22 GIUGNO 1805: NASCE GIUSEPPE MAZZINI
Uomo politico (Genova 22 giugno 1805 – Pisa 10 marzo 1872). Militante della Carboneria (1827-30), fu esule in Francia e in Svizzera. Allontanatosi dall’ideologia carbonara, maturò il progetto della Giovane Italia, secondo un principio repubblicano di nazione unita, composta di cittadini liberi ed eguali (Manifesto, 1831). Recatosi in Inghilterra (1837) vi visse alcuni anni in solitudine e con una scarsa disponibilità finanziaria, ma approfondendo il suo pensiero politico e la sua cultura letteraria. Dopo due anni, tornò alla politica, dando vita alla cosiddetta “seconda Giovine Italia”, il cui programma prevedeva una maggiore partecipazione popolare. Rientrato in Italia nel 1848, fu a capo della Repubblica romana, dedicandosi poi a tessere le fila di moti e colpi di mano che però non ebbero successo. Costretto di nuovo ad espatriare, dal 1857 visse principalmente fra Lugano e Londra, finché nel 1870 organizzò una spedizione per liberare Roma: fu però arrestato e rinchiuso nel forte di Gaeta, da cui uscì amnistiato l’anno successivo. Animato da profonde convinzioni repubblicane e democratiche, fu una delle maggiori personalità del Risorgimento italiano, distinguendosi in modo particolare nella lotta per l’indipendenza italiana e per la formazione di uno stato e una coscienza unitari.
VITA E ATTIVITÀ
L’ambiente familiare contribuì a dare al futuro apostolo dell’unità una educazione severa nella quale ebbero indubbî riflessi la formazione politica del padre, Giacomo, medico, e il rigorismo morale della madre, Maria Drago, la cui concezione religiosa della vita era ricca di motivi giansenistici non infrequenti nella Liguria della fine del Settecento. Giansenisti erano anche i due abati – Luca Agostino De Scalzi e, in un secondo tempo, Stefano De Gregori – ai quali fu affidata la prima educazione di M. fino al 1819, anno della sua iscrizione al primo biennio dell’università (corrispondente all’odierno liceo), nella facoltà di filosofia e belle arti. Passò poi agli studî giuridici. Già coinvolto nei tumulti scoppiati a Genova il 21 giugno 1820, nel marzo 1821, con un gruppo di universitarî, si recava dal governatore di Genova, Des Geneys, per chiedere la costituzione: “una ragazzata”, come scrisse Salvemini, giustamente non ricordata da M. nelle Note autobiografiche scritte nel 1861. Il generale clima di reazione dominante nel regno subalpino all’indomani del fallimento del moto costituzionale si manifestò nel campo degli studî non tanto con la chiusura delle università di Torino e di Genova per l’anno scolastico 1821-22, quanto con l’applicazione rigida di regolamenti (come quello approvato da Carlo Felice il 23 luglio 1822) che mortificavano le coscienze, imponendo agli studenti di frequentare con assiduità le funzioni parrocchiali e di confessarsi almeno una volta al mese, pena l’esclusione dagli studî. In questo clima, M. portò avanti i suoi studî, conseguendo la laurea il 6 aprile 1827. Durante gli anni universitarî M. si era legato ai fratelli Ruffini in un sodalizio in cui polemica letteraria e lotta politica erano strettamente collegate nella convinzione che una nuova letteratura presupponesse un rinnovamento morale e politico del paese. È questo il senso della collaborazione mazziniana all’Indicatore genovese (1828) e, dopo la soppressione di questo, all’Indicatore livornese di F. D. Guerrazzi. L’evidente ripresa di alcuni motivi settecenteschi circa il necessario impegno civile di ogni autentica letteratura avveniva qui in chiave romantica. La stessa interpretazione di Dante da parte di M. (Dell’amor patrio in Dante, composto nel 1826, ma pubblicato undici anni più tardi) è significativa in questo senso, quale prima manifestazione di uno sforzo teso a creare una tradizione nazionale laica unitaria. Non per nulla più tardi da parte della storiografia “democratica” – si pensi per tutti all’abate Luigi Anelli – si metterà in evidenza il rapporto Dante-Mazzini, sino a fare di quest’ultimo l’interprete migliore delle idealità politiche dell’Alighieri. M. militò nelle file della carboneria tra il 1827 e il 1830, svolgendo un’intensa attività cospirativa in Liguria e in Toscana con Federico Campanella, G. Elia Benza, Carlo Bini, Giambattista Cuneo. Arrestato il 13 novembre 1830, in seguito alla delazione di Raimondo Doria, fu portato con gli altri incriminati nella fortezza di Savona, dove rimase fino al termine del processo (gennaio 1831), concluso con l’assoluzione, per insufficienza di prove, di tutti gli imputati. Dopo la sentenza, alcuni di questi – tra i quali M. – furono invitati a scegliere tra il confino in qualche piccola località all’interno del regno e l’esilio. M. scelse l’esilio e fu a Ginevra, a Lione e a Marsiglia. Durante la permanenza nel carcere di Savona M. avrebbe maturato il distacco dalla carboneria, ormai “fatta cadavere”, avviando il disegno della Giovine Italia. Obiettivo della Giovine Italia era una repubblica unitaria “di liberi ed eguali”, consapevoli di appartenere alla stessa nazione; mezzi per raggiungere questo fine, una educazione che predicasse l’insurrezione e un’insurrezione dalla quale risultasse un principio di educazione nazionale. A differenza dei moti precedenti ci si sarebbe dovuti basare non su una classe sola ma sull’intera nazione e non si sarebbe dovuto far dipendere l’inizio del moto da aiuti di altre potenze o di principi (proprio nel giugno 1831 M. aveva indirizzato a Carlo Alberto, successo appena a Carlo Felice, un appello per invitarlo a mettersi alla testa della rivoluzione italiana, senza ottenere, com’era del resto prevedibile e previsto, alcuna risposta). Questo differenziarsi dell’associazione di M. dal mondo carbonaro e settario si accentuò col passar dei mesi, come dimostra il Manifesto della Giovine Italia, apparso nel primo fascicolo dell’omonimo periodico pubblicato a Marsiglia nell’ottobre 1831; anche se non mancarono temporanei accordi e vere alleanze, come quella del settembre 1832 con la Società dei Veri Italiani, fondata da Filippo Buonarroti, durata solo fino agli ultimi mesi del 1833. In quegli stessi anni M. tentò di diffondere la Giovine Italia nel regno sardo, anche nell’esercito. Una delazione provocò arresti e fucilazioni (21 condanne a morte di cui 12 eseguite; Iacopo Ruffini si suicidò in carcere), ma M. tentò ugualmente una spedizione armata nella Savoia sotto la guida di Gerolamo Ramorino, fallita miseramente. M. reagì al grave insuccesso allargando il suo programma con la fondazione della Giovine Europa (secondo l’Atto di fratellanza approvato a Berna il 15 aprile 1834, era costituita dalla Giovine Italia, dalla Giovine Germania e dalla Giovine Polonia). Nell’anno successivo M. fondò il periodico Jeune Suisse dove pubblicò, tra il 17 e il 24 febbraio 1836, l’importante scritto Interessi e principi, nel quale si dimostrava che la speranza di un miglioramento materiale non poteva far affrontare i rischi connessi a qualsiasi azione rivoluzionaria, che esigeva un principio “allo stato di credenza”, una fede. In quello stesso anno M. fu scosso da una grave crisi di sconforto ch’egli definì la “tempesta del dubbio”. Forse l’idea che inseguiva era un sogno e lo stesso concetto di patria un’illusione, forse l’Italia, “esaurita da due epoche di civiltà”, era “condannata a giacere senza nome e missione propria, aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita”. La crisi fu superata mediante la religiosa consapevolezza che la vita è missione ed è guidata dalla sola legge del dovere, alla quale in nessun modo ci si può sottrarre; ma la sua attività politica rimase ugualmente sospesa per circa tre anni. Nel frattempo, costretto a lasciare la Svizzera, M. si recò in Inghilterra; giunse a Londra il 12 gennaio 1837 in compagnia di Giovanni e Agostino Ruffini e di Angelo Usiglio. Egli intendeva proseguire la sua opera di proselitismo politico, creando una corrente di simpatia per l’Italia, facendone conoscere le tristi condizioni. M. per vivere non poteva far altro che scrivere e si impegnò duramente per trovare quotidiani e riviste disposti a pubblicare la sua prosa. Esclusi i periodici conservatori e le stesse riviste liberali, egli poté contare sulla sola rivista radicale, la London and Westminster Review, trimestrale, e sulle corrispondenze che da Londra inviava al Monde e all’Helvétie. In queste condizioni, amareggiato dalla scarsezza di mezzi materiali e dalla solitudine, M. trascorse quel primo periodo londinese, che ebbe un peso non trascurabile nella sua esperienza culturale. “Il contatto con l’ambiente francese aveva vivificato il suo pensiero politico, il duro lavoro di biblioteca nei primi due anni inglesi rinsalderà e soprattutto approfondirà la cultura letterario-filosofica dell’esule” (E. Morelli). Nel 1839 M. riprese il suo programma politico: sorse quella che si è soliti chiamare “seconda Giovine Italia”. Il ritorno alla lotta politica era sorretto non soltanto da una ferma fede nel finale inevitabile trionfo, ma soprattutto dalla impossibilità di sottrarsi al compito cui si era votato. La novità, rispetto alla prima Giovine Italia, era costituita dalla maggiore attenzione rivolta agli operai: non bastava lavorare “pel popolo”, bisognava lavorare “col popolo”. Questo tentativo di organizzazione operaia, che ebbe anche un nuovo giornale, l’Apostolato popolare, organo dell’Unione degli operai italiani, se era assai lontano dal tradizionale paternalismo dei moderati, non mutò il fondamentale carattere interclassista del movimento mazziniano. Proprio mentre faticosamente M. riannodava le fila della sua organizzazione, allargandone il raggio, un moto di ex carbonari nelle Romagne fece ritenere a due ufficiali della marina austriaca – Attilio ed Emilio Bandiera, appartenenti all’Esperia, una società segreta collegata con la Giovine Italia – che fosse venuto, nonostante il contrario avviso di M., il momento di agire. Ma il tentativo di portare la rivoluzione in Calabria (dove nel marzo 1844 era stato domato un moto rivoluzionario) si concluse tragicamente il 25 luglio 1844 nel Vallone di Rovito, presso Cosenza, con nove fucilazioni. Diffidente nei confronti delle parziali riforme che si tentarono in Italia, così come nei confronti delle proposte di V. Gioberti e di C. Balbo, se pure nel settembre 1847 scrisse una lettera piena di speranze a Pio IX, M. si impegnò a scongiurare con un messaggio il pericolo separatista dell’insurrezione palermitana (genn. 1848). Caduta la monarchia di Luigi Filippo, M. si trasferì subito a Parigi, ove fondò l’Associazione nazionale italiana, i cui obiettivi erano: guerra all’Austria per unificare la penisola e assemblea costituente eletta a suffragio universale. A Milano, libera da due settimane dagli Austriaci, M. giunse il 7 apr. 1848; nel contrasto tra le tendenze politiche dominanti, quella moderata, che voleva la fusione con il regno sardo, e quella repubblicana capeggiata da C. Cattaneo, ostile alla fusione e al capo del governo provvisorio milanese G. Casati, M. assunse un atteggiamento assai meditato: egli disapprovava nettamente l’operato dei moderati e la loro politica fusionista, ma riteneva impolitico e pericoloso abbattere il governo provvisorio quando il problema più urgente era costituito dalla guerra contro l’Austria, che era ben lungi dall’essere conclusa. Quest’atteggiamento portò alla clamorosa rottura tra M. e i federalisti (30 aprile). Dopo le vittorie austriache, M. dovette rifugiarsi a Lugano; ma la guerra di popolo, da lui proclamata, si svuotò nell’infelice insurrezione di Val d’Intelvi (ottobre 1848). Rifugiatosi a Marsiglia, tornò in Italia, a Livorno; la sua proposta d’unione della Toscana, in mano al partito democratico, con Roma, dal 9 febbraio 1849 repubblica, non fu accolta da Guerrazzi. M. si recò allora a Roma dove giunse il 5 marzo di quell’anno. Il 29 marzo ebbe la notizia della disfatta di Novara che poneva termine alla prima guerra d’indipendenza. In quello stesso giorno si istituiva a Roma un triunvirato (composto da M., A. Saffi e C. Armellini), che fu l’animatore della difesa contro i Francesi durata dal 3 al 30 giugno allorché i triunviri si dimisero. Il progetto mazziniano di far uscire da Roma l’esercito, l’assemblea e il triunvirato per portare la guerra nelle province aveva trovato consenzienti soltanto Garibaldi, Pisacane e pochi altri; a grande maggioranza era stata decisa la cessazione della difesa. Caduta Roma, M. si mise subito al lavoro per unire tutte le forze disposte a lottare per l’indipendenza, l’unità e la libertà d’Italia, accettando come mezzi la guerra e la costituente. Si fondò un Comitato democratico europeo (1850) che attuò un concreto collegamento con i varî esponenti nazionali polacchi, russi, centro-europei e balcanici e un comitato nazionale italiano che bandì un prestito per raccogliere fondi per la liberazione del paese. Questo lavoro organizzativo fu particolarmente attivo in Liguria, in Piemonte e in Lombardia, dove vi furono tra il luglio 1851 e la fine del 1852 circa un centinaio di arrestati: 10 furono impiccati a Belfiore, nei pressi di Mantova, tra il 7 dicembre 1852 e il 19 marzo 1853. Tra la prima e la seconda serie di esecuzioni si ebbe a Milano il moto del 6 febbraio, sull’opportunità del quale, in realtà, c’erano stati dissensi tra gli stessi mazziniani. Il completo fallimento del moto segnò un duro colpo per M. che aveva sperato, questa volta, di sommuovere gli strati popolari e il sottoproletariato della capitale lombarda per rinnovare il miracolo del 1848, in una situazione interna e internazionale del tutto diversa. Nel 1857, in concomitanza con la spedizione di C. Pisacane finita tragicamente a Sapri, si portò a Genova per impadronirsi di armi con un colpo di mano, ma il tentativo fallì e M., già colpito da una condanna a morte nel 1833, fu nuovamente condannato in contumacia. Tornato a Londra, dal suo periodico Pensiero ed azione, deprecò l’alleanza franco-piemontese, ma spronò i suoi aderenti a combattere contro l’Austria insieme con l’esercito regio. Dopo Villafranca, inutilmente tentò di promuovere, da Firenze, una iniziativa di volontarî nelle Marche, nell’Umbria e nel Regno di Napoli. Ancora a Lugano, poi a Londra, dopo l’impresa dei Mille tornò a Genova, nascondendosi, ma la spedizione da lui promossa nell’Italia centrale fu fermata a Castel Pucci. Da Napoli, dove nell’ottobre 1860 aveva fondato il Popolo d’Italia, amareggiato dall’ostilità che la sua presenza di “esule in patria” provocava, per l’indirizzo ormai regio del Risorgimento, affranto da sofferenze fisiche, si recò a Lugano e poi ancora a Londra. La sua posizione nei confronti del Regno d’Italia si può così riassumere: Italia e non Piemonte, cioè italianizzare il Piemonte e non piemontizzare l’Italia, una nuova costituzione e non l’estensione dello statuto albertino a tutto il territorio nazionale; liberare Roma e Venezia, giungere alle Alpi. In contrasto anche con Garibaldi, del quale non approvò i tentativi per la soluzione della questione romana del 1862 (Aspromonte) e del 1867 (Mentana), si irrigidì nella sua posizione repubblicana, specie dopo la Convenzione di settembre (1864). Visse gli ultimi anni di vita tra Londra e Lugano, con brevi e furtivi soggiorni a Genova e a Milano: la sua azione politica era ormai polarizzata su due temi: Roma e la questione sociale. Roma non era per M. una città come le altre, da annettere, come si era fatto per il Veneto, anche dopo una guerra infelice. Roma era un’idea, il simbolo di un’età che da essa avrebbe avuto inizio. Per liberarla M. organizzò nella primavera 1870 una spedizione che sarebbe dovuta partire dalla Sicilia. Arrestato mentre si preparava a sbarcare nel porto di Palermo, fu internato nel forte di Gaeta. Ne uscì amnistiato e riprese il suo esilio. Fondò ancora la Roma del popolo (1871), per l’educazione degli operai, riprendendo i temi del libro I doveri dell’uomo (1860) in polemica con l’Internazionale. Di essa M. condannava l’irreligiosità, la negazione della nazione e della proprietà individuale, la lotta di classe. Gli operai avrebbero dovuto tendere, invece, verso un ordine di cose nel quale la proprietà fosse frutto del lavoro e nel quale il sistema del salario fosse sostituito dall’associazione volontaria, basata sull’unione del lavoro e del capitale nelle stesse mani. Solo in questo modo si sarebbe potuto creare un sistema nel quale l’utile della collettività precedesse l’utile dell’individuo. Quest’ultimo periodo fu per M. il più duro della sua vita. Lasciata Londra, il 10 febbraio 1871, si recò a Lugano dove rimase circa un anno. Tornò per l’ultima volta in Italia per finirvi i suoi giorni e, dal 6 febbraio 1872 alla morte, visse a Pisa, sotto il nome di dott. Brown, accettando l’ospitalità di Giannetta Nathan Rosselli. Morì il 10 marzo 1872: la salma fu tumulata a Staglieno (Genova).
PENSIERO
Personalità di immenso fascino, il suo pensiero politico, se pur non si tradusse mai in un corpo ragionato di dottrine, si chiarì, reagendo alle prime esperienze democratiche, incontrate soprattutto nell’ambiente buonarrotiano di Ginevra, e a quelle carbonare dagli ambigui programmi riformatori, in una fondamentale esigenza etica di rinnovamento della società. La consapevolezza che i valori morali possono attuarsi soltanto trascendendo le particolarità individuali nella comunità immortale che è la nazione, deve dare alla vita anche politica una tensione tutta religiosa. L’uomo, svincolandosi da ogni interesse materialistico, si ritrova perciò nel suo popolo, e così i popoli in una fratellanza universale, essendo l’anima dei popoli la manifestazione stessa di Dio. Perciò il principio della nazionalità come unica forma morale dell’esistenza del popolo non è nella natura, nella razza, ma nello spirito, nella coscienza e nella volontà di essere nazione, e la libertà è quindi diritto prima che dovere, impegno non di astratta teoria ma di azione, spinta se occorre al sacrificio della propria persona, nella fede del valore imperituro di ogni testimonianza morale. Per questo la politica è educazione, e l’insurrezione anche fallita è sempre vittoria dello spirito di libertà, affermazione della vita-missione che solo nella nazione si attua e, senza compromessi, nel reggimento repubblicano. M. contribuì alla formazione di una coscienza civile e politica in Italia; molti dei maggiori uomini del Risorgimento sono passati attraverso il mazzinianesimo. E anche chi non vi era passato, come Cavour, e l’aveva anzi costantemente e coerentemente avversato, nel dimostrare la necessità di Roma per l’Italia (discorso alla camera del 27 marzo 1861), finiva inconsapevolmente per riprendere lo spirito, se non la lettera, di motivi tipicamente mazziniani (l’Italia senza Roma “forma senz’anima”, unità materiale non unità morale). Il problema politico del Risorgimento acquistò con M. una dimensione religiosa: questo fondersi e confondersi di motivi religiosi e politici non contribuì alla chiarezza concettuale, all’organicità e quindi alla diffusione del suo pensiero, ma diede all’azione mazziniana vigore e tensione morale.
Biografia tratta da: Enciclopedia Treccani