Tratto da Lettera ai Compagni, 1976
nell’immagine: 
Ernesto Rossi fra Mario Pannunzio (a sinistra) e Francesco Libonati

Tra le conversazioni, tutte assai rilevanti per la forma e il contenuto pronunciate a Roma il 23 gennaio in occasione della presentazione del volume «Ernesto Rossi, un democratico ribelle» a cura del Movimento Salvemini, pubblichiamo quella di Vittorio Foa che, serve a lumeggiare aspetti meno conosciuti della vita e dell’azione politica di Ernesto Rossi.

A Vittorio Foa i più vivi ringraziamenti della «Lettera ai compagni» per aver cortesemente aderito alla nostra richiesta.

Ernesto Rossi si sarebbe arrabbiato alla sola idea di essere commemorato in modo celebrativo. Mi limiterò perciò ad alcuni ricordi personali e al più tenterò un giudizio di critica storica limi­tandomi al periodo trattato dal volume curato da Giuseppe Armani, al periodo fascista. Trala­scerò volutamente ogni riferimento all’attività di Rossi dopo il fascismo, in un periodo nel quale ci sentiamo tutti politicamente coinvolti: l’af­fetto che porto alla memoria di Rossi non mi con­sente di correre il rischio di utilizzare il suo nome in polemiche politiche di attualità.

Ho una obiezione da fare al titolo di questo libro. Per quel che riguarda il periodo fascista non si può dire che Ernesto Rossi fosse un «democratico ribelle». Dopo sì; dopo egli è an­dato sempre contro corrente ed ha bucato tanti di quei palloncini colorati che sono parte inte­grante della vita democratica, dando un contributo di grande importanza. Per quel che riguarda il pe­riodo fascista la scelta di campo di cui vi hanno parlato Valiani ed Enriquez Agnoletti non aveva un connotato puramente negativo di ribellione, ma aveva una configurazione positiva. Mi sembra difficile classificare Rossi semplicemente come antifascista durante il fascismo; questa defi­nizione era del resto generalmente respinta dai militanti giellisti, comunisti o socialisti che non si limitavano a combattere il fascismo a parole.

È difficile classificare Ernesto Rossi, la sua personalità singolare sfugge agli schemi correnti di interpretazione: Per esempio non gli si adatta lo spartiacque culturale che divise fascismo e anti­fascismo fra irrazionalismo e razionalismo nella sua doppia configurazione storicistica, quella idealistica-crociana che identifica la ragione nel processo della Storia e quella materialistica, marxistica, che la scopre e la illustra nel conflitto fra le classi. Certo, Ernesto era un razionalista: una delle sue cose più belle, la lettera che scrisse a Riccardo Bauer poco prima di morire (e che Armani pubblica) parla del «fiammiferino della ragione». Ma non si lasciava inquadrare né nel crocianesimo né nel marxismo; era un razionalista individuale che pensava di potere, col suo fiammiferino, illumi­nare la strada a forze più vaste.

Come razionalista illuminista egli rifiutava l’irrazionalità anche delle cose che non conosceva, come della morte, che egli considerava come un irrilevante episodio in mezzo ad un immenso pro­cesso storico, particolare di cui non valeva la pena di occuparsi. Anche questo scrisse poco prima di morire a Riccardo Bauer. Conseguentemente individualista come atteggiamento morale e come posizione economica, Rossi era logicamente por­tato ad affermare la priorità della volontà e della scelta: egli non si considerava strumento della Storia ma soggetto libero e responsabile.

Vi è un’altra difficoltà di catalogazione. Er­nesto fu interventista e poi fu antifascista, ma non rientra facilmente nello schema storiografico del­l’interventismo democratico che pure sboccò nel combattentismo antifascista dell’Italia Libera e poi nei processi successivi di antifascismo de­mocratico. L’esperienza di Ernesto richiama un problema storicamente importante. È vero chel’interventismo democratico è stato sconfitto in modo drammatico dall’interventismo nazionalista e poi fascista, ma la storia non è fatta solo delle azioni di quelli che vincono, la storia è fatta an­che di quelli che perdono e di cui bisogna verifica­re — nella sconfitta — le ragioni.

Insieme con gli interventisti democratici Rossi accettò, anzi volle, la guerra e vi si impegnò a fondo e fino al suo termine (diversamente da altri che nel corso del massacro cambiarono idea); non solo, dopo la fine del conflitto egli lo difese appassionatamente contro i socialisti che lo avevano negato e lo difese con una insistenza che assume in certi momenti un carattere ossessivo. Ma egli non si lasciò coinvolgere nella caduta, che fu una liquidazione, dell’interventismo demo­cratico, e scelse, insieme con Carlo Rosselli, Fer­ruccio Parri e altri, una strada diversa e nuova, quella dell’azione su un terreno ormai diverso. Ma prima cli questa scelta attiva quale era stato il limite di Rossi e dell’interventismo democratico, limite che ne determinò la disfatta? In una sede che non è né apologetica né cerimoniale abbiamo il dovere di cercare di capire.

Nel 1914 la classe dirigente liberaldemocratica che reggeva il paese ‘dall’Unità era entrata in una crisi senza rimedio. L’Italia giolittiana, come l’Inghilterra vittoriana, la Germania guglielmina, la terza repubblica francese, la Spagna della Re­staurazione, non era più in grado di governare da un lato la pressione aggressiva del nuovo capitale finanziario dall’altro le grosse spinte del movi­mento operaio. Anche in Italia la crisi politica si collegava alla crisi economica del 1907 e trovava nella guerra un momento di stabilizzazione e al tempo stesso di accelerazione nel medio termine. Il capitalismo aggressivo trovava espressione nel nazionalismo autoritario; le forze emergenti del movimento popolare identificavano nei socialisti e nei cattolici la base della nuova classe politica. Proprio contro socialisti e cat­tolici, cioè contro i contadini, contro le masse popolari, contro le organizzazioni operaie, si scatenò la guerra.

Il recentissimo volume di Luciano Zani sull’Ita­lia libera ci aiuta a capire i limiti del combatten­tismo antifascista, filiazione diretta dell’interven­tismo democratico. I limiti sembrano gli stessi nelle due esperienze, e in primo luogo il mazzi­nianesimo che animò i fondatori dell’Italia libera, da Raffaele Rossetti a Randolfo Pacciardi. Vale la pena di ricordare quello che scriveva Piero Gobetti su «Rivoluzione liberale» del 17 aprile 1923: «Si chiede se l’equivoco in cui si trovarono i repubblicani di fronte ai tre punti 1) Dalmazia, 2) wilsonismo, 3) bolscevismo, potessero evitarsi o non corrispondessero a pericolosi errori di impostazione e di natura. Io non riesco intanto a care tutti i torti al Gentile che in Mazzini cerca un esempio di nazionalismo, come non mi stupi­sco che l’amico Calosso giunga, del resto sulle orme cli Oriani, alla dimostrazione del carattere imperialistico presente nel concetto mazziniano di missione nazionale. Ma anche se si fossero tolte tutte le nubi e trovato l’accordo nell’antimperia­lismo e antinazionalismo, lo scoglio della que­stione sociale non è facilmente evitabile… «I do­veri dell’uomo» di Mazzini sono un libro immorale in quanto propongono all’operaio un ideale che non scaturisce dal suo stesso cuore, lo persuadono a tradire sé e i suoi per agire nell’atmosfera re­torica cella palingenesi democratica e della virtù piccolo-borghese… Nel mazzianismo mentre si trovano le idee più contraddittorie e confuse, il nucleo centrale resta una dottrina democratica conservatrice rispetto alla quale le sovrapposi­zioni rivoluzionarie sono una mera derivazione ro­mantica, quasi una malattia del secolo che non è più il nostro».

Il giudizio gobettiano, riferito al partito re­pubblicano nonostante le forti simpatie per la giovane ala rivoluzionaria di Conti, Bergano, Zuc­carini e Schiavetti, si attaglia benissimo all’Italia Libera. La sola alternativa alla guerra come soluzione autoritaria era la vittoria delle forze che erano state nemiche della guerra. Gli epigoni dell’interventismo democratico, cioè i combat­tenti antifascisti dell’Italia Libera, cercarono di sfuggire a quell’alternativa affermandosi come de­mocrazia radicale, cioè come una istanza di go­verno della piccola borghesia contro il grande ca­pitale ma al di fuori delle masse operaie e con­tadine. Fu proprio il combattentismo della demo­crazia radicale a renderle il fiato corto e a con­dannarla alla sconfitta.

Il 3 gennaio 1925 il fascismo da governo si fece regime, anche se la codificazione del regime scerò volutamente ogni riferimento all’attività sarebbe avvenuta solo nell’autunno dell’anno successivo. Il 3 gennaio i problemi si chiariscono, le discriminanti si fanno decisive. Quelli dell’Ita­lia Libera che guardano all’indietro, alla tra­dizione interventista e combattentistica, si sono dispersi e sono stati riassorbiti in un regime che faceva largo spazio alla piccola borghesia intellettuale e professionale. Quelli invece che guardavano al futuro diedero fatalmente all’an­tifascismo radicale il significato di un rifiuto della vecchia classe politica liberale, dei suoi patteg­giamenti, delle sue viltà. L’Italia Libera di Firenze, con Vannucci, Traquandi, Rossi, Calamandrei e tanti altri, guardava avanti e non indietro. Co­munque il passaggio al «Non Mollare» (il nome fu trovato da Nello Rosselli) è un salto di qualità rispetto alla tradizione combattentistica dell’Italia Libera. L’influenza salveminiana vi fu decisiva ed Ernesto, come Carlo Rosselli, divenne presto un personaggio di rilievo nella lotta. Al centro veniva riproposta l’azione. Non si trattava di ge­nerico attivismo piccolo-borghese, ma di una po­lemica culturale e politica profonda. Insieme col fascismo venivano negate le specifiche e sterili forme di radicalismo democratico, come l’Aven­tino (e come, più tardi, la Concentrazione di Parigi).

Dopo il 3 gennaio 1925 la scelta di Rossi fu una scelta di campo, la scelta dell’impegno totale a qualsiasi prezzo. Quando i redattori del «Non Mollare» andarono a processo Ernesto riuscì a riparare all’arresto, ma presto decise di tornare in Italia. In Italia vi sono cinquecentocinquantamila persone che si chiamano Rossi; Ernesto pensò: in mezzo a tanti Rossi chi mi prende? Si tagliò i baffi, cambiò pettinatura e andò a Roma a fare un concorso per il posto di professore di economia politica in un istituto tecnico, riuscì primo (e si spaventò per paura di essere riconosciuto), come primo poteva sce­gliere una sede comoda e importante e invece scelse Bergamo perché era un posto defilato però vicino a Milano, il posto ideale per ricostruire una rete politica e insieme studiare. Così per quattro anni Ernesto organizzò politicamente il suo lavoro e gli andò bene anche perché incontrò Ada. Questo suo silenzioso, tranquillo, operoso ri­torno in Italia, dove con Bauer diede vita al centro interno di Giustizia e Libertà, fu un fatto im­portante. Esso ci aiuta a capire anche i gesti pro­pagandistici dell’Italia Libera fiorentina, che ci sembrano sproporzionati alla gravità dei problemi politici sul tappeto. Chi ripensi alla storia della classe politica democratica-liberale alla metà degli anni venti ricorda, con poche eccezioni, un mare di fango di fronte al quale l’affermazione attivistica (io continuo, io combatto) fu di enorme valore politico, soprattutto quando si trattava ‘della consapevole scelta di un lungo periodo di carcere. Rossi parla dei «carcerati volontari», di coloro che sapevano di andare in prigione e di andarci per un periodo di imprevedibile durata. A chi pensasse a un astratto moralismo si può os­servare che quella scelta costituiva il più concreto collegamento con la realtà, col mondo da cui il carcere isolava. Salvemini, che aveva animato Rosselli e Rossi, dopo le leggi eccezionali non credette più a soluzioni italiane autonome, credette solo in soluzioni internazionali e si gettò tutto in quella direzione, separandosi però dal paese. Rossi, scegliendo l’Italia e la prigione, restò tutto intero uomo del suo paese e del suo tempo. Ed era proprio questa integrale presenza che gli consentiva, lui che amava presentarsi come empirico in mezzo alle piccole cose terrene, di alzarsi con ali robuste nel cielo dei grandi problemi.

Quando il patto di unità di azione fra sociali­sti e comunisti sbarrò la strada al socialismo po­tenziale di Giustizia e Libertà, quando (come scrive Giampiero Carocci) la democrazia radicale aderì al partito socialista anziché assumerlo come interlocutore principale, il superamento della de­mocrazia tradizionale diventava nella G.L. (e in Rossi in particolare) volontà di rottura e quindi accettazione della violenza come metodo di lotta politica e insieme impegno programmatico. In questo senso, anche se Rossi vi si riconobbe con difficoltà, egli fu uno dei padri del partito d’azione e della resistenza. La questione della rottura e quindi della violenza è importante. Il terrore della continuità era costante in Rossi e spiega per esempio anche la lettera del 22 giugno 1945 a Salvemini, ingiusta e disconoscente verso l’im­pegno della resistenza„ La violenza: quando Bauer e Rossi furono presi non stavano macinando il caffè o fabbricando dei giocattoli: si può essere o non ‘d’accordo con certe forme di lotta, ma la forma di lotta che « i nostri martiri » (come li chiamavamo scherzosamente nel carcere di Regina Coeli) stavano adottando esprimeva bene la scelta di una rot­tura. Non si trattava della meccanica e banale ri­sposta all’illegalità con l’illegalità. Il fascismo era del tutto legale. Il fascismo italiano non era la personificazione del terrore.

Qui sono in leggero dissenso con Valiani (voce di Valiani: è un vecchio dissenso); Rossi ha ragione quando presenta il regime fascista come un regime borbonico abbastanza lassista soprattutto coi colletti bianchi, con la gente di estrazione borghese. Certo, ci furono alcuni assassinii organizzati, e le vittime furono scelte con intelligenza. Certo nel corso delle guerre, in Abissinia, in Jugoslavia, ci furono massacri che ancora ci coprono di vergogna. Certo, gli arrestati operai o contadini subivano violenze e bastonature. Ma non ci furono le torture, le raffinate sevizie che conoscemmo nella resistenza. Rossi parla della polizia fascista come ‘di una polizia all’italiana, un po’ camorri­sta e parecchio classista. In questa sala c’è Mario Andreis, forse il solo intellettuale (scrive Rossi) che fu bastonato dalla polizia. A un certo punto, sotto le botte, Andreis che, piemontese come me, non è ricco di immaginazione, gridò: ma io sono un ufficiale degli alpini. E allora gli dissero:scusi tanto e smisero di picchiarlo. Parliamoci chiaro: in diciassette anni abbiamo avuto 4600 condannati al tribunale speciale, di cui più di quattromila del partito comunista. Facciamo le medie annue e il rapporto con la popolazione e vedrete che non era un regime di terrore, era un regime di consenso di massa organizzato. La lotta a quel regime era tanto più difficile. Quando Rossi fuggì dal treno a Viareggio non trovò un cane che lo aiutasse, mentre nella resistenza tutti aiutavano tutti.

Non sono d’accordo con Armani che privilegia le lettere dal confino. Vi è certo in esse una mag­giore chiarezza nell’impegno programmatico (per esempio sulla questione della miseria); ma vi è anche più stanchezza e pessimismo. Riccardo Bauer scrisse di Rossi che era un giacobino in un mondo di farisei. Ma Bauer e Rossi non erano questo in carcere, o almeno il mondo per loro non era un mondo di farisei. Non vi era antifascismo allo stato di natura, dipendeva da dove nascevi, da chi incontravi; Rossi ha incontrato Salvemini, che fu lo spartiacque della sua vita (lettera del 31 gennaio 1942) e Bauer, con la sua immensa ricchezza umana, con la sua comunicatività e capacità di animazione morale, con la sua forza di luce-guida, era egli stesso un prodotto del suo -tempo e della sua città.

Assai più importante che una semplice risposta illegale a un regime illegale era dunque la lotta contro un regime autoritario legale capace di or­ganizzare un consenso di massa: questo tipo di lotta escludeva per definizione ogni illusione evo­lutiva e si basava sulla rottura e avrebbe costituito una importante componente del futuro partito d’azione; allo stesso modo come il richiamo del partito comunista alla tradizione garibaldina (in particolare nella guerra di Spagna) fu un si­gnificativo richiamo a una linea di rottura e ‘diede un forte segno alla resistenza. Vi è un altro le­game con la resistenza. La scelta del carcere in­dipendentemente dalla sua prevedibile durata (Giorgio Amendola ha scritto nel 1961 che dopo le leggi eccezionali era normale dire che ci vole­vano venti anni, vent’anni era il tasso normale prevedibile) esprime, in termini capovolti, l’espe­rienza della resistenza. Nel fascismo Rossi e Bauer ci hanno insegnato che bisogna saper sce­gliere senza contare gli anni che venivano; nella resistenza Leo Valiani e Ferruccio Parri ci hanno insegnato che bisognava battersi anche se il de­stino della guerra e del fascismo era comunque segnato dalle vicende militari, bisognava battersi se si voleva che il futuro non fosse continuità col passato ma rottura.

Questo era dunque l’Ernesto Rossi che ho conosciuto e frequentato per molti anni in una piccola cella, fermo come chi non pone mai la sua vita personale al di sopra delle vicende collettive. E la vita personale di Rossi non era facile. Non è vero che carcere e confino siano luoghi di tranquilla riflessione, sono cose che si mangiano la salute. La vita nel carcere era molto ansiosa, la disciplina dello studio rigida e logorante, l’isola­mento totale dalle «notizie», dai fatti del mondo, lo sforzo di mettere insieme i frammenti per ricostruire una immagine, la pena di non essere presente nei momenti dolorosi delle scon­fitte (che allora furono tante e tante): tutto que­sto logorò profondamente la salute di Ernesto, che io rividi nel 1943 e poi ancora nel 1945 in uno stato di esaurimento impressionante. Ma sotto l’ansia di ogni ora vi era la tranquillità di fondo, la coscienza di una dimensione sto­rica della propria esperienza, l’impegno a pen­sare con la massima possibile serenità al domani, alle cose da fare domani: è il lungo impegno di lavoro di Ernesto sulla miseria da eliminare, sulla riforma agraria, sul federalismo europeo, è la ca­pacità di documentazione e di sistematico ancora-mento al concreto. Mi spiace che la mancanza di tempo impedisca quì di discutere di Rossi liberalista, del significato di questa sua posizione economica nella realtà del nostro tempo.

La stessa ricchezza degli affetti famigliari di­ventava in Rossi un sostegno prezioso nella sua lotta di ogni giorno, l’amore per la madre, l’amo­re per la moglie Ada. Con Massimo Mila, con Cavallera e Perelli, non avevamo mai conosciuto Ada, l’abbiamo vista solo dopo la liberazione. Ma quan­do Ada veniva al colloquio con Ernesto ed Er­nesto rientrava (dopo una breve ora) nella cella era per tutti noi un momento ‘di animazione, di arricchimento, di gioia; era il mondo che si affacciava a noi, carico di affetto, e ci dava coraggio e ci faceva capire che quello che ci acca­deva era pieno di significato. Anche questo fu Ernesto Rossi per noi, un modello di incitamento e di coraggio, un modello che non si esaurisce.

di Vittorio Foa

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