Mentre il Partito d’Azione, sul modello delle Garibaldi comuniste, organizza i suoi reparti partigiani nelle Brigate Giustizia e Libertà, la guerra fa sentire i suoi pesanti effetti su buona parte del territorio italiano. Il 15 febbraio 1944 è distrutta da un bombardamento l’abbazia di Montecassino, tre giorni dopo la RSI istituisce la pena di morte per i renitenti alla leva. È un tentativo, non esattamente riuscito, di rinsaldare attraverso la paura le fila del fascismo repubblicano, succube del nazismo e sempre più inviso alla maggioranza della popolazione. Alla discontinuità politico-istituzionale richiesta con forza dalla sinistra del CLN, Badoglio risponde con una politica moderata e coerente con l’idea di non fornire una reale centralità politica ai partiti antifascisti. Il presidente del Consiglio, con una parte del governo, l’11 febbraio si trasferisce a Salerno. Gli Alleati restituiscono alla claudicante amministrazione italiana i territori liberati, ma da questo provvedimento sono escluse le zone più vicine al fronte e alcune località considerate di particolare rilevanza strategica, come Napoli. Sebbene le conclusioni del Congresso dei CLN di Bari di fine gennaio fossero state chiare, la posizione di Vittorio Emanuele III appare ancora relativamente salda. Gli Alleati, sul tema della sua abdicazione, non si mostrano allineati. Gli Stati Uniti, come scriverà chiaramente Roosevelt in una lettera a Churchill il successivo 13 marzo, sono favorevoli all’allontanamento del re. Il premier britannico, al contrario, non si fida di una svolta che considera troppo radicale. Ipotizza un passaggio meno traumatico verso la democrazia, non soltanto da avviare dopo la vittoria militare sul nazifascismo ma anche da “controllare”, per evitare che i partiti di sinistra raggiungano un consenso troppo ampio che potrebbe consentire loro di modificare alla radice la struttura economico-sociale del paese. Per cogliere appieno la posizione di Churchill è illuminante il suo “discorso della caffettiera”, pronunciato il 22 febbraio alla Camera dei comuni. Churchill dichiara, senza artifici verbali, di essere contrario al coinvolgimento dei partiti antifascisti nel governo dell’Italia, si dice favorevole non soltanto alla prosecuzione dell’esperienza dell’esecutivo guidato da Badoglio ma anche alla conferma dell’istituto monarchico. Per spiegare la sua posizione usa una metafora rimasta celebre, che scatena aspre polemiche: «quando occorre tenere in mano una caffettiera bollente, è meglio non rompere il manico finché non si è sicuri di averne uno altrettanto comodo e pratico, o comunque finché non si abbia a portata di mano uno strofinaccio». Salvemini, dagli Stati Uniti, alla fine di una lettera scritta a Enzo Tagliacozzo l’1 marzo, commentò: «il discorso di Churchill è stato la risposta al Congresso di Bari che non lo contentò affatto. Questo non vuol dire che Sforza non mollerà. Questo vuol dire che il Congresso non mollò almeno sull’affare del re, del governo provvisorio e della Costituente, e che non avevo torto a pensare, che quello fu un primo raggio di luce. S’intende che la battaglia diventa sempre più aspra». Lo sarebbe stata sul piano politico e militare. Proprio su quest’ultimo aspetto, riferendosi a un altro passo del discorso di Churchill riferito alla battaglia sul fronte italiano (immaginata come lunga e dura) e al rapporto tra l’auspicata liberazione di Roma e la libertà «di discutere l’intera situazione politica italiana con notevoli vantaggi che ora non abbiamo» attraverso la costruzione di «un governo italiano con basi più ampie», Calamandrei il precedente 24 febbraio aveva annotato sul suo diario parole significative. «Discorso di Churchill freddo, scoraggiante, io non ho mai promesso che la guerra finirà nel 1944 … Le operazioni in Italia proseguiranno, lente e difficili. L’idea di veder cessare questa situazione tra qualche settimana, sfuma: mesi e mesi, semestri e forse anni». La Liberazione sarebbe arrivata 14 mesi dopo, i più duri per i partigiani e per la popolazione, stremata da un conflitto terribile in cui Mussolini (a lungo molto ben visto da Churchill prima della traumatica presa di coscienza intervenuta alla fine degli anni Trenta[1]) l’aveva condotta con il beneplacito di un re irresponsabile, debole e complice delle nefandezze del totalitarismo fascista.


[1] I due esempi forse più clamorosi del sostegno pubblico di Churchill a Mussolini risalivano, rispettivamente, al gennaio 1927 e al febbraio 1933. Nel primo caso, in visita in Italia, Churchill il 15 gennaio aveva incontrato Mussolini e nella conferenza stampa del 20 gennaio, presso l’ambasciata inglese di Roma, aveva espresso per il duce stima e ammirazione, scatenando reazioni polemiche da parte dei laburisti alla Camera dei comuni. Nel secondo caso, parlando alla Lega antisocialista britannica, il 18 febbraio 1933 Churchill aveva inneggiato a Mussolini come “al più grande legislatore vivente [che] ha mostrato a molte nazioni che si può resistere all’incalzare del socialismo” e che aveva fatto del regime fascista il faro a cui tutti i paesi “impegnati nella lotta corpo a corpo con il socialismo” potevano guardare con fiducia. Una posizione condivisa da una parte non trascurabile delle classi dirigenti britanniche nel periodo in cui Oswald E. Mosley, capo del fascismo inglese, era figura ben accetta in convegni e iniziative pubbliche patrocinate dai liberali.    

di Andrea Ricciardi 

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