulle violenze poi coraggiosamente denunciati dal Segretario del PSU in Parlamento. Dopo il 1926 si rifiutò di prestare giuramento al regime: venne quindi privata del lavoro e costretta al confino in Sardegna. Negli anni Trenta si stabilì a Milano, continuando sottotraccia l’attività di opposizione al regime: Durante la guerra – grazie anche ai rapporti con gli antifascisti del quartiere dove abitava, il Casoretto – lavorò attivamente alla costituzione dei Gruppi di difesa della donna, intrecciando importanti relazioni politiche e affettive con donne di provenienze diverse. Né va dimenticato, dal punto di vista personale, l’intenso rapporto con il medico e deputato socialista Dante Gallani, suo marito dal 1933 e morto nel 1936.
A guerra finita, Lina Merlin divenne a pieno titolo una dirigente socialista, entrando a far parte della Direzione del partito (PSIUP, prima della scissione di Palazzo Barberini da cui nacque il PSLI di Saragat, poi PSI) e partecipando, con le compagne comuniste, alla nascita dell’Unione Donne Italiane. La fine della guerra, inoltre, le permise finalmente di tornare nel suo Polesine e a Padova. Il suo “radicamento sul territorio”, l’autorevolezza, l’affetto e la stima profonda conquistati negli anni Venti furono riconfermati: venne infatti eletta all’Assemblea Costituente (21 donne su 556 costituenti), al Senato per le prime due legislature (1948-1958) e alla Camera nella terza (1958-1963). Se, dunque, le radici della sua attività e delle sue scelte politiche si strutturarono nel primo dopoguerra, è nella giovane democrazia repubblicana che esercitò appieno il suo ruolo sia nell’ambito del PSI, sia – e forse soprattutto – nel lavoro di costituente e parlamentare. Precisa, sempre documentata, instancabile, grazie alla perfetta conoscenza dei meccanismi parlamentari la sua attività si incentrò sulla presentazione e sul sostegno di proposte legislative a tutela dei più deboli, in grado di garantire giustizia sociale, istruzione, il diritto alla salute e alla dignità. Il legame con il suo territorio, il Polesine, rimase sempre strettissimo, quasi viscerale. Nel 1951 fu l’unica parlamentare a recarsi “sul campo”, immersa nel fango, a portare soccorsi dopo la disastrosa alluvione. Ma il Polesine, «il mezzogiorno del settentrione», come lo definiva, fu anche la metafora che rappresentava la parte più inerme del Paese, abbandonata, immersa in una povertà arcaica apparentemente impossibile da sradicare. Sanarne le piaghe antiche, la miseria, l’ignoranza, tutelarne il fragile equilibrio naturale significava battersi per tutte quelle parti d’Italia e per quei cittadini che spesso la classe dirigente dimenticava. Un modo, dunque, per vivere ed incarnare gli ideali di giustizia che sostanziavano il suo essere socialista. «Arriva il Polesine», era il commento che molti facevano in aula allorché la Senatrice prendeva la parola. Ed era una parola sempre puntuale, dettagliata e sostenuta da studi e dati inappuntabili, forte di una logica stringente ed estremamente concreta. Ma era anche una parola spesso ironica e tagliente, capace di controbattere alle provocazioni, mettendo a tacere contestazioni sciocche e inconsistenti. Così come, del resto, Merlin sapeva rispondere ironicamente anche a chi le contestava la cura e l’eleganza, l’amore per i cappellini e i bei vestiti, rivendicando con fierezza il diritto alla femminilità in tutti i contesti della vita.
Nella seconda parte del volume l’autrice si sofferma sui due temi fondanti dell’azione di Lina Merlin: da un lato, il socialismo e i rapporti assai complicati con il partito, sino alla rottura nel 1961. Dall’altro, la battaglia per i diritti delle donne ribadita sino alla fine della sua vita, a cui si accompagnò però un rapporto non semplice con il femminismo in specie quello militante degli anni Sessanta/Settanta. Si tratta di nodi cruciali, che permettono di leggere attraverso le posizioni di Merlin le trasformazioni radicali della società italiana. Nel suo travagliato rapporto con il PSI, le acute osservazioni sul patto con i comunisti, sulla subalternità dei socialisti e la deriva stalinista degli anni del dopoguerra rivestono un notevole interesse. I motivi che la spinsero ad allontanarsi dai vertici del partito non erano in alcun modo legati al venir meno della “fede socialista”, quanto all’emergere di una nuova generazione di militanti di cui intravedeva tutti i limiti e i difetti. Lei, legata al socialismo riformista “umanitario” degli inizi del secolo, non apprezzava il nuovo partito e i suoi funzionari, l’imposizione dall’alto di persone e di scelte che non venivano né condivise né comprese dalla base, foriere tra l’altro di sonore sconfitte elettorali. Nel corso degli anni Cinquanta l’ostilità reciproca tra Lina e la dirigenza del partito si acuì tanto da portarla, come già accennato, ad abbandonare il PSI (ma non il socialismo) nel 1961. Al suo partito rimproverava di aver scelto «un funzionariato incapace e indegno» (p. 166), che non sapeva difendere non solo le conquiste costate sacrifici durati quasi un secolo, «ma neppure se stesso dal tarlo che lo rode» (p. 166, Lettera a Pietro Nenni del 21/10/1961). Insomma, nonostante l’affetto che la legava a molti, e a Nenni soprattutto, Lina Merlin vedeva nel PSI degli anni Sessanta i segnali di una dissoluzione degli ideali socialisti.
Altrettanto interessante il rapporto con il femminismo: tutta la sua azione si era rivolta alla tutela della donna, in quanto lavoratrice e madre, promuovendo tutte quelle azioni legislative (il diritto a retribuzioni paritarie, l’impossibilità di licenziare la lavoratrice madre, la diffusione di asili nidi, scuole materne, assistenza sanitaria per l’infanzia) che, adeguando il corpus delle leggi al dettato costituzionale, avrebbero via via garantito il raggiungimento della parità fra tutti i cittadini senza distinzione di sesso. Più difficile per lei si rivelò comprendere la battaglia per i “nuovi diritti” rivendicati dalle femministe degli anni Sessanta e Settanta. Manifestò una fortissima ostilità non solo nei confronti del divorzio (poiché ne temeva le ricadute negative sul coniuge più debole, quindi la donna), ma anche dell’aborto, della liberalizzazione delle droghe, del matrimonio fra omosessuali e dell’eutanasia. Merlin si dichiarava profondamente contraria a tutto ciò, identificando questi nuovi diritti come «libertà dell’egoismo» (p. 193 e segg.). Si sentiva in ciò l’eco del femminismo emancipazionista dei primi decenni del secolo, gli anni della sua formazione. Va tuttavia riconosciuto che le posizioni critiche di Lina Merlin ponevano una questione che – senza per questo intaccare la legittimità e la necessità assolute delle battaglie per i diritti, più che mai necessarie – avrebbe potuto aprire una riflessione importante sulla spinta fortemente individualistica che le società contemporanee andavano evidenziando proprio a partire dagli anni Settanta. Fuori dalle polemiche contingenti, quindi, Merlin intravedeva alcune questioni, come la trasformazione del PSI e la dimensione fortemente individuale che spazzava via un senso di appartenenza collettivo, che avrebbero caratterizzato i decenni seguenti e il nostro presente.
L’itinerario di Lina Merlin, conclude l’autrice, è dunque «un percorso paradigmatico dell’emancipazione individuale e collettiva delle donne negli anni Cinquanta e Sessanta» (p. 22). Ripercorrendolo, in esso possiamo individuare un lascito di cui fare tesoro e degli strumenti oggi quanto mai indispensabili. La forza di ribellarsi a una visione conformista, il coraggio di disubbidire (al fascismo, alle regole sciocche, al maschilismo, al partito di appartenenza), la caparbietà, la sfrontatezza necessaria per abbattere il muro delle idee dominanti e ipocrite, il rigore con cui condurre sacrosante battaglie di giustizia sociale, la forza di porre questioni scomode ma necessarie. Senza rinunciare all’ironia.
di Paola Signorino