Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve (Einaudi, Torino 1953)

Chi ha letto alcuni dei suoi romanzi, oppure ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona, difficilmente ha dimenticato il suo stile, quel misto di storie private e tradizioni, di montagna e natura, di ricordi di guerra e malinconia. E soprattutto non ha dimenticato il significato che per Mario Rigoni Stern aveva la parola Memoria, che racchiudeva anche un dovere morale che sentiva improcrastinabile:

Potrei dirle che il mio zaino è ancora pieno di storie, storie di vita, storie delle mie montagne, storie di un mondo che purtroppo comincia a dimenticare, e che di conseguenza mi spinge a ricordare e raccontare fino alla fine, a qualunque costo. Il problema principale è la scuola, dove si fatica a insegnare a fondo la storia contemporanea. E invece gli italiani avrebbero tanto bisogno di conoscere la storia di ieri perché non ricordare il passato porta anche a sottovalutare, o a valutare male il presente. Lo vediamo tutti i giorni come la gente viene influenzata con estrema facilità e non sa distinguere più tra il bene e il male.

Così, una trentina d’anni fa, mi spiegava Rigoni Stern in una lunga chiacchierata al telefono, perché difficilmente abbandonava la sua Asiago per “passeggiare” in pianura. Quando scriveva libri, o articoli (per anni tenne una rubrica fissa su La Stampa), il cantore dell’Altipiano sapeva lasciare il segno. Proprio come in questo suo primo romanzo, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, la cui stesura è durata tre anni. Lo iniziò a Preblic (in Austria) nel gennaio del 1944, quando era ancora lontano dalla terra natia, per terminarlo tra le pareti domestiche della sua Asiago, nel gennaio del 1947. Una quindicina d’anni fa, il conterraneo Marco Paolini ha tratto dal libro una pièce teatrale insieme toccante e devastante, dal titolo Il sergente.

La pubblicazione del romanzo arrivò solo sette anni dopo, esattamente settant’anni fa, nel 1953, nella collezione de “I gettoni” Einaudi diretta da Elio Vittorini, che nel risvolto di copertina scrisse una ventina di righe presentando Rigoni Stern come un outsider. «Mario Rigoni non è scrittore di vocazione, perché non sarebbe mai capace di scrivere di cose che non gli fossero mai accadute», ma proprio per questo «può riferire con immediatezza e sincerità quello che gli accadde tra la fine del ’42 e il principio del ‘43», in quella tragica ritirata di Russia che la testimonianza di Rigoni Stern, aggiungeva Vittorini, rende «una piccola anabasi dialettale».

La storia è nota, o dovrebbe esserlo. Inverno 1942. In un caposaldo sul fiume Don, i mitraglieridell’ARMIR (Armata italiana in Russia) si difendono dal fuoco dei cecchini russi, da brevi incursioni nemiche e da aspri combattimenti, risolti in genere a colpi di mortaio. A seguito di un’offensiva dell’Armata Rossa e della conseguente rottura del fronte di guerra, per evitare di subire l’accerchiamento dalle truppe nemiche, giunge l’ordine del ripiegamento: i plotoni vengono suddivisi in squadre, che a turno devono abbandonare il caposaldo e coprire le spalle alla squadra successiva in partenza.

Fate caricare gli uomini il più possibile. Non sappiamo quello che ci aspetterà. Bisogna caricarsi come muli. Tenetevi sempre gli uomini vicini e assicuratevi del funzionamento delle armi. E non lasciate i cucchiai nelle gavette, perché fanno rumore e bisognerà fare tutto nel massimo silenzio.

I consigli degli ufficiali alla truppa sono pochi e danno il senso di una situazione già precaria, che nelle ultime ore stava degenerando per i continui attacchi “mordi e fuggi” condotti dai russi. Lo si capisce fin dalle prime pagine del libro, dove la quotidianità della trincea è descritta senza censure, in quella distesa di bianco che sembra un paesaggio da cartolina e invece, per le temperature rigidissime (la media è meno 20), si rivela implacabile in ogni segmento di vita. Dal vitto (“nel percorso dalle cucine alla tana il cibo s’era gelato come al solito”) all’igiene (“si decise di fare la polenta. Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva bollito i pidocchi”), alla perlustrazione notturna (“avrebbero funzionato le armi con quel freddo?”).

Ha inizio la ritirata. “Un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro, un passo dopo l’altro”. È così che Rigoni Stern descrive il cammino di quella lunga colonna, “come una S nera sulla neve bianca, in lontananza dove il cielo si unisce alla steppa”, dove si procede senza una meta, quasi in silenzio (“non ci diciamo che poche parole, sembra che ci siano gelate anche le corde vocali”), con lo spettro della Katiuscia a 72 colpi dietro le spalle (“diavolo, che accidente d’ordigno”), conquistando un villaggio dopo l’altro, cercando di resistere ad una tormenta di vento infinita.

Nel buio freddo il vento della steppa trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. Il sole non veniva mai e c’era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento. Siamo solo stanchezza e sonno.

Anche se oggi, purtroppo, siamo bombardati da immagini e resoconti sempre più precisi e invadenti, pur nella sua immediatezza stilistica (“lo stile è disadorno, talvolta rapido come un rapporto militare”, scriveva Bruna Talluri nella recensione sulla rivista Il Ponte del febbraio 1954), Il sergente nella neve di Rigoni Stern colpisce a fondo, restituendoci fin dall’inizio l’atmosfera di una guerra di posizione che, nel giro di pochi giorni, si trasforma in una odissea. «Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?», chiede Giuanin, il giovane compagno d’armi del 55° Battaglione Vestone, che da allora “dorme nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky”. E questa domanda diventa una specie di mantra ossessivo nella narrazione, come quelle frasi che i bambini ripetono di continuo nella speranza che la risposta sia dietro l’angolo.

«Rigoni è un testimonio puro, perché ci dà dei ricordi della ritirata di Russia che non potremo dimenticare facilmente». Queste le parole di Carlo Bo nel secondo risvolto di copertina. Lo si comprende subito leggendo alcuni passi di questo romanzo-testimonianza, dove lo scrittore alle prime armi usa un linguaggio diretto, scarno, quasi non volesse perdere tempo a correre dietro alle parole. O quasi. Perché Rigoni Stern già allora dimostrava di conoscere le tempeste che scuotono l’animo umano e come descriverne gli effetti. Come quando parla dei suo compagni, dal commilitone taciturno (“pareva che la morte fosse già in lui”) al militare che fa la polenta (“una goccia di sudore per ogni pelo di barba, muscoli e gambe larghe: pareva Vulcano che batteva sull’incudine”) fino al caporale Gennaro (“il primo ad arrivare dove c’era bisogno, ma dentro di sé – sono sicuro – tremava come una foglia di betulla”).

Lo scenario intorno a lui, benché a migliaia di chilometri di distanza, lo spinge a evocare situazioni vissute nella sua infanzia (“sentivamo quello che sente un animale quando fiuta l’agguato”), a contatto proprio con gli animali (“i muli mandavano vapore dalle narici come balene”) e paesaggi invernali:

vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece.

Quello che Rigoni Stern passò in quelle settimane infernali (“sentii un gran boato e negli occhi della vedetta vidi il mio terrore”) lo tormenterà tutta la vita (“guarire dalle ferite sì, ma non delle altre cose: oh no, non si può guarire”), spingendolo a scriverne ancora. Vent’anni dopo, in Ritorno sul Don (dieci anni dopo un’altra opera indimenticabile, Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi), continuando a cercare notizie sui dispersi in Russia, assieme a tre amici – Primo Levi, Nuto Revelli e Lucio Ceva – per portare a conoscenza di un pubblico sempre più vasto il dramma e la disperazione, ma anche il coraggio e la determinazione dei nostri soldati, durante quella marcia impossibile che ha segnato la storia non solo dell’Italia.

Nessuno pensava «se muoio». Tutti sentivamo un’angoscia che opprimeva e tutti pensavano: «quanti km ci saranno per arrivare a casa»?

Quello che riuscì a mettere nero su bianco in quei tre anni di stesura, magro come un chiodo, gli occhi gialli e le ferite ancora aperte, è condensato in 150 pagine, dove riga dopo riga il sergentmagiù, quello che i colleghi del suo plotone chiamavano semplicemente “Vecio” o “Barba di Becco”, ripercorre la tragedia di quelle settimane drammatiche, culminate nella battaglia di Nikolajewka, che Rigoni Stern ci restituisce attraverso una narrazione serrata, rivivendo gli scontri che si protrassero per ore nelle strade della cittadina (“le pallottole si infilano miagolando nella neve accompagnandoci passo dopo passo”). E sfociarono spesso in combattimenti corpo a corpo (“sono allo scoperto tra il fuoco dei russi e dico tra me adesso e nell’ora della nostra morte, adesso e nell’ora della nostra morte, adesso e nell’ora della nostra morte”). A un certo punto, nel marasma della battaglia, un richiamo:

«Vestone! Vestone! Adunata Vestone!». Ma potrebbero rispondere i morti?

Verso la fine di questa narrazione, che sconvolge per l’intensità vivida di una battaglia epocale (che comunque ha dato lustro al nostro esercito), Rigoni Stern riesce però a provare un barlume di compassione, quando si ritrova, distrutto dalla fatica, le macchie di sangue di un commilitone sulla divisa, a cercare un po’ di quiete e di cibo in un’isba piena di soldati russi. La scena è quasi onirica.

Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. SPAZIBA, dico quando ho finito. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Ora non lo trovo strano, a pensarvi, ma naturale, di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini, un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portati gli uomini a voler restare uomini. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere.

Un inno alla pace e alla fratellanza dei popoli, che bisognerebbe sempre praticare.

di Claudio A. Colombo 

• L’illustrazione a colori è tratta da: www.giornaledibarga.it/2021/01/la-battaglia-di-nikolajewka-lunica-che-non-siete-riusciti-a-battere-347340/

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