Bianca Ceva. 1930. Retroscena di un dramma, Ceschina, Milano 1955

Non credo che esistano storie come questa. Storie dove non una generazione successiva, magari un figlio (come, in anni recenti, è successo per i figli di Giorgio Ambrosoli, Luigi Calabresi e Walter Tobagi), ma un consanguineo dedica gran parte della sua esistenza per ripercorrere gli ultimi giorni di vita di un parente stretto e dargli giustizia. È il caso di una sorella maggiore, la cultrice di studi classici Bianca Ceva che, nel suo Dizionario delle donne lombarde, Rachele Farina definisce “combattente antifascista”. Bianca, dieci anni dopo la fine della guerra, con tenacia, pazienza e sagacia, decide di dare alle stampe un libricino in cui racconta le sue indagini, meticolose quanto sofferte, per dare voce al fratello Umberto, coraggioso esponente dell’antifascismo giellista, che si tolse la vita a Regina Coeli per non rischiare di tradire i compagni.

Retroscena di un dramma s’intitola il libretto, poco più di una cinquantina di pagine divise in tredici capitoli, in cui comprimere una vita brevissima, “spezzata per l’attaccamento ad una morale interiore e alla giustizia”, come scrive Mimmo Franzinelli nella postfazione aggiunta alla ristampa del 2010 per le Edizioni Pontegobbo di Bobbio. Il paese del piacentino dove, per sua espressa volontà, vennero trasportate le ceneri di Umberto Ceva, anche se la sua tomba rimase per 15 anni senza nome, per ordinanza prefettizia, un altro oltraggio alla memoria di un irriducibile oppositore alla dittatura mussoliniana.

Il libricino non solo contiene la storia delle scelte di Umberto, ma delinea anche in modo minuzioso il clima politico di quegli anni angoscianti, dove dominano l’indifferenza e il conformismo, contro cui si erge un pugno di uomini che non si allinea, ma opera una scelta diversa: quella del “non mollare”, quella di una strenua opposizione, a qualunque prezzo.

Umberto Ceva muore suicida nella cella 440 del IV braccio del carcere romano la notte di Natale del 1930. Se le continue percosse, le violenze, le sevizie e le torture dei solerti e scrupolosi aguzzini del carcere di Regina Coeli si fossero fermate prima, è probabile che il martirio di Ceva non sarebbe avvenuto. O, più semplicemente, la sua “reticenza” lo avrebbe fatto finire davanti al plotone di esecuzione insieme ai compagni imputati nel cosiddetto “processo degli intellettuali” (Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Vincenzo Calace, condannati a decenni di carcere).

La vicenda di Umberto Ceva, comunque la si guardi, dovrebbe essere universalmente nota: un giovane intellettuale (classe 1900), che dalla laurea in chimica in poi non aveva perso tempo e si era subito unito ad un gruppo di temerari, che nel capoluogo lombardo avrebbe costituito il nucleo dell’opposizione al regime e partecipato ad un’attività clandestina iniziata con la diffusione della rivista Il Caffè (il “periodico più sequestrato nella storia d’Italia”, per dirla con Riccardo Bauer, uno dei due gerenti responsabili, insieme a Ferruccio Parri). Poi Ceva aveva collaborato alla rocambolesca fuga del vecchio leader socialista Filippo Turati in Francia, per poi aderire alla cellula italiana del movimento che a Parigi avrebbe preso il nome di Giustizia e Libertà.

Come illustra pagina dopo pagina Bianca, con la nascita di GL si decide un vasto piano di attività. Esso comprende la diffusione ad ampio raggio di stampati, il volo di un aereo su Roma con lancio di volantini per incitare alla rivolta (dopo il volo eroico, ma sfortunato, di Giovanni Bassanesi), una serie di azioni più energiche comprendenti l’uso di ordigni incendiari, della cui fabbricazione è incaricato proprio suo fratello Umberto. Chimico eccellente, aveva già dato prova del suo valore dotando i tre sodali sopra citati (a cui vanno aggiunti i fratelli Rosselli e Parri) di un inchiostro simpatico, che si era rivelato utilissimo per comunicare con relativa tranquillità durante i primi mesi di carcere e confino.

Peccato che nella rete di contatti, composta da amici fidati e conoscenti, ci sia anche una spia del regime (come lo avrebbe definito Ernesto Rossi), Carlo Del Re, che in Retroscena di un dramma quasi ruba la scena a Umberto, divenendo una sorta di comprimario. Un personaggio subdolo e maledetto, di cui Bianca svela le caratteristiche, quelle del tipico fascista: mellifluo, accomodante, ma anche ricattatorio (lo si vede nelle sue corrispondenze con il capo della polizia Arturo Bocchini), decisamente squallido. “Mi rincresce non sia stato fucilato come doveva”, scrive senza mezzi termini Parri, nel testo usato come prefazione alla ristampa del libro, un testo recuperato sulla rivista bimestrale Il movimento di liberazione in Italia dell’autunno del 1955.

Ma perché Umberto viene arrestato dall’OVRA fascista? Lo anticipa Parri, svelando che Bianca Ceva “aveva capito che al centro c’era lo smacco insanabile della polizia, incapace di far luce sul tremendo attentato del 1927 di piazzale Giulio Cesare” a Milano. Un attentato dinamitardo, in realtà del 1928, dove morirono decine di persone, e dietro cui probabilmente si celavano depistaggi e frange del regime. Ceva era un chimico, sapeva costruire ordigni esplosivi, era il colpevole ideale, quindi egli e il suo gruppo dovevano essere gli esecutori dell’attentato. Del Re poteva inventare indizi, produrre prove false, indirizzare le indagini… E così, prigioniero di una ragnatela che non riusciva a spezzare, Umberto preferì sottrarsi con la morte alla gelida crudeltà dei carnefici.

Di fronte all’ultimo ricordo della sorella Bianca è difficile rimanere impassibili:

L’ultima volta che lo vidi era inquieto; pareva fin preda ad una strana eccitazione, come chi fosse presente con la persona, ma con la mente e con l’animo rapiti verso un punto che nessuno di noi vedeva. La conversazione a un certo punto cadde su Shakespeare, in particolare sul Macbeth: “spegniti, spegniti piccola fiamma! La vita è solo un’ombra che cammina”.

Era il 26 ottobre del 1930: due mesi dopo Umberto Ceva non c’era più. Ma nel suo nome, per il suo sacrificio, continuarono a lottare gli uomini e le donne che ci hanno condotto alla Liberazione, alla Costituzione, all’Italia repubblicana.

di Claudio A. Colombo

 

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