Mimmo Franzinelli, Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, Laterza, Bari-Roma, 2022
Nell’ambito della collana Fast Checking: la Storia alla prova dei fatti, Franzinelli propone un lavoro molto serio che ci ricorda come la storia, non a caso sempre più marginale nel mondo politico ma anche nelle università e nel complesso della cosiddetta società civile, sia l’unico antidoto realmente efficace contro la propaganda e i rischi di un restringimento degli spazi di libertà. Il volume è diviso in cinque capitoli: i primi tre si concentrano sul mancato rinnovamento dello Stato italiano nel passaggio dal fascismo alla Repubblica democratica, gli ultimi due affrontano temi inerenti al presente. Franzinelli mostra come, certo in un’altra forma e in misura meno massiccia rispetto al passato, lo squadrismo (clamoroso il caso dell’assalto alla sede nazionale della CGIL del 9 ottobre 2021) e le “lobby nere” siano realtà sottovalutate da buona parte della stampa e dalle autorità e si rivelino tutt’altro che ininfluenti a un’attenta osservazione della galassia della destra, parlamentare e non, dichiaratamente anti-antifascista. Ciò che più colpisce, tornando alla prima parte del libro, è la capacità di magistrati, burocrati, prefetti, poliziotti, uomini dei servizi segreti di riciclarsi dopo la Liberazione. Non solo di evitare l’epurazione, difficile da realizzare al di là delle migliori intenzioni dei suoi promotori, e di sfruttare l’amnistia del 22 giugno 1946 (concepita come mezzo per pacificare il Paese e tradottasi nell’impunità di centinaia di criminali di guerra perché autori di “sevizie non particolarmente efferate”, un ossimoro), ma anche e soprattutto di continuare a contare nei rispettivi settori professionali come se la violenta repressione degli antifascisti, il razzismo dichiarato, le condanne comminate sulla base delle assurde leggi fasciste, le angherie perpetrate sadicamente nei confronti di carcerati e confinati non fossero esistite. Sono tanti gli esempi, illustrati con dovizia di particolari da Franzinelli, su cui ci si potrebbe soffermare ma, in questa sede, è inevitabile ricordarne solo alcuni che, altro tema centrale del libro, talvolta sono stati direttamente coinvolti nei depistaggi organizzati durante la drammatica stagione della strategia della tensione. Guido Leto, prima “regista” dell’OVRA e braccio destro del capo della polizia fascista Arturo Bocchini, quindi dirigente della Divisione Affari generali e riservati (1935-38) e della Divisione Polizia politica (1938-43), infine vicecapo della polizia nella RSI, fu arrestato ma, servendosi degli archivi dell’OVRA come arma di ricatto verso gli antifascisti divenuti informatori del regime, fu scarcerato nel gennaio 1946. Nel 1948 divenne ispettore generale di PS, nel 1951 andò regolarmente in pensione e assunse la direzione della catena Jolly Hotel su iniziativa dell’imprenditore Marzotto. In questa fase della vita, abituato al doppiogioco, in realtà continuò a redigere «rapporti per la direzione della PS su possibili scenari di guerra civile con la previsione di azioni preventive sull’ordine pubblico contro i dirigenti dei partiti e dei sindacati di sinistra» (p. 56), adeguandosi perfettamente ai nuovi scenari determinati dalla Guerra fredda. Scrisse sul settimanale L’Europeo, pubblicò un paio di libri in cui ripercorse la storia sua e dell’OVRA in modo clamorosamente edulcorato insistendo addirittura sulla sua correttezza, sul disinteresse personale mostrato e sul concetto (scivoloso e ambiguo) “di amor di Patria”, nel nome del quale durante il fascismo aveva semplicemente fatto il suo dovere di funzionario dello Stato. Mentre l’epurazione avveniva nei confronti di migliaia di poliziotti provenienti dalla Resistenza, per non parlare dei prefetti (il caso di Ettore Troilo a Milano, licenziato nel novembre 1947, fu clamoroso), anche Marcello Guida tornò rapidamente in auge. Dal 1935 in polizia, nel 1937 divenne vicedirettore della tristemente famosa colonia penale di Ponza a soli 24 anni. Funzionario zelante, eseguì alla lettera le disposizioni impartitegli dal direttore Francescantonio Meo, un fascista fanatico, che gli assegnò il controllo della biblioteca e della censura sulla corrispondenza, un modo particolarmente odioso di condizionare la vita dei detenuti. Dal 1939 a Ventotene, alla fine del 1941 Guida divenne direttore al posto dello scomparso Meo distinguendosi per il cinismo dimostrato verso i detenuti. Tra questi si ricordano Ernesto Rossi, Camilla Ravera, Umberto Terracini, Sandro Pertini, Riccardo Bauer, Giuseppe Di Vittorio, Mauro Scoccimarro e Altiero Spinelli. Distribuì punizioni in modo arbitrario e provocò la morte del manovale Ernesto Bicutri, affetto da tubercolosi e, nonostante le pressanti richieste di Pertini, trasferito in ospedale troppo tardi per essere utilmente curato. Quando alla metà di luglio del 1943 il clima politico iniziò a mutare, Guida fiutò il pericolo e cambiò rapidamente atteggiamento. Alla fine di agosto fu richiamato a Roma e assegnato all’Ufficio politico della questura: contemporaneamente aderì senza convinzione alla RSI ma collaborò con la rete clandestina socialista di Eugenio Colorni, un primo passo concreto per “ripulirsi” in vista di nuovi scenari politico-istituzionali. Già nella primavera del 1945 fu prosciolto dal blando procedimento di epurazione e riprese brillantemente la sua carriera di funzionario di PS. Fu questore a Pavia, Gorizia, Trieste e Torino. Qui la FIAT si avvalse della sua esperienza per schedare i dipendenti: Guida, dietro compenso, anche in quel caso si mosse con grande impegno, accantonando i suoi veri doveri e finendo indagato per comportamenti antisindacali. Nel biennio 1968-69, si distinse per il pugno duro adottato durante le manifestazioni studentesche e operaie. Trasferito a Milano, non mutò le sue abitudini e fu, con Silvano Russomanno (volontario nella RSI e poi nell’Ufficio affari riservati del Viminale, UAR), al centro delle indagini sulla strage di Piazza Fontana orientandole verso gli anarchici (a cominciare da Pietro Valpreda) e, in linea con Federico Umberto D’Amato (alla guida dell’UAR) e Libero Mazza, allontanando la verità appurata molti anni dopo, troppo tardi per punire i veri colpevoli: i neofascisti. Guida ebbe un ruolo determinante anche nell’accreditare la tesi del suicidio di Giuseppe Pinelli, trattenuto illegalmente dopo la strage e volato da una finestra della questura in circostanze mai del tutto chiarite. Anche la morte di Pinelli (ancora nel 1970 accusato della strage da Guida in un rapporto al ministero dell’Interno, p. 86), che nel 1972 costò la vita al commissario di PS Luigi Calabresi, dimostra inequivocabilmente quanto l’ombra lunga dei metodi fascisti si sia allungata sulla Repubblica democratica, in palese violazione dei più elementari diritti sanciti dalla Costituzione. Giunti alla fine del libro, che andrebbe diffuso e discusso nelle scuole e nelle università, si avverte un gusto amaro anche guardando alle considerazioni di Franzinelli sul malsano uso dei simboli e sulla toponomastica, anch’essa gestita con scarsa attenzione per il passato. E, viene da dire, un Paese senza memoria che ignora la storia ha davanti a sé un futuro molto incerto, per non dire cupo.
di Andrea Ricciardi