Alla fine di gennaio del 1944, dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio avvenuto il 22, i vertici delle forze antifasciste s’impegnarono in un confronto sempre più serrato sul futuro dell’Italia in rapporto all’evoluzione delle operazioni militari e al crescente peso della Resistenza. Il 28 e il 29 i Comitati di Liberazione Nazionale si riunirono in congresso al teatro Piccinini di Bari, dopo che gli Alleati avevano indotto il Governo Badoglio a vietare una precedente riunione dei CLN dell’Italia liberata e dei rappresentanti dell’Italia ancora occupata dai tedeschi, convocata a Napoli il 20 dicembre 1943 e bloccata dalle autorità militari alleate solo tre giorni prima. Questa decisione, presa un paio di settimane dopo che le truppe alleate già attive in Italia dal luglio 1943 erano state poste sotto il comando del generale britannico Harold Alexander e giustificata con la difficoltà di garantire l’ordine pubblico in una città considerata troppo vicina al fronte, aveva generato aspre polemiche. Il motivo del divieto era stato considerato un pretesto dagli antifascisti e in primis dagli azionisti, vero motore dell’iniziativa. Il veto aveva dimostrato come, fin dalla fine del 1943, gli Alleati (e gli inglesi in particolare) intendessero ridimensionare notevolmente il ruolo della Resistenza nella costruzione della nuova Italia. Essi puntavano più su Badoglio (a sua volta convinto di dover limitare l’azione politico-militare dei partigiani) e la monarchia sabauda, ampiamente compromessa con il totalitarismo fascista, che sull’antifascismo organizzato, espressione di una politica di rottura radicale con il regime da attuare in tempi brevi e senza alcun compromesso. Al congresso di Bari, aperto da Benedetto Croce e definito da Radio Londra «il più importante avvenimento nella politica internazionale italiana dopo la caduta di Mussolini», il dibattito si sviluppò soprattutto sulla questione istituzionale, centrale anche per il PRI che aveva scelto di non entrare nel CLN. Azionisti, socialisti e comunisti si pronunciarono a favore della Repubblica; liberali, democristiani e demolaburisti, al contrario, si mostrarono possibilisti rispetto alla continuità istituzionale. Liberali e democristiani in particolare, come ricordò “a caldo” (non unico) Visentini in Due anni di politica italiana (1943-1945), opuscolo pubblicato nell’estate del 1945 e riproposto da Aragno nel 2014 a cura di Sandro Gerbi, apparivano, già dalle settimane precedenti, orientati a salvare la monarchia. La mozione finale, concepita per salvaguardare l’unità del fronte antifascista ed evitare pericolose spaccature politiche in una fase molto delicata, propose l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e il rinvio della scelta istituzionale a un referendum popolare da tenersi dopo la fine delle ostilità. Fu anche eletta una giunta permanente, composta dai rappresentanti dei sei partiti ciellenisti, chiamata a controllare (con modalità non proprio chiare) che fossero messe in pratica le risoluzioni del congresso al quale presero parte, tra gli altri, Michele Cifarelli (segretario del CLN di Bari), Omodeo, Dino Gentili, Cianca, Carlo Sforza, Giulio di Rodinò, Vincenzo Arangio Ruiz (segretario del CLN di Napoli) e Antonio Pesenti. Il discorso di apertura di Croce, più volte interrotto dagli applausi, raccolse un notevole consenso tra i presenti sull’onda dell’entusiasmo di una ritrovata libertà di discussione ma, nel contempo, finì per oscurare le differenti visioni del futuro del Paese che avevano i partiti e, in particolare, la loro diversa concezione dei CLN. Del resto lo stesso Croce, poco prima di recarsi a Bari, aveva affidato ai suoi Taccuini di guerra (1943-1945) le sue perplessità, scrivendo che non era convinto del viaggio che si apprestava ad intraprendere e verso il quale era spinto da vari esponenti dell’antifascismo.

Il 14 gennaio 1944, il giorno prima che due delle quattro figlie e Raimondo Craveri (marito di Elena, azionista e fondatore dell’Organizzazione per la Resistenza Italiana) tentassero di frenarlo, aveva annotato:

Lo Sforza mi scrive insistendo ch’io vada con lui al congresso dei Comitati di liberazione in Bari il 28, dove «può darsi che accada qualcosa». Anch’io penso o spero così, e andrei; ma nei nervi e nelle ossa c’è qualcosa che mi fa ripugnare a questo viaggio, che mi dicono faticoso, pieno d’incidenti e d’accidenti, e in questa stagione e alla mia età, di cui pur debbo talora ricordarmi, pericoloso: oltreché mi spaventano, non tanto le fatiche del Congresso, quanto quelle che mi verrebbero dalle tante persone che rivedrei in Bari e dalle tante conversazioni, dopo i parecchi mesi che manco da quella città, e dopo tante vicende. E non troverei più colà il vecchio amico Laterza! Credo che finirò col non andare e che pregherò lo Sforza di rappresentarmi e farmi partecipe di tutte le deliberazioni  che si prenderanno e degli atti che eventualmente si compiranno.

Il 20 gennaio, nonostante i sentimenti per vari aspetti contrastanti tra di loro sul da farsi, Croce aveva però scritto il discorso da pronunciare a Bari, la cui approvazione da parte di Sforza, di Omodeo e di Francesco Flora contribuì in modo non marginale a farlo partire. La mattina del 28 gennaio, dopo aver ricevuto una visita di Omodeo, che si lamentò con lui dell’atteggiamento non “limpido” dei delegati del suo stesso partito rispetto a un possibile ingresso nel Governo Badoglio, Croce scrisse:

Gli ho detto che sono già rassegnato a vedere il Congresso senza conclusione praticamente efficace, ma che, in ogni caso, esso avrebbe dato a me l’occasione di pronunziare un discorso che è un garbato monito agli alleati per la loro errata politica di sostegno alla persona del re.

E ancora, avendo appreso che Alexander da Brindisi aveva vietato agli ufficiali americani, francesi, inglesi e jugoslavi di assistere al congresso; impedito la trasmissione per radio dei discorsi; limitato gli invitati nei palchi, aggiunse:

È chiaro che si vuole impedire quanto è possibile l’efficacia di questa solenne manifestazione, la prima che si faccia in Italia dopo la caduta del fascismo. L’apparato di truppe e carabinieri, come per una rivolta che stia per scoppiare, è enorme e ridicolo.

E ancora, il 29 gennaio Croce scrisse:

Lo Sforza ha tenuto anch’esso stamane il suo discorso, efficace, sebbene neppure questa volta abbia saputo contenersi ed evitare certe punte e certe parole troppo colorite. I nostri discorsi non sono stati trasmessi dai dischi preparati ieri, come si era annunziato, forse per non dar notizia degli applausi ai punti significativi, e sono stati letti alla radio a sera tardi, e il mio alle ore 24 e poi alle 7: chiari segni di ostruzionismo.

Perfino il liberale moderato Croce, di sentimenti monarchici, decisamente critico verso “l’ircocervo” liberalsocialista teorizzato da Calogero e Capitini (una delle tre componenti da cui era nato il Partito d’Azione) e le sinistre nel loro complesso, per nulla persuaso della necessità di instaurare in Italia una repubblica (pur essendo molto distante da Vittorio Emanuele III, che nell’ottobre del 1943 gli aveva chiesto di entrare nel suo governo), si mostrava indignato per il trattamento riservato all’antifascismo organizzato nella parte di Paese liberata. Solo due giorni dopo, il 31 gennaio 1944, il CLN di Milano fu autorizzato dal CCLN di Roma, con l’avallo dei CLN delle altre regioni, a trasformarsi in Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI, in cui il Pd’A sarebbe stato rappresentato da Leo Valiani), al quale fu ufficialmente affidata la guida politica e militare della Resistenza nelle regioni settentrionali dove imperversavano i nazisti e i fascisti della Repubblica Sociale Italiana. La strada verso la libertà si sarebbe rivelata assai lunga e lastricata di tragedie, molte speranze si sarebbero trasformate in drammatiche illusioni ma, in quel gennaio del 1944, l’Italia iniziò a cambiare. Le “spinte dal basso” rappresentate dai CLN e la rivoluzione democratica caldeggiata dagli azionisti, con la Liberazione, in modo paradossale sarebbero state sconfitte, ma non senza lasciare tracce indelebili alle quali, con la democrazia del terzo millennio in evidente affanno, sarebbe opportuno guardare con attenzione e, come forse avrebbe detto Vittorio Foa con il suo inguaribile ottimismo, voglia di futuro.          

di Andrea Ricciardi 

     

Loading...