Così parlava Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz.
Testo e intervista di Claudio A. Colombo

Conobbi Nedo Fiano a Milano nell’autunno del 1996, nella sede della Società Umanitaria, in occasione della mostra Auschwitz. Un crimine contro l’umanità, un’esposizione di decine e decine di fotografie, dati, documenti e memorie sul campo di sterminio più noto al mondo, diventato il simbolo della Shoah, del genocidio, dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. E difatti, proprio nel giorno nella liberazione del lager di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, in tutto il mondo dal 2005 si celebra la Giornata della Memoria, omaggio e monito di quello che tutti noi conosciamo come Olocausto. Un termine che racchiude in sé atmosfere inaudite, ma reali, vissute in quel mondo fuori dal mondo che fu l’universo concentrazionario nazista, dove vennero annientate oltre sei milioni di persone (tra uomini, donne e bambini). Oggi Nedo Fiano, che in quel lager era arrivato il 16 maggio del 1944 e lo ricordava nitidamente come «un’enorme pentola nella quale rigirava tutta l’umanità», non c’è più. È scomparso il 19 dicembre 2020, dopo aver raccontato quei giorni terribili nel libro A5405. Il coraggio di vivere, uscito nel 2003. Ma l’intervista che mi concesse allora, mentre mi accompagnava e mi spiegava alcune delle terribili immagini presenti nella mostra, è una lezione che non dimenticherò mai. Nel riproporla oggi, alla fine del mese della Giornata della Memoria, vogliamo seguire le indicazioni della senatrice Liliana Segre, affinché la memoria di quello che accadde non si fissi intorno ad un solo unico simbolico giorno, ma diventi un monito per tutto l’anno solare.

Dall’intervista pubblicata su Nuova Antologia, vol. 578, n. 2201, gennaio-marzo 1997, testo aggiornato e corretto rispetto all’originale.

Passando davanti alla fotografia di una montagna di cadaveri e poi a quella che coglie la scena sconvolgente di povere donne denudate inseguite dagli aguzzini nazisti, che ne avrebbero di lì a poco decretato l’esecuzione, Fiano ha un attimo di silenzio. Poi aggiunge: «Immagina che cosa vuol dire vivere in un campo dove si bruciavano diecimila persone al giorno, col fetore di carne umana che ti perseguita giorno e notte. Immagina i prigionieri di Auschwitz, di Treblinka, di Mauthausen, uomini e donne che hanno assistito impotenti alla morte dei loro genitori, delle loro mogli, dei loro figli, dei loro parenti. Mi dirai: ma come si esce da quell’inferno? In quali condizioni? Semplice. Un uomo che è stato nel lager non esce più dal campo. Un uomo è sempre là».

Ad Auschwitz Fiano ha perso tutta la famiglia: il papà, la mamma, i nonni e i fratelli, compreso il più piccolo, di nemmeno un anno di età, ma nella sua voce non c’è risentimento, odio o vendetta. Vi si scorge invece la speranza che un giorno tutto il mondo apra gli occhi e riconosca universalmente, senza la minima possibilità di sconto, tutta la verità sui Lager e sugli abomini ivi commessi.

«Permettimi una precisazione. Ad Auschwitz io non ho perso la mia famiglia. Ad Auschwitz hanno ucciso la mia famiglia. Non creiamo piste false ai soliti revisionisti dell’ultima ora». Quelli che fanno distinzioni tra le sostanze usate nelle camere a gas, quelli che distorcono la stima dei deportati, quelli che dimenticano volentieri le squadre della morte, i kommando, le SS e l’immensa – ufficializzata – industrializzazione del genocidio. Complici aziende di guerra, amministrazioni pubbliche e tanti, stimati, privati cittadini.

In Italia, la soluzione finale cominciava con un arresto improvviso, come improvvisa era stata l’imposizione di un simbolo discriminatorio, quasi la visualizzazione del degrado, posto uno stemma sugli abiti di ciascun cittadino di origine ebraica, perché il “diverso” fosse individuato anche a distanza. Dopo l’arresto, iniziava quel lungo viaggio – destinazione sconosciuta – stipati in vagoni merce, senza aria, senza cibo e naturalmente senza qualunque elementare condizione igienica.

Cosa ricorda di quel viaggio tremendo?

Del viaggio ricordo essenzialmente il buio. Ricordo il luogo asfissiante, il pianto sommesso dei più piccoli deportati (io avevo appena diciotto anni), e quella feroce promiscuità, il fatto di avere tanti corpi costretti in una piccola superficie senza possibilità non dico di uscire, ma nemmeno di muoversi. Noi eravamo un gruppo di 30-35 persone, stipate in quei pochi metri quadri, sette giorni e sette notti. Vivo il ricordo è della presenza di mamma e papà e dell’ansia che ha accompagnato quel viaggio per tutta la sua durata. Non so e non voglio dire molte altre cose perché forse ci vorrebbe una seduta per parlare di tutto quanto successe in quel viaggio: persone, pensieri, sensazioni, episodi di vita. Oppure basterebbe leggersi il resoconto di Orke Semprun che ha scritto un magnifico libro incentrato solo su quel viaggio lacerante, primo di una lunga lista di lacerazioni. Comunque, noi abbiamo vissuto due momenti miracolati: il primo è che alla stazione di Ora ci hanno fatto scendere tutti dal nostro convoglio per lasciarci rifocillare al bar della stazione. E siamo tornati tutti indietro, a riprova che nessuno, allora (era il 1944), sapeva cosa ci aspettasse. Il secondo miracolo l’abbiamo avuto nella stazione di Monaco di Baviera: quando il treno è entrato, hanno aperto i vagoni e la Croce Rossa tedesca con le sue dame ha provveduto alla distribuzione di cibi caldi.

Sono episodi che non si ritrovano in altre testimonianze.

Personalmente io credo che ci fosse una macchina da presa, una cinepresa del regime che ha filmato appositamente l’episodio, per far vedere che i militari tedeschi trattavano i deportati in maniera molto umana e che le voci di ingiustizie e brutalità nei confronti degli ebrei erano solo falsità messe in giro dai nemici della Grande Germania.

Quindi, la propaganda nazista era sempre in azione, in qualunque momento.

Certo, i nazisti l’hanno sempre fatta. Quando hanno fatto vedere che distribuivano il pane, quando hanno fatto vedere che gli ebrei stavano bene, che la vita nei campi era normale. Comunque, dopo l’episodio di Monaco di Baviera anche noi ci siamo tranquillizzati (per modo di dire), e abbiamo pensato che in fin dei conti potevamo aspettarci qualcosa di buono, non certo di malvagio.

Poi il buio. E l’arrivo al campo.

È stato un impatto particolarmente drammatico, perché quello era il momento in cui la famiglia veniva divisa, quindi un momento di lacrime di urla di grida, con i cani che abbaiavano, i tedeschi che urlavano, spingevano, insultavano, e magari insieme ridevano…

In quel momento avete cominciato a capire?

No, solo la mamma ha capito subito. Mamma ha avuto la percezione di questa “cosa”, molto più di quanto l’avessimo noi. Io sinceramente ero abbastanza, non voglio dire ottimista, ma per lo meno possibilista. Ma poi la mamma con quelle sue parole “Nedo, Nedo, abbracciami, perché non ci vedremo più” mi ha tolto dalla testa qualsiasi percorso ottimistico. Quello è stato il momento più drammatico che io ricordi nella mia esperienza di deportato: il ricordo di mia madre in quei minuti (beninteso, non soltanto in quei minuti), un momento di totale disorientamento, il più grave, il più devastante. In quegli attimi c’è stato un lacerante distacco, accompagnato da quelle parole “non ci vedremo mai più”. Lei aveva capito che era finita.

Sai, il discorso di un figlio che parla della mamma in quelle condizioni è un discorso incompleto perché giocano fattori sentimentali, intimi, emotivi, che solo i poeti riescono a tradurre in parole. Io ho pensato sempre molto a quel momento in cui mamma ha percepito il senso della fine; da quel momento io sono rimasto orfano, anche se debbo dire (e per me non è affatto un’immagine letteraria) che io da allora la mamma l’ho sempre avuta accanto a me, in qualunque circostanza. Io svolgo un’attività nella vita quotidiana molto variegata, faccio ricerche di mercato. Quando mi accade di avere qualche difficoltà, io penso alla mamma e questo mi dà una forza incredibile, rivedo il suo sorriso, la vedo piena di affetto e mi sento ancora un ragazzino che cerca della sua protezione. È ridicolo che un uomo di settanta anni faccia di questi discorsi, ma è quello che io avverto. Difatti sono arrivato ad una conclusione nella quale credo profondamente e che esula in una certa misura dal tema che stiamo trattando: le persone che noi realmente amiamo non muoiono mai.

Silenzio. Gli occhi di Nedo luccicano, io non ho parole, il nastro registra soltanto il respiro di un uomo che è sopravvissuto all’inferno in terra, trovando la forza di resistere ai soprusi, alle violenze, agli orrori nel sorriso disarmante di chi l’ha messo al mondo e con la morte gli ha donato la propria anima. Da parte mia, confesso che l’intervista poteva finire qui: come continuare in queste condizioni? È invece Nedo a riprendere fiato, sbloccando la tenerezza di un ricordo, perché non si trasformi in pura commiserazione e perda il significato di tutto quello che vi è legato.

Anzi, direi che per molti aspetti questa simbolica vita di chi ci ha lasciato è molto più “vitale”, molto più percepibile. Che questo poi sia anche un singolare giochino della psiche non c’è dubbio, ma il fatto che io mi rivolga a lei quando ne sento la necessità per me costituisce motivo di sollievo e di rinascita.

Quindi, questa presenza materna c’è stata anche nel campo?

Direi di meno, molto meno. Nel campo dove io sono entrato a contatto con il Mostro, ho avuto una vita molto intensa sul piano della sopravvivenza e non ho avuto molto tempo per pensare, per meditare in senso stretto. Nel campo si pensava soprattutto a trovare qualcosa da mangiare, a ripararsi dal freddo, a sopravvivere, o almeno a vivere nelle condizioni meno drammatiche. C’era un problema di sopravvivenza che dominava su tutto. Un esempio. Io ho sempre avuto delle notti di sonno profondo. Per un certo periodo sono stato spostato in un sottocampo di Auschwitz, dove gli alleati venivano a bombardare giorno e notte, perché era un campo dove collaudavano gli aerei e per loro aveva un valore strategico. Ebbene confesso che io di notte non ho mai sentito un bombardamento, mai una bomba, mai un allarme, nulla. Una vera fortuna. Avendo modo di dormire la notte, il mio corpo evidentemente si ricaricava e recuperava le forze necessarie per sopravvivere il giorno successivo. Molti miei compagni invece non riuscivano a prendere sonno e così finivano per alzarsi al mattino ancora più stanchi, più stremati. Il mio, per fortuna, era un sonno ristoratore, riparatore, energetico, senza sogni. E quindi non è che non abbia pensato alla mamma, ma in me ha avuto il sopravvento questa forza, questa voglia di sopravvivere, e nel Lager per sopravvivere in quelle condizioni, c’era bisogno di mobilitare tutte le risorse interiori, fisiche, mentali, per resistere, per andare avanti.

Nel campo, tra i prigionieri, che tipo di rapporto c’era? Levi ha raccontato che difficilmente si instauravano rapporti di amicizia o solidarietà. Ma con ogni probabilità, laggiù ogni uomo era un caso a sé.

Io ho avuto due compagni, anzi tre, Giulio Levi, Ugo Dideroli e Cesare Terracina con i quali ero venuto dall’Italia e con i quali avevo già cementato un’amicizia nel campo di Fossoli. In tempi diversi li ho perduti tutti e tre, ma con loro ho avuto un rapporto particolare rispetto agli altri compagni della baracca. Noi eravamo trecentocinquanta persone, tra le quali giravano sei o sette lingue oltre al tedesco.

A proposito. Come mai lei sapeva il tedesco a soli diciotto anni?

Me lo aveva insegnato il nonno, almeno la base grammaticale. Il nonno, che era non vedente, era trilingue (sapeva tedesco, francese e inglese), e per una ragione che ancora non riesco a spiegarmi, cominciò a insegnarmi i numeri, i verbi forti, e poche altre nozioni grammaticali, a dosi piccole, non massicce, così mi ero assuefatto. Poi è venuta la full immersion nel campo e l’apprendimento mi è stato facilitato. Il vocabolario utile, infatti, l’ho costruito laggiù. Ed è stata la mia fortuna. Io sono stato selezionato per entrare in una squadra, un kommando, quelli della stazione, dove mettevano soltanto gli interpreti, almeno bilingui. Ricorderò sempre l’episodio che determinò questa scelta. Un giorno stavamo mandando giù la povera zuppa serale, quando nella baracca entrò un sergente maggiore, chiedendo: “Abbiamo bisogno di qualche interprete”. Io non mi sono fatto avanti perché non mi consideravo, come in effetti non ero, un perfetto interprete soprattutto dopo aver visto diversi uomini, prima di me, essere scartati, messi da parte. Poi ho sentito la spinta della mano del nonno che mi mandava avanti, come a dire: “non preoccuparti, figliolo, fidati delle tue capacità”. Allora mi sono fatto avanti e subito il tedesco:

“E tu chi sei? Dove sei nato?”
“Io sono nato a Firenze”
“Davvero?”
“Sissignore””

“Ah. Io ci sono stato a Firenze, una città d’arte incredibile con così tante cose belle”. Il riferimento a Firenze più di ogni altra cosa lo ha fatto cambiare in positivo. Evidentemente in passato aveva vissuto a Firenze un episodio gradevole e così, un po’ per questa spavalderia indotta freudianamente dal nonno, un po’ per questo fatto di Firenze sono stato scelto per il kommando: un fatto di straordinaria ed eccezionale fortuna.

Quali erano le competenze, o almeno le mansioni, di questo kommando?

Ufficialmente erano di “intrattenimento”, una sorta di reception: ogni giorno bisognava contattare, ricevere e accogliere i prigionieri in arrivo dai binari della morte, dentro quei famigerati vagoni-bestiame con i quali anche io ero arrivato ad Auschwitz e con i quali i nazisti deportavano nel Reich uomini, donne e bambini. Uno strumento, quello del kommando, di sottile perfidia e unica perfezione, che faceva parte di quel sistema scenografico, teatrale, attraverso il quale si manteneva nel campo l’ordine, dato che i prigionieri continuavano a non sapere né temere nulla di quanto stava loro accadendo. E intanto i treni della morte continuavano ad avanzare: vagone dopo vagone, valigia dopo valigia, famiglia dopo famiglia, senza sosta, in continuazione. Noi dovevamo prendere tutte le loro valigie, metterle su determinati camion che entravano nel Lager. Solo che noi, prima di metterle sul camion, riuscivamo a sottrarre tutto quanto poteva servirci: vitamine, sigarette, cibarie, insomma tutto quanto avrebbe potuto permetterci non dico un giorno ma anche una sola ora di vita in più.

Ma lei, mentre svolgeva questo “servizio”, aveva percepito cosa avveniva dopo la spoliazione e la cosiddetta doccia dei prigionieri?

Certamente. Come avremmo potuto non accorgerci di niente! Eravamo a poche decine di metri da dove si compiva il primo massacro silenzioso, da dove altri nostri compagni prelevavano i corpi senza vita di uomini e donne e li portavano a braccia nei forni. Oramai anche noi eravamo parte dell’ingranaggio, di quell’orrendo, diabolico e metodico sistema di morte che i nazisti avevano denominato Soluzione Finale. Cento uomini di giorno e cento uomini di notte, curati a vista da alcune guardie e da due capi, Hans e Juppe, due energumeni incredibili.

La sua forza interiore, la sua tenacia le hanno permesso di resistere a tutto. Come ricorda il rientro in Italia?

Ero un giovane ventenne. Avevo una gran voglia di recuperare il tempo perduto. Non volevo essere afflitto né lasciarmi sopraffare più di tanto da questi ricordi. E poi, appena tornato, i miei cugini mi hanno subito offerto un aiuto concreto, dandomi la possibilità di lavorare e di svolgere una attività full-time, che mi distoglieva dai miei pensieri. Fu la medicina migliore. Mi sono ricollocato nella vita quotidiana nel modo più indolore, e dopo tanto tempo mi sono sentito finalmente uno come gli altri. Poi mi sono sposato, nel 1949, e quella è stata un’altra medicina salutare che mi ha permesso di costruirmi un’esistenza come tutti, senza troppe difficoltà. Non oso pensare invece a quanti, tornati da Auschwitz e dagli “campi di lavoro”, si sono messi in poltrona a chiedersi (o ad interrogarsi) di continuo: ma guarda cosa è successo! Sono solo, non ho più la mamma, il papà, i fratelli, la nonna, la moglie, i figli. Credo che si impazzisca e si finisca per spararsi. Invece se uno, come nel mio caso, riprende da subito i contatti, riesce a contenere questo sconvolgimento interiore, riesce addirittura a dominarlo, a gestirlo, a farsene una ragione.

Dopo quanto tempo è iniziata la sua attività di testimone vivente a contatto con gli studenti di tante scuole?

Molto tempo dopo. Intanto perché fino a due decenni fa non si poteva nemmeno entrare e parlare nelle scuole. Quindi, salvo qualche sporadica conferenza, questa mia attività è cominciata quindici anni fa, ed è più intensa da una decina d’anni. Per questo motivo, forte della mia esperienza personale, guardo con ottimismo ai propositi del ministro Berlinguer circa l’apprendimento della storia del Novecento nella scuola: peccato che si sia perso quasi mezzo secolo, e più di una generazione di giovani non è stata in grado di conoscere direttamente da noi la verità: quando, come e perché è avvenuto l’Olocausto e quali gradi di malvagità e di crudeltà ha raggiunto un intero popolo per inseguire i folli sogni di potenza e di gloria di un piccolo, meschino, imbianchino di provincia. Nel frattempo sono passate due intere generazioni, e ormai lì non si recupera più. I nostri figli, e i loro figli sono cresciuti con la sensazione che tutto questo non fosse affatto accaduto: forse qualcuno ne ha sentito parlare, ma senza darvi molto peso, senza intendere tutta l’atrocità.

C’è, comunque, qualcosa di positivo che ha imparato, pur nell’inferno del campo?

Sì. Una grande lezione, forse la più grande: anzitutto, fare sempre un gran conto su me stesso. Mi dispiace dover dire che tutto quanto mi è accaduto non mi ha affatto convinto sulla bontà degli uomini, e neppure sulla solidarietà degli uomini. Semmai mi ha persuaso che noi abbiamo interiormente una forza che spesso è sconosciuta a noi stessi; noi siamo in grado di sprigionare delle energie impensabili, siamo quasi capaci di compiere un miracolo, nel senso che abbiamo una mente capace di cose straordinarie, con la quale dominare il dolore, ridurre il freddo, allentare la fame, diminuire la paura. Non ultimo bisogna fissare degli obiettivi a cui non venir meno, per non passare su questa terra come un asteroide in caduta libera, ma lasciare qualche segno, un’impronta. Ma c’è di più. Laggiù ho imparato che ci sono uomini che sono oggetti e uomini che sono soggetti, uomini locomotiva e uomini vagone. Nella mia vita nel campo li ho conosciuti entrambi. Ricordo un certo Mario Finzi che era un magistrato, ma soprattutto era un formidabile musicista e compositore e, durante gli appelli, quando bisognava stare ritti sull’attenti, immobili, a qualunque temperatura, anche per varie ore di seguito – e quindi, questi appelli erano una costante terrificante, perché erano fatti apposta per stroncare la nostra resistenza e fiaccare la nostra volontà – lui si isolava mentalmente, apriva un suo spazio interiore e mentalmente ascoltava un concerto: gli appelli duravano un’ora, due ore, quattro ore? Altrettanto duravano i suoi concerti.

Di contro ho visto anche uomini paurosamente deboli, che in preda allo sconforto si sono lasciati soggiogare in un secondo dagli aguzzini e hanno commesso, pure loro, atroci delitti: rubando, mentendo, tradendo. Comunque, io non mi sento di biasimarli. Se fossi rimasto ad Auschwitz qualche mese in più, probabilmente anche la mia forza sarebbe finita e non escludo che anche io mi sarei ridotto a larva umana. Per questo, il campo rimane una grande scuola. A me ha insegnato che non c’è solidarietà, che non c’è amore, che non ci sono sogni. Non si uccidono sei milioni di persone se c’è solidarietà, se c’è amore, se c’è bontà. Tutto questo è accaduto, perché questa è la realtà delle cose… Del resto, guarda in che condizioni è tuttora il mondo. A cinquant’anni dalla fine della guerra siamo punto daccapo. Le nazioni più forti di allora sono tornate a essere quelle che erano, e forse sono ancora più potenti.

Una provocazione. Davanti al revisionismo e al rinascere di certo razzismo di stampo antisemita, ha mai sentito il peso della propria testimonianza?

Non è la prima volta che me lo si chiede. A questa domanda rispondo che in questi anni ho sempre sentito non dico la piacevolezza, perché non è vero, ma trovo che nel testimoniare, io mi libero di un grande peso, tale che se avessi dovuto portarlo con me in tutti questi anni, avrebbe finito per distruggermi. Quando porto la mia testimonianza, quando ricordo quanto è accaduto, perché tutto quello che vedi in questa mostra è successo davvero, io mi sento meglio: o, almeno, non mi sento peggio. Anche perché sono convinto che quanti ascoltano una testimonianza simile diventano a loro volta dei testimoni. Non tutti naturalmente, ma una percentuale sì, per quanto bassa: mi accontento di un due-tre per cento. Perché quelle due-tre persone sono destinate a moltiplicarsi, a loro volta. E questo mi basta, mi ripaga di tutto il mio dolore e la mia sofferenza.

Un’altra curiosità. Le sue notti adesso sono tranquille come quelle nel campo quando dormiva come un sasso o sono popolate dai fantasmi di un passato che forse non può dimenticare?

Oggi non dormo con quella durezza, ma non mi capita di sognare il campo. Forse ogni tanto, qualcosina, ma molto raramente. Anche nell’inconscio, nel mio inconscio, c’è qualcosa che impone un veto. Sognare il Lager vorrebbe dire svegliarsi al mattino un po’ stroncati. Anche perché con il Lager io convivo ogni giorno, fin da quando mi alzo al mattino, vado in bagno per lavarmi e l’occhio cade su quel numero che tanti anni fa qualche solerte aguzzino ha impresso sul mio braccio, dandomi modo di far conoscere a tutto il mondo che il Lager, le camere a gas, i forni crematori, il camino, i kapò non sono invenzioni gratuite di un popolo malato di egocentrismo. No. Quel segno indelebile sulla mia pelle rappresenta la voce di migliaia di vite vissute, di vite piegate, di vite spezzate, che ancora oggi aspettano il loro riscatto, e la loro pace.

Cosa ha provato, rivivendo l’esperienza della deportazione durante “Il film della memoria”, il lungometraggio curato dal CDEC, il Centro di Documentazione sull’Ebraismo Contemporaneo?

Io sono stato ad Auschwitz cinque volte e come membro del Comitato Internazionale di Auschwitz sono sempre stato favorevole a iniziative per le scuole, come ad esempio soggiorni e visite guidate. L’importante rimane garantire una educazione preliminare, perché se non si preparano bene i ragazzi, il viaggio si trasforma una gita scolastica. Un conto è chi parla in buona fede perché c’è stato, e rivede la piazza degli appelli, e si rivede sotto la pioggia, con i tedeschi che urlano, i piedi gelati, il morso della fame, la febbre, le botte della sera prima; un conto sono le parole pacate di un’insegnante che prova a ricreare l’atmosfera di terrore, di desolazione, di abbandono di migliaia di persone al limite dell’umana comprensione. Ormai Auschwitz è stata così manomessa, è così irriconoscibile, che pare di andare alla Scala, senza spettatori, senza scenari, senza attori. Un luogo dove un cicerone anonimo ripete come fosse un disco rotto: “Signori, questa è la grande Scala, è qui che si facevano concerti e spettacoli”. Ma senza la musica, senza i colori, senza la gente, la vita del palcoscenico pare morta. Così per il Lager di Auschwitz: io singolo, io sopravvissuto, ho la forza, la capacità di ricreare mentalmente quei lugubri scenari, posso rivedermi in alcuni episodi che ho vissuto in prima persona, posso riprovare sulla mia pelle quelle ormai lontane sensazioni e sofferenze. Per i giovani, invece, per chi ha avuto la fortuna di essere nato tanto tempo dopo, resta un passo difficile, un’operazione oggettivamente ardua. Perché per comprendere cosa è stata davvero la Shoah non bastano i numeri, le date, le statistiche. La Shoah va trasmessa con il linguaggio del cuore, altrimenti diventa un semplice “cimelio” del passato e perde il significato di orrenda macchinazione ai danni del singolo e dell’umanità.

di Claudio A. Colombo



Bozzetto di Augusto Colombo per “Teresio Olivelli nel lager di Hersburk” (1957, per gentile concessione degli Eredi della Famiglia Colombo).

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