Piero Caleffi, Si fa presto a dire fame (Ed. Avanti!, Milano 1954)

«Sensazione causata dall’impellente bisogno di cibo». È questa la definizione alla voce «fame» del dizionario Zingarelli (ed. 2015) che, nella sua estrema sintesi, chiama in causa solo un aspetto: quello della nutrizione. La fame di cui però ci parla Piero Caleffi nel suo lucido e toccante memoriale non è solo la fame per la sopravvivenza, quella che altri sopravvissuti agli orrori dei lager nazisti ci hanno tramandato e raccontato, da Primo Levi ad Aldo Carpi, da Simon Wiesenthal a Elie Wiesel. La fame di cui parla Caleffi, e che per tutto il libro è una presenza ingombrante, è la fame di libertà, di giustizia sociale, di democrazia, una fame che nel 1926, dopo l’assassinio Matteotti e quello di Gobetti, lo porta all’antifascismo. Entrerà nella giunta esecutiva del Partito d’Azione di Genova e, nonostante le condanne e il carcere, parteciperà senza ripensamenti alla lotta antifascista fino alla vittoria finale.

La prima edizione del libro Si fa presto a dire fame è del 1954 (quattro anni prima dell’inizio della sua carriera parlamentare, quando fu eletto senatore nelle file del PSI, confermato fino al 1972) per la collana Il Gallo Grande delle edizioni Avanti!, che in quegli anni avevano, e avrebbero, dato alle stampe molti scritti a tema resistenziale e bellico. Tra questi, Vita del carcere di Antonio Gramsci di Domenico Zucàro (1954), I corvi scherzano a Varsavia di Tommaso Fiore (1954), Taccuino 1942 di Pietro Nenni (1955) e Marzabotto parla di Renato Giorgi (1959), di cui in questa sede ci occuperemo nei prossimi mesi.

In copertina si staglia il volto di un uomo, apparentemente tranquillo. L’impaginazione, magistrale, è di Albe Steiner (nipote di Matteotti, già designer del Politecnico di Vittorini), che usa il suo tocco grafico anche per comporre le pagine interne, subito dopo il frontespizio, dove una sequenza di immagini crude – la distruzione della guerra, i volti scavati dei sopravvissuti ai lager, la morte per inedia – sono a scandire la riscrittura del titolo, parola per parola. È come se ci costringesse a entrare per forza in uno dei più brutali periodi storici, in un universo dove l’abominio dell’uomo sull’uomo, e sulle donne, è la norma, dove si cerca di sopravvivere, anche a costo di dimenticare la propria umanità.

Per questo motivo, quando continuano a circolare le notizie di quei piccoli imprenditori (come la barista in provincia di Verona), ma anche di rappresentanti delle istituzioni, che inneggiano tranquillamente al fascismo e al duce, perché «ha fatto tante cose buone», la condanna da infliggere dovrebbe essere quella di far imparare a memoria libri come quello di Caleffi. Ma anche di Bolis, di Silone e di Renata Viganò, dove lo scenario raccontato da chi ha vissuto sulla propria pelle e su quella dei propri cari quel terribile ventennio è un racconto, documentato, di episodi assolutamente veri in tutta la loro crudezza. Con le angherie gratuite, i pedinamenti, gli arresti e i pestaggi (come durante i funerali di Anna Kuliscioff, nel dicembre del ’25), le impiccagioni, le persecuzioni, la barbarie, ma anche la vile accettazione di tanti approfittatori e cialtroni, la loro indifferenza (parola odiata da Liliana Segre) ed il loro vergognoso conformismo.

Caleffi compone Si fa presto a dire fame in due parti. Nella prima parte, che comincia l’8 settembre 1943, c’è il racconto senza fronzoli della sua inesauribile attività antifascista, intrapresa tra Torino, Milano e Genova, dove era stato mandato dalla suddetta Giunta esecutiva del Partito d’Azione per consolidare la rete cospirativa insieme alla moglie Mary. È una situazione di perenne rischio, dove le istruzioni e gli ordini che arrivano da Milano firmati da Leo Valiani s’intrecciano con la fabbricazione di documenti falsi, con l’organizzazione del recupero e dell’espatrio di prigionieri (i cosiddetti “pacchi”), sempre con l’ansia per ogni spostamento, perché le spie sono dappertutto e le delazioni sono all’ordine del giorno, perché ci s’inventa di tutto per poche lire (ma la ricompensa può essere anche l’appartamento del vicino).

È vero che ci sono le azioni dei nuclei partigiani a “rasserenare” gli animi, ma per quanto i vicini nuclei di combattenti per la libertà possano essere una garanzia, a scandire le giornate sono soprattutto le voci circa leatroci crudeltà compiute dalla Divisione Monterosa e le notizie di massacri e rastrellamenti a Genova e sulle colline. Questo nei mesi che precedono la nascita della cosiddetta “Repubblica di Torriglia”, le cui gesta sono state raccontate dal partigiano Giobatta Canepa (nome in codice Marzo) nel libro omonimo, uscito da una piccola casa editrice genovese nel 1955. Un’esperienza di lotta strategica dove le forze partigiane, grazie al sostegno degli abitanti di un vasto territorio (esteso per 45 km), per un certo periodo riuscirono a controllare la statale 45 e la provinciale Bobbio-Chiavari, oltre a molte strade locali, impedendo così alle forze militare nazi-fasciste di accedere per molti mesi alla valle del Po.

A un certo punto, «senza aver avuto il tempo di costruirmi alibi e risposte elusive», anche Caleffi viene arrestato e la sua copertura si frantuma. Per lui e la moglie (che dopo poche settimane verrà trasferita al lager di Ravensbruck, da cui però riuscirà a salvarsi), inizia il calvario degli interrogatori, prima nella Quarta Sezione del carcere di Marassi, requisita dalle SS, e poi nella Casa dello Studente, alla presenza costante di «un forsennato», un certo Veneziani, capo della squadra politica della Questura.

Pensavo con raccapriccio alle unghie strappate, alle ustioni nelle piante dei piedi, alle scosse elettriche, alla fustigazione. Dio, Dio, avrei resistito? Un giovane partigiano, poco tempo prima, nel corso di un interrogatorio era stato impalato. Come avrei reagito a una cosa simile? Ma parlare no, parlare no, sarebbe stato orribile.

Nella seconda parte del libro, Caleffi narra le vicende del suo trasferimento da Genova a Bolzano e poi la sua esistenza al limite delle forze in quel di Mauthausen. Sulle sponde del Po c’è un cambio di consegne, Caleffi insieme ai suoi compagni viene consegnato a un gruppo di fascisti, tra cui c’è «un ufficiale magro col basco sulle ventitré, monocolo frustino gambali, il quale si fece bello davanti ai tedeschi sputando verso noi mentre stavamo salendo sul traghetto. E come non bastasse, calò violentemente il frustino nel gruppo e mi colpì» (tanto per ribadire il concetto che «il fascismo ha fatto tante cose buone…»).

Il viaggio continua fino a Mauthausen, dove Caleffi diventa un numero, il 115416, inciso su una targhetta da tenere legata al polso sinistro. Ed è a questo punto che la narrazione cambia registro e diventa più introspettiva, come se l’umanità dell’autore lo spingesse a cercare di capire le ragioni di quella vita-non vita. «Mi terrorizzava la prospettiva di perdere il pensiero e la memoria, di non riconoscere più gli amici, di imbestialirmi anche dentro», racconta a un certo punto Caleffi, quando cerca di farci immedesimare nelle sofferenze, nei patimenti, nelle atrocità subìte ogni giorno, quando «ancora non ci rendiamo conto che abbiamo sceso i primi gradini verso l’abisso nel quale sta affondando l’uomo che era ciascuno di noi». O quando riflette col senno di poi.

Quante cose abbiamo capito ora, cose che prima sapevamo soltanto. Si fa presto a dire fame, ma pensate ai delitti che la fame ha compiuto là dentro. Non solo ha ammazzato dei corpi, ha ucciso pensiero, religione, pietà, bontà, tutto.

La descrizione di come si vive a Mauthausen – se quella si può chiamare vita – è inconcepibile, eppure è storia, vissuta e tramandata, di cui dobbiamo essere grati a Caleffi per la forza d’animo con cui è riuscito a trasmetterla ai posteri. Oltre all’annientamento fisico di centinaia di migliaia di persone, lo scopo dei campi di morte sparsi nell’universo concentrazionario nazista era il progressivo oscuramento della coscienza. È quello che Ferruccio Parri nella prefazione decifra come la «tortura peggiore di quelle bolge maledette, la lezione atroce della guerra hitleriana: degradare lo spirito, ricacciare l’uomo nel buio dell’istinto ferino, annullare i millenni di faticosa ascesa».

Le sequenze di quei mesi a Mauthausen, al gelo, con vestiti di fortuna, con i furti delle scarpe e del cibo, con i vermi nella zuppa («ma chi ci badava?»), con la morte negli occhi dei compagni, con il “lavoro” al Canadà (spostare inutilmente pesanti rocce da un punto all’altro di una cava vicino al lager), con il divertimento delle guardie tedesche che giocano al tiro a segno contro gli ebrei in coda alla cava, con la carrozza azzurra (una specie di ambulanza che però è un altro strumento di morte, perché utilizza un congegno che immette gas asfissiante all’interno del veicolo). Tutta questa narrazione fa rabbrividire, soprattutto quando Caleffi insiste sulla disumanità che, nonostante si faccia di tutto per «lottare disperatamente contro tutto quello ciò che attirava nell’abisso», comincia a diffondersi in lui e nei compagni:

Mancò l’acqua, poi mancò il pane. La fame era divenuta frenesia e si frugava in ogni angolo per trovare una qualunque cosa da ingoiare. Ci si derubava. Spesso si desiderava la morte del vicino per poter avere un po’ più di posto sul pagliericcio.

C’è solo una frase, che forse stona in tutte le pagine di Si fa presto a dire fame. È una specie di giustificazione o di assoluzione verso la gente semplice che, poco meno di un secolo fa, si lasciò irretire dagli slogan e dalle lusinghe del regime, ma di cui oggi, davanti ad un prepotente revanscismo fascista purtroppo sempre più in auge, non capiamo le ragioni, soprattutto se a fissarla sulla carta è uno di quegli uomini che, in tempi non sospetti, come molti altri aveva capito subito che aria tirasse e tempestivamente aveva accettato il suo destino con coraggio e spirito di sacrificio.

Pensavo che la guerra è sempre cosa orribile, mostruosa, ma tanto più orribile e mostruosa era questa guerra che gettava tanto seme di odio tra gli italiani. E non pensavo ai pochi i quali si erano messi al servizio dei tedeschi, ma ecco, sì, a costoro che non capivano ancora, che ancora non potevano intendere come gli antifascisti agissero contro i tedeschi anche per loro, soprattutto per loro e per il loro avvenire e per quello dei loro figli; perché il Paese non fosse coinvolto nella sconfitta del popolo tedesco che per due volte in una generazione aveva causato la strage della giovinezza del mondo; perché il Paese non fosse coinvolto nella ondata di odio, che sarebbe durata per generazioni, nella quale l’hitlerismo, la Wehrmacht, la SS e tutto il loro orribile sanguinario ordinamento, sarebbero stati sommersi. E come dire, come far intendere a costoro tali verità, se tutto quanto, in quei giorni – stampa radio manifesti oratori – definivano banditi e traditori i partigiani e gli antifascisti? Come pretendere che quei piccoli borghesi, vissuti per vent’anni nella sarabanda pubblicitaria del fascismo, si convincessero d’un tratto che la verità era un’altra?

Al di là di questo, la lettura di questo memoriale dovrebbe essere fatta nostra anche per farci ricordare – scriveva Parri nel suo invito a leggerlo – «l’infinita sofferenza di questo compagno ritornato e dei molti che non sono tornati». Perché Si fa presto a dire fame è il libro delle battaglie, delle speranze, degli eroismi di tanti giovani, un documento esemplare di vita vissuta.

di Claudio A. Colombo

 

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