Gli scritti di Gaetano Salvemini raccolti con il titolo Sulla democrazia sono testi relativi a conferenze tenute negli Stati Uniti tra il 1934 e il 1940, quando Salvemini era docente alla Harvard University, ma sembrano per molti versi scritti qualche giorno fa [1]. La democrazia consiste per Salvemini, come si evince dalla prima di queste conferenze, del 1934, in tre diversi gruppi d’istituzioni: uno che garantisce “i diritti individuali del cittadino, come habeas corpus, libertà di pensiero, libertà di culto, libertà di educazione, libertà di movimento, libertà di lavoro”. Un altro gruppo che garantisce “le libertà politiche del cittadino, come libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione e di riunione”. Infine una terza componente, potremmo dire di garanzie istituzionali democratiche, che consiste nella possibilità di cambiare il partito al potere attraverso libere elezioni:

i cittadini che non condividono le opinioni del partito al potere hanno il diritto di esporre pubblicamente le ragioni del loro dissenso e di formare partiti di opposizione il cui scopo è il rovesciamento del partito al potere.

L’esistenza di una competizione è infatti “una caratteristica essenziale di una costituzione democratica. La libertà politica è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere”. Da questo diritto nascono, infatti, per Salvemini “tutti gli altri diritti del cittadino”. Nelle dittature si verifica invece la circostanza opposta: “il diritto di opporsi al partito al potere è soppresso” e i partiti di opposizione sono considerati “organizzazioni criminali”. Nei regimi dittatoriali, infatti, i diritti dei cittadini e le loro libertà politiche sono “alla mercé del partito al potere”.

  A volte per designare dei sistemi non democratici, cercando di mascherarne la natura dispotica e dittatoriale, s’inventano termini nuovi. Con il fascismo avvenne, secondo Salvemini, qualcosa del genere: all’inizio, infatti, il termine “fascista” non trasmetteva alcuna idea chiara sulla costituzione politica auspicata. Se il fascismo si fosse presentato sotto una denominazione tradizionale, e quindi come un’autocrazia o una tirannide, avrebbe subito perso gran parte della sua capacità di attrarre consensi, ma mascherando la sua reale visione politica e i suoi progetti sotto una nuova denominazione dal significato poco chiaro riuscì a convogliare su di sé attenzioni, speranze e consensi in modo trasversale e diffuso.

  Ma il fascismo non fu nemmeno, al contrario di quanto alcuni pensavano e ancora pensano, equiparabile a un tipo di governo conservatore. Fu una dittatura, e cioè un regime non democratico, che è cosa diversa:

le istituzioni democratiche restano democratiche quando sale al potere un partito conservatore […]. Un regime democratico cessa di essere tale non quando i partiti democratici sono rovesciati e al loro posto subentrano i partiti conservatori, ma quando il partito al potere fa piazza pulita di ogni opposizione sopprimendo i diritti individuali, le libertà politiche e le istituzioni rappresentative. Solo nel caso in cui il partito si proponga abolizioni del genere c’è motivo di definirlo ‘dittatoriale’ o ‘fascista’.

  L’identificazione del fascismo con una forma di conservatorismo è solo uno dei tanti errori in cui si è talora incorsi. Un altro, abbastanza diffuso, è quello che identifica la democrazia con il governo della maggioranza. Anche Hitler fu escelto da una maggioranza di cittadini tedeschi, ma questo non significa affatto, come allora in molti sostenevano, che il nazismo fosse “democratico”. Anche “il più assoluto dei tiranni sosterrà sempre di governare per conto della maggioranza del popolo”. In realtà, scrive Salvemini,

il governo della maggioranza non è mai esistito ed è probabile che non esisterà mai. È sempre una minoranza a governare. Anche nel regime più radicalmente democratico il partito al potere include solo una minoranza della popolazione; e il partito o i partiti di opposizione sono parimenti composti di minoranze. In un regime democratico il governo spetta a quella minoranza organizzata, cioè a quel partito che per il momento è sostenuto dai voti della maggioranza non della popolazione, ma della parte di essa che si interessa di politica tanto da votare alle elezioni.

  Per questo “la democrazia, non meno della dittatura, è il governo di una minoranza”. Ma mentre in una dittatura la minoranza difende con ogni mezzo il potere acquisito, in una democrazia è essenziale che rimanga attiva una “libera competizione tra tutte le minoranze organizzate (partiti) che aspirano al governo della nazione”. Certo,

la democrazia significa sottoporsi al voto del popolo. Ma il voto del popolo deve essere libero. E il voto del popolo non è libero dove il diritto di opporsi al partito al potere porta al campo di concentramento e le elezioni si riducono a una farsa.

 Ciò non significa che nelle democrazie esista una libertà assoluta. Non esiste, infatti “costituzione democratica che non autorizzi il governo a esercitare qualche forma di costrizione nei confronti dei suoi oppositori”. Questi possono criticare le leggi in vigore, ma devono anche rispettarle fino a quando non siano riusciti a modificarle. Salvemini può dunque concludere che neppure la forma più liberale di democrazia garantisce una libertà assoluta:

da nessuna parte è mai dato trovare né la pura dittatura né la pura democrazia e molte costituzioni politiche rappresentano un incrocio tra democrazia e dittatura. Da ciò nasce facilmente un falso ragionamento: quello di concludere che non c’è differenza tra un regime democratico e uno dittatoriale. Comunisti e fascisti fanno ampio ricorso a questo sofisma. Per esempio, se un quotidiano viene condannato per diffamazione in Inghilterra, essi dicono: ‘Vedete, la libertà di stampa non esiste nemmeno in Inghilterra.  Perché allora protestate che non c’è la libertà di stampa in Russia o in Germania o in Italia?’. Il sofisma consiste nel trucco di dare alla parola libertà un certo significato nella prima frase e uno completamente diverso nella seconda. Se eliminiamo il trucco, l’argomentazione diventa la seguente: ‘Vedete, la libertà senza freni non esiste nemmeno in Inghilterra. Perché allora protestate che non c’è libertà per nessun partito di opposizione in Russia o in Germania o in Italia?’

 Sono numerosi i sofismi che nella storia del Novecento hanno originato errori frequenti e ricchi di conseguenze pericolose per l’affermazione o la difesa della democrazia. Un’altra confusione frequente è stata il definire “dittatura” ogni intervento del governo nella vita economica. Salvemini precisa che “ogni governo, sia esso democratico od oligarchico, libero o dispotico, è obbligato in misura maggiore o minore a intervenire negli affari economici”. Anche quei governi che hanno adottano nella maniera più rigorosa la dottrina del laissez-faire devono per sempre emettere cartamoneta e provvedere a far funzionare la giustizia, la sanità, l’istruzione e quel minimo d’infrastrutture che sono comunque necessarie al funzionamento della società e della sua economia.

   Si tratta a tutti gli effetti di esempi d’intervento del governo negli affari. Anche l’Inghilterra, che è stata indubbiamente la patria per eccellenza del laissez-faire, offrì i primi esempi di legislazione sociale, e non si tratta secondo Salvemini di una concomitanza casuale, ma dipende dal fatto che “una politica di assoluto disinteresse ai problemi economici da parte del governo è impossibile”. Del resto, precisa, “non risulta che una politica del genere sia mai stata praticata nella storia del mondo”. Coloro che consideravano la politica del New Deal un tipo di politica fascista, in quanto interveniva nella vita economica violando i principi del laissez-faire, affermavano dunque una tesi ridicola. L’intervento dello Stato nella produzione e distribuzione della ricchezza non è incompatibile col liberalismo, né è corretto scambiare quest’ultimo col liberismo e la teoria del laissez-faire.

   Certo, le istituzioni democratiche devono vigilare affinché l’intervento del governo nella vita economica non diventi tanto massiccio da intaccare le libertà individuali e politiche dei cittadini, altrimenti c’è il rischio che l’autorità affidata al governo in campo economico si trasformi in una dittatura sotto il profilo politico. Si tratta in effetti di quanto è avvenuto col fascismo, e Salvemini coglie l’occasione per precisare come siano riconducibili proprio alle relazioni tra fattori economici e politici le differenze essenziali tra i regimi fascisti come quelli di Italia e in Germania e il comunismo sovietico.

Il fascismo – spiega – è quel genere di costituzione politica che ha abolito i diritti individuali, le libertà politiche e le istituzioni rappresentative, ma mantiene la proprietà privata, anche se quest’ultima è posta in un sistema di controllo più o meno rigido da parte del governo.

Non si tratta certamente di un tipo di costituzione democratica, perché non garantisce ai cittadini i diritti individuali, le libertà politiche e le istituzioni rappresentative che essa inderogabilmente prevede, ed è sotto questo profilo simile ai regimi comunisti. Ma a differenza delle costituzioni di tipo fascista,

il bolscevismo è quel genere di costituzione politica che abolisce allo stesso tempo e la democrazia e la proprietà privata: i leader del partito al potere, il partito comunista, sono dotati di poteri dittatoriali, e attraverso essi controllano e dirigono direttamente l’intero apparato economico del paese.

 Mentre i leader politici dei paesi democratici partono dal presupposto di poter governare anche male e sottopongono il loro operato al giudizio degli elettori, i dittatori partono dal presupposto della loro infallibilità e considerano un nemico chiunque non sia d’accordo con loro. Partono cioè dal presupposto di poter rendere i loro concittadini virtuosi e felici, o almeno fingono di credere di poterlo fare, così da potersi sentire autorizzati a mettere in galera o a eliminare qualsiasi oppositore in nome dell’interesse generale, sia che questo venga identificato con l’interesse della nazione sia quando venga individuato in una classe sociale come il proletariato. La tentazione della tolleranza, che è frutto del dubbio e dell’umiltà, mai ha infatti sfiorato né i dittatori di tipo fascista né quelli di tipo comunista, ma entrambi si sono sempre sentiti autorizzati a reprimere ogni forma di opposizione in nome di un interesse o di una volontà di tipo superiore

  In fondo il modello della concezione dello Stato che i dittatori sentono d’incarnare è quello piramidale della Chiesa cattolica, ma mentre questa, al tempo in cui Salvemini teneva queste conferenze, era disarmata, Stalin, Mussolini e Hitler erano armati. Il loro campo di azione era in questo mondo, e non, come quello della Chiesa, nell’al di là e nella vita eterna. Le forme di dissenso che per il Papa erano semplicemente dei peccati, per i grandi dittatori erano dei delitti contro le diverse incarnazioni e denominazioni di quella “volontà generale” che aveva già consentito a Robespierre e ai suoi amici del Comitato di salute pubblica di poter mandare alla ghigliottina migliaia di persone sulla base di semplici sospetti.

  Anche le dittature, come la Chiesa, hanno infatti bisogno “di miti, di simboli e di cerimonie per irreggimentare, esaltare e spaventare la moltitudine e soffocare in essa ogni tentativo di pensiero”, e la ghigliottina, con il suo corredo di pubbliche cerimonie, fu a suo modo anche un simbolo. Certo, non si trattò certamente di cerimonie così fantasiose e prestigiose come quelle celebrate dalla Chiesa, che possono essere considerate dei “capolavori nel loro genere”, ma anche le imitazioni che in seguito furono prodotte dai regimi fascisti e comunisti ebbero effetti non meno efficaci e persuasivi. Nelle loro dimostrazioni di massa, infatti, questi regimi facevano appello, come già la Chiesa faceva da tempo, “agli istinti irrazionali delle folle gregarie”.  

   Naturalmente, questi “appelli” sono usati anche dai partiti politici nelle democrazie. Ma, così facendo, secondo Salvemini essi commettono, dal punto di vista democratico, “una cattiva azione. Il democratico sincero non ama le manifestazioni colorate, rumorose, oceaniche. C’è al fondo della sua anima l’austero rigore dei primi puritani” e preferisce la valorizzazione delle intelligenze individuali e la libera discussione sui diritti alle emozioni di massa.

   Salvemini è ben consapevole, anche alla luce di queste differenze, che le democrazie sono più difficili da governare delle dittature, perché in fondo “è più comodo rompere il cranio a un avversario che persuaderlo”. Non a caso, quel grande liberale che fu il conte di Cavour era solito dire che “qualsiasi idiota può governare un paese con la legge marziale”. Forse anche per un dittatore le cose non sono mai state così semplici come Cavour immaginava, ma certamente sono più semplici di quanto non siano per chi si trova a governare un paese secondo regole democratiche, in cui le opposizioni possono protestare e contrastare l’azione del governo, e non è dunque difficile comprendere perché sia “più difficile creare e mantenere regimi liberi che regimi dispotici”.

 Questi sono stati spesso incoraggiati a nascere anche da molti giovani e il fatto che proprio i giovani si siano potuti sentire attratti da quanto preludeva all’instaurazione di regimi tirannici evidenzia forse meglio di altri fattori la cronica fragilità delle democrazie. Tra i maggiori sostenitori tanto del fascismo e del nazismo quanto del comunismo ci furono, infatti, soprattutto coloro che erano disposti a credere a un cambiamento olistico e palingenetico della società. A queste persone Mussolini e Hitler fornirono l’idea che soltanto loro lavoravano “per la grandezza della nazione”, mentre tutti coloro che si opponevano per qualsiasi ragione al loro disegno erano dei traditori dell’interesse nazionale. D’altra parte, sebbene i comunisti in Russia non parlassero di “nazione” e preferissero parlare di “proletariato”, il proletariato eletto cui si riferivano era quello della Russia, dove comunismo e nazionalismo si combinavano “per creare una miscela non meno esplosiva” di quella che in Italia e in Germania era rappresentata rispettivamente dal fascismo e dal nazismo.

   In tutti questi paesi, in cui vigevano quei regimi che Hannah Arendt definì poi “totalitari” e di cui Salvemini individuò alcune caratteristiche salienti con largo anticipo, non era possibile fare ciò che è sempre possibile fare in democrazia: ovvero criticare il governo e adoperarsi per crearne uno politicamente alternativo. Nelle democrazie nessuno pensa di avere la dote dell’infallibilità e si procede “per tentativi ed errori” – come poi anche Karl Popper, un altro grande liberale, ebbe a rimarcare – mentre la dittatura si basa invece

sull’assunto che l’umanità è divisa in due parti diseguali: la massa, il ‘volgo’, che non sa e non capisce nulla; e una minoranza, i ‘pochi eletti’ che, soli, conoscono i segreti per risolvere tutti i problemi. Ora, i ‘pochi eletti’, per definizione, devono essere scelti da qualcuno. Questo è compito del dittatore. ‘L’autorità scende dall’alto’.

   Nei regimi totalitari le minoranze di tecnici e politici che eseguono la volontà dei loro leader non hanno alcuna responsabilità nei confronti del popolo, di cui si può fare ciò che è più utile per la nazione, e chi si ribella a questo stato di cose, per esempio cercando di dar vita a partiti di opposizione, è destinato ad essere considerato un nemico dello Stato. Salvemini riporta al riguardo una barzelletta che circolava a Mosca ai tempi di Stalin, secondo la quale in Unione Sovietica ci potevano essere molti partiti politici, ma a un’unica indispensabile condizione: che uno stesse al potere e gli altri in galera. Probabilmente, si possono trovare barzellette analoghe relativamente a tutti i regimi dittatoriali, sebbene queste circolassero più all’estero che in patria, dove addirittura poteva capitare ad alcuni, almeno nei regimi più ferocemente dispotici, di aver addirittura paura di pensare certe battute spiritose, nel timore che caso mai qualcuna gli potesse sfuggire conversando al bar.

   Come si è visto, il fascismo condivide per Salvemini con il comunismo la soppressione di ogni forma di libertà, individuale e politica, ma non abolisce il diritto di essere proprietari dei mezzi di produzione. Quando il fascismo nacque in Italia, all’indomani del primo conflitto mondiale,

pretendeva di essere sia antidemocratico che anticomunista. Dall’Italia quel termine si è diffuso ad altri paesi con lo stesso significato. Regimi dittatoriali o tirannici che non aboliscono la proprietà privata dei mezzi di produzione e di distribuzione sono chiamati oggi ‘fascisti’ per distinguerli dal regime dittatoriale della Russia sovietica.

  Alla luce di queste considerazioni, che rivelano una volta di più il rigore intellettuale di un vero liberale e di un democratico particolarmente lungimirante, si può osservare che, dopo il crollo del comunismo, si sono verificati, sia in Russia sia in Cina, dei cambiamenti di quei regimi dal modello comunista a quello fascista. La proprietà privata dei mezzi di produzione è stata riammessa, ma non le libertà individuali e politiche che la democrazia prevede. Per ragioni di opportunità politica, e in primo luogo per ingraziarsi l’appoggio delle democrazie occidentali, la Russia ha preferito celare il modello politico autocratico e fascista cui s’ispirava sotto un’etichetta democratica, come del resto era già accaduto in epoca sovietica, mentre la Cina, sia per motivi di politica interna sia di politica estera, ha preferito non modificare la denominazione che aveva assunto dopo la rivoluzione maoista.

   Cosa sarebbe potuto succedere se entrambe avessero adottato il nome più corretto rispetto alla loro conformazione economica e politica è facile da immaginare. Quale paese democratico avrebbe potuto dare fiducia a dei paesi che, dopo la seconda guerra mondiale, avessero esplicitamente dichiarato di adottare un’organizzazione di tipo fascista dei rapporti tra politica ed economia? Quale paese avrebbe potuto con la stessa disinvoltura che si è riscontrata negli ultimi decenni fare affari, e in buona sostanza finanziare, due superpotenze fasciste?

   Il non aver adottato le denominazioni per loro più appropriate ha reso possibile sia per la Russia che per la Cina una mimetizzazione sotto insegne accettabili che si è rivelata decisiva e vincente. Entrambi i paesi hanno potuto arricchirsi esponenzialmente rispetto all’epoca comunista, la Cina diventando quasi la prima potenza economica mondiale. Questa circostanza mai si sarebbe potuta realizzare senza il contributo delle democrazie occidentali che, alimentando incautamente l’economia di due regimi autocratici, li hanno posti in condizione di poter aggredire dei popoli liberi e di minacciare seriamente l’Europa, rispolverando così politiche imperialiste che sembravano ormai superate dalla storia ed esponendo l’umanità tutta al rischio di un conflitto mondiale e nucleare.

Il fatto che negli ultimi due decenni la Russia e la Cina non siano state riconosciute per quello che sono, ovvero come paesi in cui il rapporto tra politica ed economia è analogo a quello che era caratteristico dei regimi fascista e nazista, ha probabilmente consentito a molti paesi occidentali e democratici d’instaurare con Mosca e Pechino, senza troppi scrupoli morali e politici, rapporti proficui per tutti sotto il profilo economico, ma al prezzo di finanziare indirettamente la loro strategia imperialista che, com’è evidente dopo l’aggressione russa all’Ucraina, sta manifestando tutte le sue conseguenze tragiche e pericolose. Forse, una più attenta considerazione, o semplicemente anche una qualche conoscenza, delle riflessioni a suo tempo sviluppate con lungimirante lucidità e franchezza intellettuale da Gaetano Salvemini avrebbe potuto scongiurare le circostanze drammatiche in cui si trovano oggi l’Europa e il mondo.

 A volte, nella storia della politica, è bastato usare paradigmi teorici solo lievemente errati, anche in buona fede, per agevolare l’insorgere di situazioni nefaste. Il non aver individuato la reale natura dei regimi autocratici di Russia e Cina, il non aver colto tempestivamente le loro profonde analogie con i regini fascisti del Novecento ha probabilmente contribuito a fornire un alibi a una globalizzazione selvaggia e poco previdente, e dunque al determinarsi del tragico scenario geopolitico e militare attuale.

di Gustavo Micheletti


[1] Gaetano Salvemini, Sulla democrazia (a cura di Sergio Bucchi), Bollati Boringhieri, Torino 2007.

 

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