Una conversazione con lo storico Carlo Ginzburg, professore emerito alle Università di Bologna, di Los Angeles (UCLA) e alla Scuola Normale di Pisa, premio internazionale Balzan nel 2010.

CG: Il mio nome completo è Carlo Nello. I miei genitori, Leone e Natalia, lo scelsero per ricordare Carlo e Nello Rosselli, i fratelli assassinati dai fascisti il 9 giugno 1937, nei pressi della cittadina francese Bagnoles-de-l’Orne.

Cosa ricorda di suo padre durante la sua infanzia?

CG: Di lui ho pochi ricordi, ma molto vividi. Quando morì avevo cinque anni. Crescendo ho appreso le vicende della sua vita, attraverso i familiari, gli amici ed i suoi scritti. Conservo una fotografia in cui mio padre mi tiene in braccio. Qualche anno fa, smontando la cornice, si vide che si trattava di una cartolina spedita il 22 settembre 1941 a Santorre Debenedetti, il filologo che mio padre considerava il proprio maestro. Mio padre scriveva: “Caro professore, eccole l’effigie mia e del mio primogenito Carlo. La fotografia mi è riuscita bene, ma l’ingrandimento è pessimo: tuttavia un’idea del nostro aspetto lei se la può fare lo stesso… Carlo tiene in mano un lapis”. Nel dopoguerra Debenedetti restituì alla mia famiglia la foto, credo, già incorniciata.

Ci può parlare dell’infanzia di suo padre?

CG: Mio padre nacque a Odessa il 4 aprile 1909, da Fëdor Nikolaevič e da Vera Griliches, ebrei colti e agiati. Era il figlio naturale di Renzo Segre, fratello di Maria Segrè, che per tanti anni era stata istitutrice della famiglia.  Dopo brevi soggiorni in Italia, soprattutto durante le vacanze estive a Viareggio, mio padre imparò l’italiano.

Fin da ragazzo era un assiduo lettore del quotidiano di via Solferino?

CG: Nel 1922 mio padre, allora tredicenne, scrisse una lettera al direttore del Corriere della Sera, segnalando alcune inesattezze contenute in un articolo di Angelo Gatti. Gatti rispose alla lettera senza rendersi conto che era stata scritta da un ragazzino.

La famiglia Ginzburg si trasferì a Torino…


CG: La famiglia lasciò la Russia nel 1919; dopo un periodo passato a Berlino, nell’autunno del 1923 la madre e i tre figli (mio padre era il più giovane) si trasferirono a Torino. A quindici anni Leone Ginzburg superò gli esami di ammissione al liceo Massimo D’Azeglio. Massimo Mila, suo compagno di scuola, scrisse di lui: “In liceo rivelò subito la sua vocazione di pastore di anime. I suoi compagni erano per gran parte robusti giovanottoni sportivi, poco curanti di letteratura, di politica e di morale: proprio i giovani che voleva il fascismo. Pure, l’ascendente che acquistò su di loro Leone fu immediato e straordinario. Ne dirigeva la vita intima con l’autorità di un confessore… Ciò che distingueva Leone fra tutti noi era il culto precoce della serietà filologica… Agenzia Tass, lo chiamavamo scherzando sulla sua onniscienza e sulla sua origine russa. Sapeva tutto del passato e del presente” (Quaderni di Giustizia e Libertà – 20 maggio 1945).

Mila stava descrivendo un adolescente di quindici anni! Precoce anche come traduttore?

CG: Molto precoce. Prima di finire il liceo tradusse Taras Bul’ba  di Nikolaj Gogol. Nel 1928-’29 apparve la traduzione di Anna Karenina.  Seguirono   Nido di nobilidi Turgenev, La Sonata a Kreutzer di Tolstoj e La donna di picche di Puškin. In queste traduzioni si esprimeva un sentimento di appartenenza duplice, all’Italia e alla Russia.

Augusto Monti, insegnante al liceo D’Azeglio, ebbe tra i suoi allievi, oltre a Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Giulio Einaudi. Insieme a quest’ultimo Leone Ginzburg fondò nel ’33 la casa editrice Einaudi.

CG: Gli studi di Luisa Mangoni hanno dimostrato inequivocabilmente quello che lo stesso Giulio Einaudi riconobbe più volte: mio padre, uscito di prigione nel 1936, diede un’impronta decisiva alla casa editrice con la creazione di collane come la “Biblioteca di cultura storica”, i “Narratori stranieri tradotti”, i “Saggi”, la “Nuova raccolta di classici italiani annotati”.

Leone si iscrisse inizialmente alla facoltà di Legge poi si trasferì a Lettere…

CG: Si laureò in letteratura francese con una tesi su Guy de Maupassant. Divenne libero docente di letteratura russa: ma la sua carriera accademica cessò nel momento in cui rifiutò (8 gennaio 1934) di prestare giuramento di fedeltà al regime. Successivamente collaborò con Santorre Debenedetti, alla preparazione dell’edizione dei Frammenti autografi dell’Orlando Furioso (1937). Per la collana “Scrittori d’Italia”, pubblicata da Laterza e diretta da Benedetto Croce, curò l’edizione dei Canti di Leopardi (1938). “Una vita recisa senza poter concludere la sua opera” ha detto Norberto Bobbio di Leone Ginzburg, amico della giovinezza. Questo è vero. E tuttavia tra il filologo e il politico si scorge, retrospettivamente, una coerenza profonda, quasi una radice comune. Intransigente verso se stesso, Leone Ginzburg era pieno di comprensione per le debolezze altrui, così come cercava di comprendere scrittori e opere appartenenti ad un mondo diverso dal suo.  Lo testimonia il “Viatico ai nuovi fascisti” apparso sui quaderni clandestini di Giustizia e Libertà nel 1933, a commento dell’iscrizione forzata al Partito nazionale fascista nel decennale della marcia su Roma: “Le settecentomila persone, che sentono come un marchio questa iscrizione forzata, hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta, Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione”.

Nel ‘31  raggiunta la maggiore età (allora a 21 anni) suo padre entrò nella politica attiva. “Leone, di tanto in tanto, lo arrestavano. Lo arrestavano, per ragioni precauzionali, ogni volta che veniva a Torino qualche autorità politica, o il re. Lo trattenevano in carcere per tre o quattro giorni, poi lo rilasciavano, appena quell’autorità ripartiva; e Leone tornava a casa, con le guance nere di barba, e un involto di biancheria sotto il braccio”.  Questo frammento del “Lessico Famigliare” scritto da sua madre Natalia, descrive l’antifascista, da anni legato al gruppo di “Giustizia e Libertà”.

CG: Nel 1934 era stato arrestato per attività antifascista, processato davanti al Tribunale Speciale e condannato a quattro anni di carcere; ne scontò due, per sopraggiunta amnistia. Quando uscì di prigione partecipò intensamente, insieme a Cesare Pavese, all’attività della casa editrice fondata con Giulio Einaudi. Il 12 febbraio 1938 sposò mia madre. La cittadinanza italiana gli fu tolta in seguito alle leggi razziali, in cui mio padre, non diversamente da Vittorio Foa, vide un tradimento della tradizione risorgimentale.  Nel 1940, quando l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania nazista, mio padre fu confinato a Pizzoli, una cittadina vicino a L’Aquila. Qui lo raggiunse mia madre con due figli (mia sorella nacque a L’Aquila).  A Pizzoli lavorò alla revisione della traduzione   di Guerra e Pace di Tolstoj, di cui scrisse l’introduzione (apparsa anonima, per le proibizioni legate alle leggi razziali). Scrisse un saggio su “La tradizione del Risorgimento”, apparso postumo.  Aveva in mente un libro su Manzoni. Il suo legame con l’Italia era profondissimo. Aveva rifiutato un’offerta di espatrio che gli era arrivata attraverso Max Ascoli e la Fondazione Rockefeller. Dopo l’8 settembre 1943 lasciò Pizzoli e andò a Roma per dirigere l’edizione clandestina di “L’Italia Libera” giornale del Partito d’Azione.  Il 20 novembre 1943 fu arrestato nella tipografia che stampava il giornale   e condotto a Regina Coeli. Aveva documenti falsi, intestati a Leonida Granturco, ma ben presto la sua identità fu scoperta; venne trasferito nel braccio del carcere controllato dai tedeschi.  Qui trovò Carlo Muscetta, Manlio Rossi Doria, Stefano Siglienti e altri compagni. Nella sua autobiografia Sei condanne e due evasioni Sandro Pertini scrisse che mio padre, sanguinante dopo un interrogatorio, gli aveva detto: “non bisognerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi”. Leone Ginzburg da profeta pensava a una federazione europea che avrebbe dovuto includere una Germania democratica. Nell’ultima lettera a mia madre (poi raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana n.d.r.) scrisse “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale”.  Morì in carcere il 5 febbraio 1944. Aveva 34 anni.

(Pubblicato su L’Antifascista, Gennaio-Febbraio 2016)

di Filippo Senatore

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