In questi ultimi decenni, in Italia, si sono moltiplicati gli smemorati e i distratti, ma anche coloro che dai vertici della politica e delle istituzioni, a partire dall’inizio della cosiddetta seconda Repubblica e soprattutto dopo la vittoria elettorale della destra nel settembre 2022, stanno tentando scientemente di modificare in senso riduttivo il significato del 25 aprile e, con esso, della Resistenza al nazifascismo. Per rispondere a questi atteggiamenti, che distorcono la percezione delle radici dell’attualità influenzando non pochi giovani e adulti, in un giorno centrale della nostra storia (così come del nostro presente e ci si augura del futuro), è opportuno riaffermare alcuni concetti fondamentali e ricordare da dove è nata questa festa nazionale tutt’altro che “divisiva” tranne che, s’intende, per i fascisti conclamati e per gli anti-antifascisti impegnati a riscrivere la storia. Il 22 aprile 1946, su proposta dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, leader della DC e alla guida del suo primo esecutivo sostenuto da tutte e sei le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), il luogotenente del Regno d’Italia Umberto II, che sarebbe succeduto al padre Vittorio Emanuele III dopo l’abdicazione del successivo 9 maggio, emanò il decreto legislativo n. 185 («Disposizioni in materia di ricorrenze festive») che, senza possibilità di alcun equivoco, recitava: «A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»

Ma perché proprio il 25 aprile? Perché il 25 aprile 1945, a Milano, fu impartito dal CLN Alta Italia (presenti Pertini per i socialisti, Valiani per il Partito d’Azione, Sereni per i comunisti, Arpesani per i liberali e Marazza per i democristiani) l’ordine d’insurrezione generale che il giorno prima era stato approvato dal più ristretto Comitato insurrezionale, composto da Valiani, Sereni e Pertini (ai quali si aggiunse Longo) e nominato alla fine di marzo dallo stesso CLNAI, al vertice del quale il socialista Morandi aveva sostituito Pizzoni. Il 25 aprile 1945, dunque, il CLNAI fu delegato dal governo di Roma presieduto da Bonomi ad assumere i pieni poteri «civili e militari», esercitati dai CLN regionali e provinciali. In quella circostanza furono istituiti i consigli di gestione delle aziende e, in ogni provincia, i tribunali di guerra dal comando di zona del Corpo Volontari della Libertà (CVL), costituito il 19 giugno 1944 allo scopo di coordinare le operazioni delle varie formazioni partigiane, poste sotto un unico comando [1]. Il 25 aprile fu anche stabilita la pena di morte per i gerarchi del fascismo, non senza avviare una trattativa con Mussolini al quale fu chiesta la resa incondizionata presso la sede arcivescovile di Milano, presenti il cardinale Schuster in veste di mediatore e i vertici del CLNAI rappresentati da Arpesani, Pertini, Marazza, Lombardi per i socialisti (mancava un rappresentante comunista) e Raffaele Cadorna, comandante del CVL [2]. I vicecomandanti “politici” del CVL erano i capi delle formazioni garibaldine (comuniste) e gielliste (azioniste), Longo e Parri, affiancati da Pertini per i socialisti, Mattei per i democristiani e Argenton per i liberali.  

A Mussolini furono concesse due ore per decidere. Ma il duce, dopo aver chiesto a Cadorna un’ora per comunicare la propria scelta, innervosito dalla notizia che i tedeschi stavano a loro volta trattando le condizioni della resa, non mantenne la promessa. Fuggì tentando di raggiungere la Svizzera aggregandosi il 26 aprile da Como a una colonna tedesca, fermata dai partigiani a Musso, vicino a Dongo, il giorno dopo. Alla colonna fu concesso di ripartire a condizione che ai partigiani fosse consegnato Mussolini, che si era travestito da militare tedesco per sfuggire ai controlli ma che era stato ugualmente riconosciuto, con i 51 fascisti che stavano tentando di espatriare come lui. Il 28 aprile, tutti i fascisti furono consegnati all’inviato del CLNAI Walter Audisio (comunista) e Mussolini fu giustiziato con l’amante Claretta Petacci. La rabbia popolare, a lungo compressa, esplose e i cadaveri furono esposti a Milano il giorno dopo in piazzale Loreto dove, il 10 agosto 1944, 15 partigiani (prelevanti all’alba dal carcere di San Vittore) erano stati fucilati dai fascisti per rappresaglia ed esposti fino a sera in segno di monito verso la popolazione. L’oltraggio ai cadaveri del duce e della sua amante fu criticato da Valiani e in modo particolare da Parri, che parlò di «macelleria messicana». Ma quello spettacolo, poco edificante, si configurò come un istintivo sfogo di una parte della gente comune, figlio dei peggiori istinti scatenati da anni di guerra, di privazioni, di persecuzioni e di crimini perpetrati dai fascisti [3].

Lo stesso 28 aprile, nel quartier generale alleato a Caserta, i tedeschi firmarono la resa che, tuttavia, sarebbe entrata in vigore alle 14.00 del 2 maggio dando così il tempo a moltissimi soldati e ufficiali del III Reich ormai in rotta di lasciare il Paese. Il 30 aprile, giorno del suicidio di Hitler a Berlino, riferendosi all’esecuzione della condanna a morte del duce, il CLNAI in un comunicato la descrisse come «la conclusione necessaria di una fase storica» e «la premessa della rinascita e della ricostruzione» del Paese. L’ordine d’insurrezione del 25 aprile rappresentò dunque l’atto formale con cui, dopo che diverse città si erano già liberate (per esempio Bologna), i vertici politici antifascisti del Nord, riconosciuti da Roma come organo di governo nel CLNAI, fecero scattare “ufficialmente” la spallata finale alla RSI e agli occupanti tedeschi, sebbene varie altre città furono liberate (a caro prezzo) nei giorni successivi al 25 aprile dai partigiani, sempre con il determinante aiuto degli Alleati [4]. Le questioni inerenti alle regioni del confine nord-orientale, connesse con i rapporti con la Jugoslavia di Tito, sarebbero rimaste a lungo drammaticamente aperte. Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata costituirono ferite difficili da rimarginare nei successivi decenni.       

La ricorrenza del 25 aprile fu celebrata negli anni successivi, durante la delicata fase di passaggio all’Italia repubblicana e democratica. Dal 27 maggio 1949, dunque nella fase iniziale della Guerra fredda, con la legge 260 la ricorrenza fu istituzionalizzata stabilmente quale festa nazionale. Nel frattempo l’Italia era appunto divenuta una Repubblica dopo il referendum del 2 giugno 1946, giorno in cui era stata eletta l’Assemblea Costituente e per la prima volta avevano votato a livello nazionale le donne, rendendo il suffragio davvero universale. Il 1° gennaio 1948, la Costituzione repubblicana (scritta dai rappresentanti di tutte le forze antifasciste, è bene ribadirlo) era entrata in vigore e la democrazia italiana aveva iniziato il suo lungo e tormentato percorso. Un percorso non privo di ostacoli determinati dalle difficoltà socio-economiche figlie della guerra; dall’instabilità dovuta a un clima di violenza strisciante alimentato soprattutto da organizzazioni neofasciste, oltre che dalle inevitabili vendette personali e politiche [5]; dalla mancata epurazione connessa con le conseguenze dell’amnistia firmata da Togliatti e varata dal I Governo De Gasperi [6]; dal mancato ricambio delle classi dirigenti e dalla persistenza di pesantissime incrostazioni del regime in settori chiave della vita pubblica come la magistratura, le forze armate, i servizi segreti, la burocrazia. Si consideri la centralità di prefetti e questori che, in gran parte, avevano fatto carriera sotto il fascismo e che, in alcuni casi (si pensi tra gli anni Cinquanta e Ottanta alla gestione dell’ordine pubblico e, in primis, agli inquietanti depistaggi delle inchieste sulla strategia della tensione ormai acclarati), avrebbero agito in modo per nulla conforme alle leggi dello Stato democratico e ai principi della Costituzione [7].

Nel dicembre 1946, inoltre, era nato il Movimento Sociale Italiano, erede dichiarato della Repubblica di Salò. Il partito di Michelini, Almirante e Rauti (poi leader del movimento eversivo Ordine Nuovo, come chiarito da sentenze passate in giudicato e dalla storiografia, protagonista della lunga strategia della tensione [8]), lungi dall’essere vittima di persecuzioni giudiziarie e politiche, giocò un ruolo molto importante dentro e fuori dal Parlamento. Sostenne governi a guida DC (si pensi a Zoli nel 1957 e, nel 1960, alla breve ma molto inquietante esperienza di Tambroni [9]), fu determinante nell’elezione di presidenti della Repubblica (Segni nel 1962 e Leone nel 1971) e rivendicò fieramente le sue radici anti-democratiche, avvalendosi proprio dei principi che contestava per guadagnare spazio nella società nel nome della libertà (!), un autentico paradosso. Eppure ancor oggi, alcuni suoi vecchi rappresentanti che fanno politica sotto altre sigle (la fiamma dell’MSI, riconducibile alla tomba di Mussolini e chiaro riferimento alla continuità tra la RSI e il movimento del 1946 trasformato nel 1994 da Fini in Alleanza Nazionale, è rimasta nel simbolo di Fratelli d’Italia) lamentano uno scarso rispetto per la loro storia, alternando l’aggressività verbale a una sorta di grottesco vittimismo.

Intanto i “patrioti” della destra, vecchi e nuovi, continuano a manipolare la storia con varie forme di propaganda: capovolgono il significato di episodi centrali avvenuti durante la guerra come la strage delle Fosse Ardeatine, successiva all’attentato di via Rasella ideato dai GAP che provocò la morte di 33 soldati tedeschi di origine sudtirolese tutt’altro che inoffensivi [10]. All’organizzazione della rappresaglia, di cui si seppe soltanto a cose fatte, collaborarono attivamente i fascisti italiani indicando decine di nomi di detenuti antifascisti ed ebrei (75), non solo italiani. I 335 martiri, dunque, furono uccisi dai nazisti non perché italiani, come ha recentemente dichiarato la presidente del Consiglio Meloni, ma perché antifascisti. Alla lista fu aggiunto qualche detenuto comune e una decina di civili, arrestati nelle vicinanze di via Rasella subito dopo l’attentato dei GAP.

I “difensori della nazione”, tra cui quelli che fino a qualche anno fa parlavano apertamente di secessione e non riconoscevano l’unità nazionale, alludono all’antifascismo storico come se fosse stato una prerogativa dei comunisti. Nella sostanza negano (contro ogni evidenza storica, anche guardando all’appartenenza politica dei partigiani: il 50% riconducibili al PCI, il 30% composto da azionisti inquadrati nelle Brigate Giustizia e Libertà e il restante 20% costituito da cattolici, socialisti, monarchici e altri) che la Resistenza, di cui furono parte gli Internati Militari Italiani (IMI), sia stata un fenomeno plurale [11]. S’impegnano in ricostruzioni tanto ambigue da far immaginare ai loro sostenitori (o almeno ai non pochi  che ignorano l’alfabeto della storia patria) che la Costituzione, base del nostro ordinamento democratico e sulla quale i ministri del Governo Meloni hanno giurato, sia da riformare alla radice e che alcune sue parti siano ormai tanto inefficaci quanto irrilevanti, così come sono presentate le forze politiche che l’hanno elaborata e materialmente scritta: azionisti, comunisti, socialisti, liberali, cattolici, socialdemocratici, repubblicani e altre forze minori.

Tra silenzi imbarazzanti e dichiarazioni molto inquietanti, che hanno visto il presidente del Senato La Russa (seconda carica dello Stato) distinguersi tra i principali protagonisti di questa escalation verbale, si cerca di far dimenticare il passato o di piegarlo ad esigenze di parte, che non hanno davvero alcun fondamento storico. Se la memoria non può essere condivisa per ovvi motivi, il tessuto civile di un paese è solido soltanto se non sono messi in discussione i pilastri della sua storia, di cui la memoria stessa è una fonte e non certo un sinonimo. L’unità, ai tempi del cosiddetto arco costituzionale (dal quale non erano stati esclusi ma da cui si erano autoesclusi i neofascisti dell’MSI, che non potevano riconoscere l’universo valoriale antifascista su cui era stata edificata una nuova idea di patria dopo una fase in cui non era esistito uno Stato sovrano [12]), derivava dalla condivisione di principi che tutti i partiti antifascisti, per nulla allineati tra di loro su scelte politiche ed economiche fondamentali durante la seconda metà del Novecento, neanche nelle fasi più cupe della Guerra fredda hanno messo in discussione. L’antifascismo era e rimane la radice del nostro vivere civile, chi non può dirsi antifascista perché si riconosce in altri tipi di eredità non è adatto a governare adeguatamente l’Italia democratica, anche se è stato legittimato dalla vittoria delle elezioni.

Durante il ventennio e dintorni, ancor prima delle leggi razziali e dell’ingresso in guerra al fianco dei nazisti, qualcuno era dalla parte sbagliata e altri da quella giusta, scelta che troppi hanno pagato con il carcere, il confino, l’esilio, la povertà, ma anche con la vita e con le torture. Tra i tanti esempi da non dimenticare, quelli di tre partigiani attivi in Piemonte: Anselmo Torchio, Piero Vignale ed Ermete Voglino detto Don Ciccio. All’alba del 13 marzo 1945, detenuti presso il carcere di Asti per la loro attività nella Resistenza, essi furono condotti da un plotone delle Brigate Nere (italiani fascisti alleati di ferro dei nazisti) [13] al cimitero cittadino e fucilati contro il muro di cinta dello stesso carcere, come rappresaglia per la tentata evasione di altri partigiani. Ermete Voglino, commerciante di 30 anni, già sergente maggiore di artiglieria alpina, decorato con la Croce di guerra e proposto per due medaglie d’argento al valor militare, dopo essere stato arrestato tre volte (il 16 febbraio l’ultima) e aver subito torture dalle stesse Brigate Nere, venne processato il 2 marzo dal tribunale militare straordinario di Asti. Un procedimento farsa messo in atto da chi non era legittimato a pronunciarsi perché non rispondeva alle istituzioni di un Paese sovrano bensì ai frammenti della RSI, uno Stato fantoccio sostanzialmente al servizio dei nazisti ormai in rotta, che non solo aveva ucciso migliaia d’italiani antifascisti, ma che aveva anche collaborato all’attuazione della Shoah [14].

Poco prima di morire, Voglino scrisse una breve lettera ai parenti più stretti, che vale la pena di riprodurre per intero.

Miei cari, pochi istanti prima di morire vi mando questo mio ultimo saluto. È l’ultimo e per questo credo sia forse il migliore. Siate forti, io sono calmo, è la coscienza di non aver mai fatto nulla di male, di aver rispettato tutti [e] tutto. Perdono a [sic] chi mi ha portato fino a questo punto e che il Signore lo perdoni. Anche voi scordate i dolori che vi ho dato e perdonatemi. A tutti coloro che mi hanno voluto bene vada il mio saluto e l’augurio di una vita felice. Vi bacio, vi stringo forte a me; che Iddio vi protegga sempre. Bruno sia sempre buono e faccia sempre bene; che Aldo vi dia sempre ascolto. Vi bacio ancora tanto vi stringo forte a me, ancora baci. Vostro Ermete [15].

Sono molte le lettere strazianti di questo tipo, scritte quasi sempre da antifascisti poco più che ventenni ma anche da dirigenti politici meno giovani come gli azionisti Guglielmo (Willy) Jervis, Leone Ginzburg, Paolo Braccini e Tancredi (Duccio) Galimberti, torturati e uccisi da nazisti tedeschi e fascisti italiani [16], portatori (questi ultimi) di un’idea di patria in cui parole abusate, come lealtà e onore (a cui si rifanno orgogliosamente anche i neofascisti del III millennio), non potevano in realtà trovare alcuno spazio. Questi morti hanno, con gli Alleati, regalato la libertà a tutte le italiane e gli italiani, ecco perché il 25 aprile è, dal 1946, la festa di tutti. Si spera che le donne e gli uomini del Governo Meloni e dell’ampia maggioranza che lo sostiene in Parlamento, pur essendo espressione di una ristretta minoranza del Paese se si considera il sempre più alto livello di astensionismo e i consensi raccolti dalle opposizioni, non lo dimentichino e si sforzino di mantenere un contegno dignitoso. Le ragioni della libertà, oggi come allora, sono da una parte sola: quella degli antifascisti.    


[1] A proposito della diffusione della stampa libera e del controllo di Radio Milano, ribattezzata Radio Milano Liberata dagli antifascisti, oltre che delle sorti del «Corriere della Sera» nei giorni successivi al 25 aprile, cfr. Giancarlo Tartaglia, Ritorna la libertà di stampa. Il giornalismo italiano dalla caduta del fascismo alla Costituente (1943-1947), il Mulino, Bologna 2020, pp. 264-270.  

[2] Sull’insurrezione e sull’incontro presso la sede arcivescovile di Milano, con ampi stralci delle successive ricostruzioni di Cadorna, Marazza e del cardinale Schuster, cfr. Carlo Greppi, 25 aprile 1945, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 144-167.

[3] Per una ricostruzione della fine di Mussolini e dell’epilogo di Piazzale Loreto, con vari riferimenti ai giorni precedenti, cfr. Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, Bari-Roma 2019, pp. 491-502. Le vittime civili delle stragi nazifasciste in Italia furono oltre 23.400. Sulla violenza, con riferimento particolare ma non esclusivo a quella praticata dai nazifascisti verso i partigiani, cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 413-514.

[4] Per un’approfondita cronologia degli eventi dal 29 marzo al 2 maggio 1945, cfr. Franco Pedone, Storia della Resistenza in date, prefazione di Franco Della Peruta, Teti Editore, Milano 1995, pp. 182-212. Sul numero dei partigiani attivi durante la Resistenza, non vi è uniformità di vedute. È assodato che essi aumentarono nel tempo, cioè a partire dai primi nuclei dell’autunno 1943, e che nell’aprile 1945 erano poco più di 200.000. Su questi dati, sulla struttura delle brigate e sulla composizione sociale dei combattenti, cfr. Gianni Oliva, I vinti e i liberati. 8 settembre 1943-25 aprile 1945. Storia di due anni, Mondadori, Milano 1994, pp. 362-365. Fu importante anche il ruolo dei Gruppi di Difesa della Donna, nati a Milano nel novembre 1943 e riconosciuti ufficialmente dal CLN, che li incorporò nelle sue organizzazioni, nell’estate del 1944.

[5] Sulle proporzioni e il senso della “resa dei conti” immediatamente successiva alla Liberazione, ampiamente strumentalizzata dai fascisti e dai neofascisti per indebolire le ragioni dell’antifascismo e della Resistenza, cfr. Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 98-99.  

[6] Sulle tragiche conseguenze, per molti aspetti surreali, del provvedimento pensato per pacificare il Paese che, tuttavia, si tradusse nella scarcerazione di numerosissimi fascisti autori di terribili crimini come la tortura, lo stupro, l’omicidio e la strage, cfr. Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini di guerra, Mondadori, Milano 2006.  

[7] Su questi temi, sui quali aveva riflettuto Claudio Pavone a proposito della continuità dello Stato tra fascismo e Italia repubblicana, cfr. Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi, Torino 2018 e Mimmo Franzinelli, Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, Laterza, Bari-Roma 2022.  

[8] Tra gli altri, cfr. Aldo Giannuli, Elia Rosati, Storia di Ordine Nuovo, Mimesis, Milano 2017, che prende in esame la storia del movimento dalla nascita (dicembre 1969) al 1974, l’anno successivo al suo scioglimento promosso dal ministro dell’Interno Taviani.

[9] Cfr. Mimmo Franzinelli, Alessandro Giacone, 1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile. Il racconto di una pagina oscura della Repubblica, Mondadori, Milano 2020. 

[10] Cfr. Giovanni De Luna, Quel battaglione Bozen, in «La Stampa», 1 aprile 2023. Sulla strage delle Fosse Ardeatine, sul suo rapporto con l’attentato compiuto dai GAP comunisti in via Rasella e sui falsi storici che sono arrivati fino a noi, a cominciare dalla mai avvenuta richiesta scritta di resa agli autori che non avrebbero risposto provocando implicitamente la rappresaglia, cfr. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito, Donzelli, Roma 2005, nuova edizione accresciuta con un cd-audio (I° edizione 1991).    

[11] Tra i militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre vi fu Alessandro Natta, ex-segretario del PCI che, nel 1954, si rivolse alla casa editrice del partito, Editori Riuniti, per pubblicare un volume attraverso il quale, secondo le parole dello stesso Natta, intendeva provare «che la prigionia nei lager tedeschi era parte integrante della resistenza antifascista». Il libro, tuttavia, vide la luce molti anni più tardi in una stagione in cui i sacrifici degli oltre 600.000 militari italiani internati erano divenuti oggetto di studi più approfonditi e la memorialistica era stata maggiormente valorizzata. Cfr. Alessandro Natta, L’altra Resistenza, introduzione di Enzo Collotti, Einaudi, Torino 1997. Cfr. anche Mario Avagliano, Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), il Mulino, Bologna 2021. È importante ricordare anche il contributo del Corpo italiano di Liberazione (CIL), l’esercito del Regno del Sud costituito nell’aprile 1944 che combatté al fianco degli Alleati. Sulla Resistenza interpretata come fenomeno plurale sul piano politico-culturale ma anche socio-economico, finalizzato a salvare concretamente la patria attraverso una differente declinazione della sua identità, cfr. Giovanni De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, Milano 2015.        

[12] Per un’interpretazione della Resistenza innanzitutto come risposta dei partigiani al vuoto di sovranità e di potere figlio dell’8 settembre, al quale seguì la spaccatura del Paese occupato da eserciti stranieri e gestito da entità statuali non riconosciute dalle bande, viste come costellazioni di singoli sovrani capaci, prim’ancora della loro politicizzazione da parte dei partiti, di governare porzioni di territorio come le Repubbliche della Val D’Ossola, della Carnia e di Montefiorino influenzando indirettamente il processo costituente, che non si sarebbe esaurito nell’attività dell’Assemblea Costituente, cfr. Giuseppe Filippetta, L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione, Feltrinelli, Milano 2018.  

[13] Sulle Brigate Nere e, in generale, sulle violenze delle diverse bande attive nella RSI, oltre che della X Mas guidata dal “principe nero” Junio Valerio Borghese, cfr. Mimmo Franzinelli, Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945, Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 313-408. Sulle stragi perpetrate da nazisti e fascisti della RSI nei confronti dei civili, vessati anche dai bombardamenti alleati e coinvolti nei duri scontri tra fascisti e antifascisti, cfr. Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 233-249. Sui mancati processi ai criminali di guerra autori delle stragi in Italia, determinati dall’occultamento per motivi politici di centinaia di dossier scoperti nel 1994 dal procuratore militare Antonino Intelisano, che si stava occupando del processo contro Erich Priebke, cfr. Franco Giustolisi, L’Armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.   

[14] Gli ebrei deportati furono oltre 7.200. Da Roma 1024 (di cui circa 200 bambini) dopo il rastrellamento tedesco del ghetto avvenuto il 16 ottobre 1943, solo 16 tornarono in Italia.  

[15] Cfr. Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di Pietro Malvezzi e Giovanni Pirelli, prefazione di Enzo Enriques Agnoletti, Einaudi, Torino 1965, p. 390. La prima edizione del volume, che risale a un decennio prima, uscì con la prefazione di Thomas Mann.

[16] Ivi. Cfr. anche Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza 1943-1945, a cura di Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2005 e Mario Avagliano, Marco Palmieri, Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945, Einaudi, Torino 2012.

di Andrea Ricciardi

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