Ignazio Silone, La scuola dei dittatori, Mondadori, Milano 1962
“Mi pare che i regimi totalitari siano attratti dalla guerra come il ferro dalla calamita”. È in questo modo, con una frase che ci riporta drammaticamente all’attualità, che si dipanano le ultime righe di un volume, scritto da un protagonista del Novecento, non solo letterario, che amava definirsi “un cristiano senza chiesa e un socialista senza tessera”.
Si tratta de La scuola dei dittatori di Ignazio Silone, un’opera la cui prima versione – in lingua tedesca – risale al 1938 (lo stesso anno delle ignobili leggi razziali), nel lungo periodo in cui il giovane abruzzese, non ancora trentenne, era esule in Svizzera, dove dimorò dal 1929 al 1943. Dopo Locarno e Davos, infatti, aveva trovato asilo a Zurigo, scelta decisamene saggia perché in quella stagione drammatica lì aveva trovato rifugio gran parte dell’intellighenzia europea che si opponeva al nazismo: Thomas Mann, Bertold Brecht, Robert Musil, Walter Gropius e tanti altri intellettuali. La Svizzera, del resto, diventerà una sorta di seconda patria per Silone, dato che sempre qui, ma a Ginevra, finirà i suoi giorni il 22 agosto 1978, peraltro in estrema solitudine e in condizione di quasi indigenza.
La scuola dei dittatori è il quarto titolo che esce durante la sua permanenza forzata in terra elvetica. In precedenza erano usciti (ma in lingua italiana) Pane e vino, Il seme sotto la neve e soprattutto il suo primo romanzo, il più noto, Fontamara, uno dei più clamorosi casi editoriali del Novecento, pubblicato in tedesco nel 1933 (lo stesso anno dell’ascesa al potere di Hitler in Germania) e in italiano nel 1949, ma fin da subito tradotto in 19 lingue e diffuso in 22 paesi.
Quando La scuola dei dittatori uscì in lingua italiana (nel 1962), la critica si divise perché non si sapeva come collocarlo: le precedenti prove di Silone erano state considerate opere letterarie, mentre in questa egli si diverte a scompaginare le carte, utilizzando una forma che sta a metà tra racconto, saggio, pamphlet e brano teatrale (in questo caso calzerebbe forse a pennello per Toni Servillo), mettendo in seria difficoltà critici, lettori e osservatori. Tuttavia Luigi Salvatorelli, per la recensione su La Stampa del 12 settembre 1962, aveva scelto un titolo decisamente azzeccato: “Silone ha scritto un Principe del XX secolo”.
Perché di questo si tratta. La scuola dei dittatori è a metà strada tra la narrativa e la saggistica, è una sorta di vademecum per improvvisati ducetti, per sognatori di dittature in erba, per chi ama il potere per il potere, anche a costo di soffrire di emicrania: perché – scrive sarcastico Silone – “tutti i dittatori soffrono di emicrania, è l’unica prova che sono forniti di testa”.
Silone s’inventa un dialogo serrato tra due americani in viaggio nel vecchio continente alla ricerca delle tecniche più avanzate per la conquista del potere. Un singolare scienziato, il professor Pickup (“vestito di nero come un parroco, anche la sua voce somiglia a quella di un predicatore”) accompagna un fantomatico miliardario, Mr. Doppio Vu (“l’uomo del destino”) e con costui si confronta con un esule italiano di rara spregiudicatezza, l’alter ego di Silone, Tommaso il cinico (dal greco Kyon=cane, un riferimento alla sua vita randagia e ai cafoni marsicani), fantomatico autore di un manuale sull’arte di ingannare il prossimo.
Lo scopo del viaggio dei due americani, che è l’argomento di fondo del libro per la lunga conversazione (divisa in quattordici capitoli), viene subito svelato:
Anche da noi comincia a sentirsi il bisogno di una riorganizzazione autoritaria della vita pubblica. La Democrazia ha fatto il suo tempo, ma disgraziatamente lo sviluppo del movimento liberatore che dovrà concludersi con una marcia su Washington e la cacciata della quinta colonna sovietico-giudaica-negra dalla Casa Bianca si è un po’ rallentato. Andiamo a vedere come si sono costituite quelle famose dittature di cui tanto si parla.
Dietro un titolo abbastanza paradigmatico, Silone costruisce in realtà un trattato contro ogni forma di oppressione, contro i totalitarismi di qualsiasi colore. Con le argomentazioni espresse da Tommaso il cinico, Silone ci fa capire che il fascismo, ogni fascismo, non è un fenomeno transitorio o passeggero, da relegare in un ambito storico che non può travalicare. Il problema della dittatura è ben più vasto, radicato e profondo, come un morbo dormiente pronto a scatenarsi non appena tornano a prevalere il pregiudizio, l’intolleranza e l’indifferenza, quello che la senatrice Liliana Segre considera l’inizio del male assoluto. Il fascismo è dietro l’angolo, questa è l’amara verità. E infatti Silone vuole mettere in guardia dai pericoli di svolte reazionarie che si possono annidare anche nelle democrazie parlamentari, dove il rischio di una tale involuzione si nasconde nella possibilità di sedurre le masse privandole di ogni capacità di discernimento e di esercizio della critica. “Abbiate fiducia nel possibile rimbarbarimento dell’umanità”, chiosa il suo alter ego.
Chiamando in causa Platone, Machiavelli, Montesquieu, Pareto, Marx, Mazzini, ma anche Ortega Y Gasset e Huizinga, La scuola dei dittatori vede lontano (il trumpismo fa capolino qua e là). Tende a varcare i limiti storici, ma è soprattutto frutto di storia patita, vissuta sulla propria pelle da Secondino Tranquilli (il vero nome di Silone, pseudonimo usato per la prima volta nel 1923), prendendo spunto dalla sua diretta esperienza, sia con il fascismo in camicia nera, sia con il comunismo oppressore imposto da Stalin, fautore della parabola involutiva della rivoluzione bolscevica. Scrive a un certo punto Silone, senza lontanamente immaginare quello che potrebbe annidarsi anche nell’Italia del suo (nostro) futuro.
Dopo aver ucciso o imbavagliato gli avversari, il dittatore moderno ha bisogno di qualificare il proprio regime come una forma superiore di democrazia, addirittura come la vera democrazia, la democrazia diretta, e a questo scopo farà promuovere quotidiane manifestazioni di folla e ogni tanto qualche plebiscito.
Nel dialogo a tre, che richiama ovviamene il modello canonico di Platone, i personaggi interagiscono per quasi duecento pagine grazie a una scrittura efficace, incisiva e decisamente mordace (come quando si parla delle origini del nazismo: “la sorgente prima e vera del nazionalismo? La birra”). È una scrittura che tra dotte trattazioni, drammatiche constatazioni e ironiche divagazioni permette a Silone di togliersi più volte il classico sassolino dalla scarpa. Quando parla del secondo mestiere più antico del mondo, quello del giornalista (“è fornito della facilità di parlare e scrivere arrogantemente di cose che non conosce”). Quando critica la decadenza della classe politica (“l’odierna vita politica è gremita di dilettanti presuntuosi: ognuno che fallisce in altra professione, crede di poter riuscire nella politica”). Quando prende di petto l’opinione pubblica (“la grande massa, questa è la verità, è un bestione senza memoria”). Quando osserva il declino della classe dirigente (“vive di mezze misure, rinvia sempre all’indomani l’esame delle questioni scottanti, nomina commissioni e sottocommissioni, le quali terminano i loro lavori quando la situazione è già cambiata”). Quando, infine, parla della guerra (“l’invio di truppe per alimentare la guerra civile in un paese amico si chiama non-intervento”).
Verso la fine del libro, anticipando di qualche anno gli scenari orwelliani (la prima edizione di 1984 esce nel 1949), Tommaso il cinico si sofferma a più riprese su un aspetto che può giocare a favore del dittatore modello: “il dubbio, ecco il nemico”. Spegnere il pensiero, ridurlo al silenzio, soffocare le menti indipendenti a vantaggio del pensiero unico e dell’indottrinamento: ovvero “mansueti conformisti devoti se non imbecilli”.
Insomma, fra tante anticipazioni (ipotetiche) sul presente, tanti rimandi ad una politica che non smette di indignare, c’è un punto del libro che sembra scritto come se Silone fosse ancora tra noi:
perché dimenticate che il capo fascista è il portatore di una nuova visione del mondo e il creatore di un nuovo stato d’animo collettivo? In quanto tale, e grazie alla sua identificazione con le masse popolari, egli è in grado di elevarsi al di sopra dei comuni uomini politici e acquista la facoltà d’imprimere ai destini umani nuove direzioni, nuove mete. Perché negarlo.
Compatibilmente con quanto è avvenuto nelle ultime tornate elettorali, e non solo in Italia, dove l’indifferentismo alla politica tanto temuto da Calamandrei (leggi astensionismo) è palese, il pensiero siloniano apre uno scenario non particolarmente rassicurante. Perché se è vero che il nostro paese è ancora ricco di “anticorpi” (intellettuali, partiti, associazioni, ecc.), sorge comunque una domanda spontanea: siamo capaci oggi di riconoscere e contrastare la deriva delle nostre democrazie?
di Claudio A. Colombo