Nei primi mesi del 1943, il regime fascista appare indebolito sotto vari aspetti inerenti sia al quadro interno che a quello internazionale. Mentre l’antifascismo prosegue nell’opera di riorganizzazione (a gennaio nasce il Movimento di Unità Proletaria di Basso, Bonfantini, Dagnino, Lucio Luzzatto e altri con l’obiettivo di arrivare alla costituzione di un nuovo partito socialista che superi le antiche divisioni), gli Alleati definiscono nella conferenza di Casablanca le strategie del prossimo futuro. Roosevelt e Churchill decidono che la guerra proseguirà fino alla resa incondizionata dei nazifascisti e che, completata la conquista della Tunisia, le truppe alleate sbarcheranno in Sicilia. Dopo l’ingresso degli inglesi a Tripoli, i tedeschi guidati da Rommel si ritirano proprio sul confine tunisino determinando così la definitiva perdita del controllo italiano sulla Libia.

All’inizio di febbraio, il capo di stato maggiore generale Ugo Cavallero viene sostituito dal suo parigrado gen. Vittorio Ambrosio. Anche il governo cambia faccia: alcuni gerarchi, critici verso Mussolini, sono allontanati da ministeri “chiave”. Ciano lascia il ministero degli Esteri ed è nominato ambasciatore presso la Santa Sede, Mussolini non lo sostituisce e, oltre agli esteri, continua a tenere per sé gli interni e i tre ministeri militari: guerra, marina e aeronautica. Il rimpasto di governo, tra l’altro, vede l’allontanamento di Bottai dal ministero dell’Educazione Nazionale e di Grandi dal ministero della Giustizia (anche se non dalla meno rilevante presidenza della Camera dei fasci e delle corporazioni). Mentre Milano è colpita da un violento bombardamento, le scelte di Mussolini indicano che il duce sta procedendo ad un ulteriore accentramento del potere nelle sue mani: la sostituzione di esponenti autorevoli del regime, di cui sembra non fidarsi più, con alcuni suoi fedelissimi prova che egli è più isolato mentre le sempre più difficili condizioni del paese (il 1° marzo l’erogazione di energia elettrica per usi domestici e per l’illuminazione è ridotta del 25%, gli effetti dei crescenti bombardamenti sono sempre più pesanti per la popolazione) portano inevitabilmente a un’ulteriore diminuzione del consenso.

Anche l’antifascismo in esilio compie in questa fase passi in avanti: a Lione PCd’I, PSI e GL, rappresentati da Giorgio Amendola, Dozza, Saragat e Lussu, firmano un accordo con il quale confermano l’unità d’azione nella lotta contro il fascismo e indicano, forzatamente in modo generico, che per la futura forma statale italiana si ricorrerà alla “volontà popolare liberamente espressa”. Ma, al di là delle formule e dei comunicati diffusi, ciò che conta è la sostanza politica dell’incontro che testimonia la ferma volontà da parte delle forze di sinistra, sia pure non del tutto allineate tra di loro e impegnate anche nella salvaguardia delle proprie radici e specificità, di condurre una lotta unitaria contro il nazifascismo, dentro e fuori dai confini nazionali, fino alla vittoria.

Il 5 marzo gli operai della FIAT Mirafiori entrano in sciopero: nelle città le condizioni di vita hanno creato problemi di approvvigionamento di tutti i generi di prima necessità e, di fronte al moltiplicarsi dei bombardamenti, la parola d’ordine è “pace e pane” mentre sono richieste indennità di sfollamento e di carovita. La protesta, con il passare dei giorni, si estende oltre i confini delle fabbriche e interessa un sempre maggior numero di zone di Torino per poi, dal 23 marzo, arrivare a Milano (Pirelli, Falck, Ercole Marelli) e a tutta la Lombardia. La repressione delle proteste porterà a circa 2000 arresti ma, alla fine di aprile, verrà comunque ottenuto dagli operai un aumento salariale. Le forze antifasciste stabiliscono contatti sempre più stretti tra di loro, alcuni dirigenti del PCd’I (Amendola, Negarville e Roasio) rientrano in Italia con l’obiettivo di potenziare l’attività clandestina mentre azionisti, cattolici e liberali (oltre ai socialisti che si uniranno nel PSIUP ad agosto) a loro volta si preparano per realizzare un “salto di qualità” nella lotta contro il regime.

Mussolini e Hitler, il 7 aprile, s’incontrano in Austria e dimostrano di avere una visione diversa dell’andamento del conflitto. Mussolini propone un armistizio con Stalin, con l’obiettivo di rinunciare al fronte orientale e di concentrare gli sforzi su quello meridionale. Hitler, nonostante il tracollo dell’Asse in URSS rappresentato dalla resa di Von Paulus del precedente 2 febbraio, dopo oltre due mesi dalla battaglia generata dalla controffensiva sovietica a Stalingrado, rifiuta questa prospettiva in precedenza già avanzata da Ciano. Ma promette che saranno inviate truppe tedesche sia in Tunisia, per difendere le posizioni (tuttavia le truppe italo-tedesche si arrenderanno il 13 maggio), sia in Italia. Ma il fascismo scricchiola sempre di più: anche il capo della polizia Carmine Senise e il segretario del PNF Vidussoni vengono sostituiti. Mutano pure gli equilibri nella Confindustria: Giuseppe Volpi di Misurata è sostituito alla presidenza da Giovanni Balella mentre la maggior parte dei vertici appare sempre più critica verso la linea di Mussolini, di cui (pur evitando aperte prese di posizione) ci si augura il rovesciamento, che potrebbe coincidere con la firma di una pace separata con gli Alleati.

Anche la corona appare ormai lontana dagli antichi sogni di grandezza. Vittorio Emanuele III capisce, sia pure tardivamente, che nel paese qualcosa è definitivamente cambiato e che, se vuole conservare una reale influenza dopo il conflitto, deve contemplare una rottura con Mussolini e con la Germania nazista. La rottura verrà dopo qualche mese, con il voto del Gran consiglio del fascismo e la sostituzione di Mussolini con Badoglio. Ma il re e i Savoia dovranno rinunciare all’idea di contare ancora qualcosa il 2 giugno 1946: la misura, per la maggior parte delle donne e degli uomini quel giorno divenuti cittadini, era colma.

di Andrea Ricciardi

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