GLI ARCHIVI DELL’EMIGRAZIONE ANTIFASCISTA. UN CONVEGNO PER UN NUOVO APPROCCIO ALLA STORIA
Storia e memoria sembrano termini spesso conflittuali che faticano a trovare un punto d’incontro. «Il conflitto è quello antico e sempre nuovo – ha scritto di recente Adriano Prosperi – tra storia come conoscenza accertata del passato e memoria come funzione psichica, dunque viva e palpitante ma nello stesso tempo finestra mentale più aperta all’errore e alla falsificazione». Come conciliare dunque la necessità del ricordo con la presa di coscienza del dimenticato? Partendo dal presupposto di come spesso «l’ignoranza del passato si risolva nell’incapacità di affrontare con adeguate difese i problemi del presente», ecco allora emergere l’importanza di approfondire, studiare e analizzare la storia alle sue fondamenta. Per costruire appunto una memoria salda e radicata nel passato, fuggendo la stanca liturgia della frontalità di ricordi imposti dall’alto.
Il tema è avvincente, portato recentemente alla luce dal brillante studio di Alberto Cavaglion, “Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni”, in cui l’autore ci mette di fronte all’evidenza e all’importanza di come «i ricordi gravosi – scrive lo studioso dell’ebraismo che ha firmato tra i numerosi volumi il fortunato studio “La Resistenza spiegata a mia figlia” – non vanno mai presi di punta, non li si impone per legge, non li si urla ad alta voce, ma vanno cercati nel cuore di una narrazione diagonale». Insomma, l’invito sembra andare proprio nella direzione di una “memoria obliqua”, coltivata nell’intimità, lontana dai condizionamenti e dagli ondeggiamenti della lotta politica. «Per capire – sottolinea Cavaglion – si deve rimpicciolire, non ingrandire». Un invito che sembra andare nella direzione opposta a quella di una società incapace a cogliere le piccole sfumature, spesso la chiave di volta della “grande Storia”.
Prendendo dunque le mosse da queste allettanti suggestioni, la “Fondazione Memoria della Deportazione” di Milano ha deciso di dedicare il 2022 proprio allo studio e alla valorizzazione delle fonti archivistiche, quelle cioè alla base del nostro recente passato e che, di fatto, sono gli strumenti da sempre al centro delle attività formative e didattiche dell’istituto milanese. Partendo, questa volta, da una lettura piuttosto originale, anche se non del tutto inconsueta: la consapevolezza, infatti, che il delicato e controverso tema della deportazione politica, cuore pulsante delle attività della Fondazione, non sia altro che l’ultimo anello di una catena intrecciata con l’avvento del fascismo e con le prime attività cospirative di una fragile opposizione annidata alle porte d’Italia. La Svizzera, in questo senso, ha rappresentato infatti una sicura spina nel fianco per la ventennale dittatura mussoliniana, soprattutto con quella regione di lingua e cultura italiane – il Canton Ticino – pericolosamente incuneata in terra lombarda.
Ecco allora il senso di quella prima giornata che, organizzata online lo scorso 13 dicembre, ha voluto dare avvio a un articolato percorso incentrato sugli archivi, luoghi di deposito della nostra memoria, ma anche garanzia della sua autenticità e fondamento di una ricerca capace periodicamente di rinnovarsi. L’incontro, che ha riunito alcuni riconosciuti storici italiani e svizzeri, ha avuto appunto come tema “Gli archivi dell’emigrazione antifascista”, il primo di un duplice seminario, evocativo nel titolo, racchiudendo appunto quel percorso storico destinato a sfociare nella tragica esperienza concentrazionaria, come detto un tema cardine della fondazione milanese: “Antifascismo, Resistenza e Deportazione: quale memoria per il futuro? La storia e gli archivi tra conservazione e valorizzazione”.
Introdotta dalla presidente della “Fondazione Memoria della Deportazione”, Floriana Maris, la mezza giornata si è aperta dunque con la riflessioni di Alberto Cavaglion sul ruolo dei paesaggi flagellati da violenza, isolamento e riduzione dell’uomo a oggetto. Un invito a soffermarsi sugli abusati e forse inattuali “luoghi della memoria”, per individuare – questo l’invito di Cavaglion – nuovi possibili strumenti e quindi imboccare un percorso di rigenerazione, partendo dalla ricerca di un “ quarto paesaggio”, quello che ci permetterebbe di riconoscere gli errori del passato, proponendo concrete via d’uscita. In questo senso la ricerca e lo studio di luoghi della memoria “minori”, quali possono essere ad esempio gli archivi dell’emigrazione antifascista, dell’opposizione all’estero, dei fragili rapporti di confine, sono suggestione e strumento di un possibile percorso riparatore.
È sembrato andare proprio in questo senso il successivo intervento di Elisa Signori concentrato sulle “identità multiple dell’antifascismo e le sue tracce documentarie”: un prisma dai molti volti, come la storia dell’antifascismo nelle sue diverse dimensioni, italiana e internazionale, politica e culturale, soggettiva e antropologica, ricostruibile a partire da fonti documentarie create da attori diversi per finalità diverse. Un paesaggio della memoria “obliquo” che ci sollecita ad ampliare lo sguardo verso un’emigrazione e quindi un fuoruscitismo da intendere come fenomeno globale, da sganciare appunto dalla semplice contrapposizione al fascismo. Immaginando quindi la stessa emigrazione come fenomeno a cerchi concentrici che, per sua natura, sollecita e richiede una transnazionalità che, forse, potrebbe aiutarci a rompere i paludati schemi di una logorata memoria.
Proprio la necessità e l’importanza di incrociare e sovrapporre fonti di diversa natura, è stato l’invito proposto da Sonia Castro, riprendendo quanto da lei già maturato e sviluppato in una precedente esperienza di ricerca dedicata alla biografia intellettuale e politica di Egidio Reale. Guardare, come ci ha sollecitato, soprattutto ai carteggi e alle fonti epistolari, rappresenta infatti uno strumento di grande ricchezza, capace di travalicare le cesure storiografiche tradizionali, mettendo così in evidenza fenomeni di continuità e discontinuità nelle relazioni, in questo caso, tra Italia e Svizzera, tra Egidio Reale e Guglielmo Canevascini, leader socialista ticinese, figura centrale nella politica di accoglienza e sostegno ai profughi tra le due guerre mondiali. Portando così alla luce e aiutando a sciogliere il difficile e sempre controverso rapporto tra storia e memoria.
Una relazione che Francesca Mariani Arcobello ha poi sviluppato con uno sguardo assolutamente particolare ma decisamente convincente: partendo cioè dai documenti conservati presso l’Archivio della Fondazione Pellegrini Canevascini di Bellinzona – di cui è presidente –, raccolta documentaria unica e di straordinario valore che, per gli anni Trenta e Quaranta, rappresenta una sicura e insostituibile miniera documentaria per lo studio dell’antifascismo ticinese. Una collezione che Francesca Mariani ha svelato ricostruendo il non facile percorso umano e politico di uno dei principali esponenti del socialismo locale, Francesco Borella, avvocato e Consigliere nazionale, dalle cui carte è emersa distinta la voce di oppositori e vittime dei fascismi europei, giunti per diverse vie nella Svizzera italiana in quella prima e tormentata metà del Novecento.
Testimonianze di uomini e donne dal grande valore e spessore, capaci di costruire in Svizzera quelle forme embrionali di un associazionismo in migrazione, portato in luce da Toni Ricciardi con un intervento che si è concentrato sui fondi conservati presso il Sozialarchiv di Zurigo. L’Istituto rappresenta infatti un indubbio punto di partenza per tracciare lo sviluppo di quell’antifascismo che aveva trovato in Ginevra e Zurigo i suoi centri propulsori, e in Reale, Chiostergi, Schiavetti, Medri, gli insostituibili punti di forza. Le sicure fondamenta di quella che sarebbe diventata nel tragico autunno del 1943 – data simbolo nella storia della Penisola – la Federazione delle Colonie Libere italiane, rete antifascista, centro di riferimento e aggregazione per i connazionali durante gli ultimi anni del conflitto, ma anche e soprattutto nel secondo dopoguerra.
Storia e memoria, archivi e ricordi personali sono stati dunque il “filo conduttore” di questo incontro chiuso da Natalia Cangi dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Non è stata un caso, infatti, la scelta di riassumere il convegno portando e mettendo in luce questo controverso ma fondamentale rapporto, sicuramente necessario per alimentare una conoscenza che non può prescindere appunto dalle esperienze personali. La presentazione di due diari – quelli di Lea Ottolenghi e Gualtiero Morpurgo – sono stati infatti l’occasione non soltanto per la ricostruzione di avvincenti percorsi umani in quella terra d’asilo che fu la Svizzera degli anni Quaranta, ma soprattutto un sicuro mezzo per ribadire l’importanza della memoria studiata con metodo, capace di andare oltre le apparenze, in grado – riprendendo le parole iniziali Cavaglion – «di restituire ai luoghi della memoria quella funzione riparatrice che talvolta riesce alla letteratura, quando non è solo testimonianza».
Ecco il punto dirimente emerso dal convengo: la ricostruzione di percorsi storici attraverso un uso consapevole degli archivi, qui intesi non soltanto come luoghi di conservazione, ma anche come fondamentali strumenti di riflessione e maturazione civica. A condizione però di avere l’esperienza e l’intelligenza adeguati a valorizzarne i materiali conservati, che altrimenti resterebbero certamente un potenziale inerte. Il convegno dello scorso 13 dicembre ha dunque aperto la strada nel rafforzare il dialogo tra studiosi e archivisti; il primo passo che arriverà a maturazione il prossimo aprile con un secondo convegno, questa volta in programma nella sede della “Fondazione Memoria della Deportazione” di Milano, intitolato “Gli archivi della Resistenza e della Deportazione”: un importante percorso che vuole aprire nuovi e ambiziosi approcci alla nostra Storia.
di Francesco Scomazzon