Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi, Torino 2017

 Il volume di Davide Conti non è una novità editoriale in senso stretto, ma il suo valore è tale da renderne opportuna una rilettura a distanza di qualche anno. Gli “uomini di Mussolini” al centro di questa ricerca sono quei funzionari, spesso di grado molto elevato e altrettanto spesso presunti (in quanto mai processati) criminali di guerra operativi sia nei Balcani sia in Africa che, invece di essere collocati a riposo e rimossi perché legati alla dittatura, occuparono posizioni fondamentali all’interno dello Stato dopo la  Liberazione. La mancata epurazione è un tema ampiamente dibattuto, sia dagli storici sia dalla pubblicistica, così come sono ormai noti i nomi e i ruoli di chi scampò ad ogni grado di giudizio nazionale e internazionale. Il fenomeno del resto, seppure con profonde differenze, riguardò anche la Germania e i collaborazionisti del regime di Vichy in Francia.

L’approccio di Conti al tema, tuttavia, riporta la ricerca alla domanda “originaria” alla base di ogni ipotesi storiografica: indagare cioè i motivi per cui non solo non vi fu epurazione, ma addirittura si procedette ad una riabilitazione “operativa” di personaggi organici al regime fascista. Perché ciò fu possibile, a quali strategie rispose, quali furono i motivi di una vera e propria “epurazione al contrario”,come venne chiamata l’espulsione dai gangli dello Stato, e in particolare dalle forze di polizia e militari, di migliaia di partigiani. Quali le questioni sociali, economiche e politiche intuibili già sul finire del 1944 che sbarrarono la strada a ipotesi di radicali trasformazioni. E, ancora, quali i temi legati sia al quadro internazionale sia a dinamiche prettamente autoctone.

Sono tutte questioni su cui l’autore s’interroga e che permettono di ricostruire il «nesso tra impunità per i crimini di guerra e il fallimento dell’epurazione». Ciò consente di non appiattire l’analisi storica sul sempre evocato “tradimento della Resistenza” e, nel contempo, di non lasciarsi intrappolare nella “storiografia dei delusi”, come ricordava già Claudio Pavone. Si tratta cioè di non limitarsi a registrare la persistenza di uomini e apparati del regime nel secondo dopoguerra, né di porre «al centro della riflessione la portata giudiziaria delle vicende», ma di analizzare «il processo e le modalità di cesura nella transizione dall’assetto monarchico-fascista a quello repubblicano-democratico». Diviene centrale, quindi, la dimensione storica dei rapporti di potere così come si delinearono già tra il 1943 e il 1944, per poi definirsi con chiarezza al termine della guerra e negli anni successivi. Né si possono tralasciare «i profondi mutamenti intervenuti in Italia dalla fine del secondo conflitto mondiale» poiché, come – di nuovo – ricordava Claudio Pavone, «continuità non fu sinonimo di immobilismo» (pp. 5-6). Conti, dunque, utilizzando una gran mole di documenti, ricostruisce i passaggi politici, sociali, economici che portarono alla continuità dello Stato, individuando tuttavia anche il passaggio, seppur estremamente angusto, attraverso cui poterono transitare le istanze di trasformazione del paese, come testimonia la scrittura e l’approvazione della Costituzione. Le conseguenze della rottura dell’unità antifascista (ma non costituzionale), sia a livello nazionale che internazionale, spinsero le classi dirigenti conservatrici e gli Alleati, una volta vinto il nazifascismo, a individuare nell’anticomunismo un collante funzionale allo scenario della Guerra fredda. Il nuovo assetto condizionò e plasmò l’evoluzione del panorama sociale e politico italiano, ridisegnando i rapporti di forza tra le classi sociali e le rispettive rappresentanze politiche e rese possibile – anzi, necessario, dal punto di vista dei governi post resistenziali – utilizzare, nei settori chiave della sicurezza dello Stato, personale di provata fede anticomunista

In questo senso, seguire le biografie di ispettori di polizia (Ettore Messana, Ciro Vorrdiani), colonnelli dei carabinieri (Ugo Luca), generali (Giovanni Messe, Taddeo Orlando, Adolfo Infante, Gastone Gambara, Pirzio Biroli), prefetti (Giovanni Ravalli, Temistocle Testa), ministri (Achille Marazza), sino ai casi più noti del generale Mario Roatta e Giuseppe Pièche, consente di analizzare i principali «eventi del dopoguerra italiano che segnarono gli anni della transizione alla democrazia» (p. 4). La presenza di costoro rivela di volta in volta gli snodi chiave della transizione italiana: le tensioni alimentati dai monarchici dopo il referendum del 2 giugno 1946 e le trame golpiste di settori vicini alla casa reale; la strage di Portella della Ginestra e i rapporti tra lotte contadine e sindacali brutalmente represse; l’indipendentismo siciliano e la mafia; la riorganizzazione degli apparati statali in chiave anticomunista negli anni più duri della Guerra Fredda; la nascita di strutture pubbliche e gruppi privati i cui membri furono coinvolti nei progetti eversivi degli anni Settanta.

Il contesto internazionale e la posizione italiana nello scenario bellico, che le assegnava inevitabilmente il ruolo di paese sconfitto al quale le clausole di Yalta e dell’armistizio impedivano ogni reale autonomia, da un lato; il passaggio fondamentale del primo governo Badoglio, che postulò nei fatti l’assoluta continuità dello Stato dall’altro, furono la cornice entro cui le forze della Resistenza si trovarono ad agire. Cornice che rese difficilissime, se non impossibili, le trasformazioni dell’assetto sociale ed economico del paese cui una parte consistente del movimento resistenziale aveva aspirato. A ciò si aggiunsero fattori endogeni e strutturali: il comportamento delle classi dirigenti e dei ceti produttivi, industriali e agrari, arroccati su posizioni ostili alle istanze del movimento operaio e contadino, dimostrando il proprio legame intrinseco con il fascismo. La scelta della Democrazia Cristiana di avocare a sé la rappresentanza dei ceti imprenditoriali e di quell’ampia fascia di opinione pubblica che aveva appoggiato il fascismo e non si riconosceva nei valori della Resistenza, raccogliendo la necessità di inserire le masse nello Stato democratico, seppur in chiave conservatrice.  E ancora, la posizione anomala del Partito Comunista, che si fece carico della rappresentanza politica e sociale delle classi lavoratrici ma che dovette scontare il “peccato originale” del legame strettissimo con l’Unione Sovietica. In questo contesto, dalla fine della guerra e per tutti gli anni Cinquanta, il movimento operaio e contadino venne indicato come il “nemico interno”, una “quinta colonna” da combattere e neutralizzare. Il conflitto sociale venne dunque riportato ad una dimensione di mero ordine pubblico e, in quanto tale, violentemente gestito dagli apparati di polizia dello Stato appositamente riorganizzati. Riutilizzare personale di sicura fede anti-anticomunista fu  quindi una scelta consapevole e coerente da parte della classe dirigente conservatrice, cui non mancò l’approvazione e il sostegno degli Alleati e quello, altrettanto importante, del Vaticano. Cardine della riorganizzazione degli apparati repressivi fu il Ministro degli Interni Mario Scelba, il quale reintrodusse nei posti chiave degli organi di polizia personaggi ambigui e torbidi. Quegli “uomini di Mussolini” che, con le loro reti di relazioni intessute in decenni di attività, furono perfettamente funzionali alla gestione del conflitto sociale in termini di repressione e di ordine pubblico. Il costo pagato dalle classi popolari fu drammatico.

La complessità dell’analisi dell’autore coglie inoltre la profonda e irrisolta contraddizione delle classi dirigenti degli anni del Centrismo, che si esplicitò nel rapporto con la Costituzione. La carta non fu messa in discussione, né se ne disconobbe l’antifascismo strutturale, ma venne di fatto “congelata” soprattutto nei previsti organi di controllo (la Corte Costituzionale, la Corte dei Conti, l’autonomia regionale), garantendo all’esecutivo ampi spazi di discrezionalità. Nella continuità dello Stato si esplicitò quindi, nel quadro storico che vide l’esaurirsi della spinta delle sinistre sugellata dai risultati elettorali del 1948, la risposta della classe dirigente alla necessità di ricomporre le fratture storiche del paese, tra cui la guerra civile appena conclusa. Inoltre, nella proiezione nazionale di una frattura internazionale, il canale della continuità operò in chiave conservatrice come normalizzazione di un conflitto altrimenti incomponibile, lasciandosi peraltro sedurre in alcuni casi da derive autoritarie. Ciò nonostante, proprio per evitare di identificare la continuità con un presunto immobilismo,  va riconosciuto che nella transizione dal fascismo alla democrazia «le due principali culture politiche assolsero la funzione storica di nazionalizzazione delle masse che la borghesia liberale non era stata in grado di compiere» (p. 24-25).

Il volume è dunque assai denso e ricco di spunti importanti, un invito a riprendere i temi fondanti e fondamentali della storia repubblicana. Ciò con cui sarebbe opportuno fare i conti, quindi, non è tanto l’aspetto giudiziario della mancata epurazione (che pure è rilevante), quanto la difficoltà e la complessità della transizione dal fascismo alla Repubblica, quel passaggio strettissimo in cui si dovettero ricomporre fratture in grado di mettere a rischio l’esistenza stessa del paese, compiendo scelte forse inevitabili ma certo discutibili. Ciò significherebbe anche affrontare le dicotomie strutturali che caratterizzano la storia italiana, facendo ripartire una riflessione profonda su quelle scelte e su quelle fratture che ancora ci attanagliano.

di Paola Signorino

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