L’assassinio della giovanissima Mahsa Amini in Iran, insieme a quello di Nika Shakarami, Asra Panahi e Elnaz Rekapi, alcune delle tante ragazze vittime di pestaggi e torture, e mai tornate a casa, è ancora impresso nella mente di tutti noi. Così come le continue proteste che ancora oggi, nonostante la diminuzione delle notizie trasmesse dai media di tutto il mondo, alimentano l’eco della durissima repressione intrapresa dal regime teocratico iraniano e infiammano l’ex Persia.

È pensando ai loro casi, alle sevizie subite, alle loro vite stroncate quasi sul nascere, che – in questi tempi in cui il revisionismo sta riprendendo vigore e si continuano a ridimensionare i crimini commessi durante il ventennio nero – può tornare utile rileggere un libricino del 1946, quando l’Italia aveva conquistato la democrazia e si apprestava a diventare Repubblica.

Si tratta de Il mio granello di sabbia di Luciano Bolis (uscito per i tipi di Einaudi), a ben considerare uno dei primi esempi di memorialistica della Resistenza, pubblicato tre anni prima del “romanzo ufficiale della Resistenza” L’Agnese va a morire di Renata Viganò, e ben sei anni prima di una serie di romanzi di taglio autobiografico che hanno fatto storia: I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio (il suo celebre partigiano Johnny uscì nel 1968), Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Fausto e Anna di Cassola, per non parlare delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (uscito sempre nel 1952, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli).

Come considerare Il mio granello di sabbia? Per Ferruccio Parri, che spinse Bolis a mettere nero su bianco la sua esperienza e poi ne scrisse la prefazione per la prima edizione (per le successive si aggiunsero quella di Luigi Santucci nel 1976 e quella di Giovanni De Luna nel 1995), in queste pagine “i lettori, ignari dell’atrocità angosciosa della nostra lotta contro fascisti e nazisti, inorridiranno. E sentiranno che delitto fondamentale della guerra scatenata da questi due regimi è stato l’aver rimestato i fondigli tenebrosi dell’animo umano, è stato l’aver sfrenato e glorificato l’odio e la malvagità bestiale”.

Per chi, invece, mi mise in mano quelle pagine, che divorai – ma con estrema fatica – in poche ore, Il mio granello di sabbia è un “classico dell’orrore” (il copyright è di Luigi Santucci, compagno di studi di Bolis e amico per una vita intera). Me lo consigliò mio padre, qualche settimana prima di farmi incontrare Bolis, ormai settantaduenne (sarebbe scomparso pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1993), in una cena in famiglia, durante la quale mi colpì non solo la sua stazza – era alto quasi due metri – ma soprattutto il suo sguardo cristallino per non parlare della lunga barba bianca, quasi da profeta biblico, simile a quella dell’amico fraterno Spinelli, con il quale aveva fondato il Movimento federalista europeo. In quegli occhi attenti e circospetti si poteva percepire la statura morale di un uomo che non era mai arretrato di fronte alle sue convinzioni, deciso a difenderle fino in fondo, anche a costo di pagarle sulla propria pelle, fino all’ultimo respiro.

Oggi che vanno tanto di moda i biopic, la sua vita potrebbe trasformarsi facilmente nella trama di un film: classe 1918, giovanissimo militante di “Giustizia e Libertà”, viene arrestato nel novembre del 1942 e imprigionato nel carcere di Castelfranco Emilia. Liberato nell’agosto del 1943 lo ritroviamo esule in terra elvetica, prima nel campo profughi di Adliswill, poi a Zurigo dove conosce, tra gli altri, Parri, La Malfa, Terracini, Silone, Schiavetti e Rossi. Tornato in Italia nell’autunno del 1944, viene mandato da Leo Valiani (rappresentante del Partito d’Azione nel CLNAI) in Liguria per organizzare le file della lotta antifascista. E qui Fabio (questo il nome di battaglia di Bolis), il 6 febbraio del 1945, cade nelle mani dei repubblichini genovesi iniziando il suo calvario, con le torture subite alla “Casa dello studente” e poi nella prigione di via Monticelli.

Nel ripercorrere quelle ore tragiche, in cui Bolis, stremato dalle torture, prenderà una scelta a dir poco drastica (il suicidio – ma pur non riuscendo nell’intento, non tradirà i compagni), le pagine de Il mio granello di sabbia ci fanno sprofondare in un abisso: quello della barbarie dell’uomo. Ma ci fanno anche riflettere sul valore di chi, kantianamente, ha sempre vissuto con un proprio imperativo categorico. “Sono pienamente convinto che il mio sacrificio non sia che il granello di sabbia di un deserto, e la mia vicenda altro non rappresenti se non lo sforzo e le sofferenze di un uomo tra lo sforzo e le sofferenze d’una moltitudine di uomini che come lui e più di lui hanno lottato e pagato, e i migliori dei quali non sono oggi in grado di scrivere nessuna storia”.

di Claudio A. Colombo

Il volume è stato ristampato nel 2020 da Einaudi. Oltre alle introduzioni di Ferruccio Parri, Luigi Santucci e Giovanni De Luna, il volume è corredato da una nota biografica di Nicola Terracciano e, in appendice, dalle testimonianze di Giovanna Sissa e Lucia Bolis.

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