Bruno Buozzi è stato senza dubbio uno dei più importanti sindacalisti della storia italiana, sebbene il suo percorso all’interno della CGdL, complice la frammentazione politica del movimento operaio intervenuta tra il gennaio 1921 e l’ottobre 1922 con la nascita del PCd’I e del PSU (al quale aderì), sia stato per vari aspetti complesso. Da segretario della FIOM, fautore delle otto ore e dei consigli di fabbrica, Buozzi fu deputato prima nelle file del PSI (1919 e 1921), poi in quelle del PSU nel 1924 [1]. La sua attività parlamentare si concentrò sulla legislazione sociale ed economica più che su aspetti prettamente politici, tanto da portarlo a impegnarsi nel 1923 nella commissione incaricata di esaminare la nuova tariffa doganale. In quella fase sembrò che egli nutrisse ancora qualche speranza sulla possibilità che la forza di Mussolini si potesse ridimensionare come dimostra il lungo discorso, più volte interrotto dallo stesso duce e da altri fascisti, pronunciato il 25 novembre del 1922 sul disegno di legge che avrebbe concesso i pieni poteri al governo (e, dunque, al presidente del Consiglio) per il riordinamento tributario e della pubblica amministrazione. Buozzi si dichiarò nettamente contrario al provvedimento, ma lo fece tentando di convincere i suoi avversari con dati e con ragionamenti pacati, che denotavano una forza tranquilla e uno spirito, anche in una fase di passaggio così drammatica, costruttivo. Egli immaginò forse di poter spendere la sua esperienza e la sua credibilità per far riflettere i fascisti sul merito delle questioni sollevate più che sul loro gravissimo significato politico [2].
L’ultima elezione alla Camera avvenne proprio nell’anno in cui, grazie alla legge Acerbo e al pesante condizionamento del clima elettorale determinato dalle violenze squadristiche, che erano iniziate nel 1919-20 determinando la morte di circa 3.000 persone considerando solo il periodo precedente alla Marcia su Roma e alla nascita del I Governo Mussolini, il fascismo aveva definitivamente acquisito il controllo del Parlamento e, a causa delle sue coraggiose denunce contro il nascente regime totalitario, era stato assassinato il segretario del PSU Matteotti, tanto preparato quanto determinato e, per questo, molto temuto dal duce. Fu allora che Buozzi aderì all’Aventino non escludendo un possibile intervento del re per ripristinare le (relative) garanzie dello Statuto Albertino, svuotato dei suoi contenuti più avanzati e, in realtà, inadeguato a tutelare l’architettura dello Stato liberale e, ancor di più, a favorire l’avvento della democrazia come qualcuno aveva sperato in precedenza.
Per tentare di dividere i lavoratori “assorbendo” una parte dei suoi rappresentanti, già dalla fine del 1922 Mussolini propose ai vertici riformisti della CGdL di appoggiare il governo e, addirittura, di entrarvi. A questo proposito, con D’Aragona, Azimonti, Cabrini e Colombino, Buozzi prese parte a un incontro con il duce il 24 luglio 1923. Con Baldesi, era già stato contattato da esponenti fascisti ma, pur mostrando attenzione e rispetto per gli sforzi di D’Aragona che, un po’ ingenuamente, chiedeva garanzie sulla salvaguardia della libertà di associazione, Buozzi non solo si schierò contro la paventata costruzione di un Partito del lavoro a cui D’Aragona guardava, ma scelse di non cedere agli ammiccamenti di Mussolini che, addirittura fino al 1929, non rinunciò comunque a immaginare una sorta di “riassorbimento” nel regime di una parte degli esuli socialisti, compreso lo stesso Buozzi.
Subito dopo il Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) tra Confindustria e Confederazione delle corporazioni fasciste, in base al quale si ebbe il riconoscimento reciproco delle due organizzazioni come rappresentanti esclusive delle parti sociali (con il patto furono anche abolite le commissioni interne), D’Aragona si dimise da segretario generale della CGdL e fu sostituito da un Comitato di fiducia al quale subentrò alla fine dell’anno proprio Buozzi. Il nuovo segretario, all’atto delle “leggi fascistissime” del 5 novembre 1926 che, tra l’altro, abolirono il pluralismo politico-sindacale e la libertà di stampa oltre a istituire il confino di polizia, il Tribunale Speciale per gli oppositori politici e la pena di morte, si trovava in Svizzera e non potendo rientrare in patria pena l’arresto, unitamente a Nenni, Saragat, Treves, Modigliani, Rugginenti e Bensi, fu costretto a prendere la difficile via dell’esilio politico raggiungendo Turati a Parigi. Di fronte all’autoscioglimento della CGdL, deciso il 4 gennaio 1927 dal Consiglio direttivo attraverso un manifesto firmato da Rigola, D’Aragona, Baldesi e Azimonti, in cui si affermava chiaramente che in Italia non vi era più posto per «un’organizzazione di mestiere non riconosciuta» [3], Buozzi si oppose alla decisione presa dai compagni. Da Parigi, dove si trovava con altri dirigenti confederali emigrati (Quaglino, Bensi, Sardelli, Caporali e Faraboli), sostenne che il Comitato esecutivo era da considerarsi insediato nella capitale francese e che l’attività della CGdL non sarebbe cessata ma, anzi, sia pure nell’impossibilità di incidere all’interno dei confini nazionali, avrebbe conosciuto un rilancio. Nel successivo mese di aprile, a riprova di questo attivismo, al quale si affiancò quello di una CGdL clandestina in Italia diretta dal comunista Ravazzoli, slegata da quella parigina e il cui organo fu il periodico «Battaglie sindacali», la CGdL di Buozzi (che fino al 1939 ebbe nel periodico «L’Operaio italiano» il suo organo) aderì con convinzione alla Concentrazione antifascista al fianco di LIDU (di cui Buozzi fu membro), PSI, PSLI (l’ex PSU che divenne poi PSULI) e PRI. Un cartello di forze antifasciste al quale si sarebbe poi aggiunta GL e che avrebbe avuto nel settimanale «La Libertà» il suo organo, diretto da Treves. Con Quaglino, Buozzi (che fece riconoscere la CGdL dalla FSI di Amsterdam) entrò nel Comitato direttivo della concentrazione, si spese per arrivare al partito unico dei socialisti e scrisse soprattutto sui sindacati fascisti e sul sistema corporativo, criticandoli aspramente.
Anche dopo lo scioglimento della Concentrazione antifascista, sopravvenuto nel 1934 per via dei contrasti tra GL e PSI (l’unificazione dei due partiti socialisti fu raggiunta nel 1930), Buozzi continuò ad impegnarsi, da un lato, per l’unità sindacale e, dall’altro, contro la guerra e, in particolare, contro l’aggressione fascista dell’Etiopia e a favore della difesa della Repubblica spagnola in seguito al colpo di Stato di Franco, appoggiato direttamente da Hitler e Mussolini durante la guerra civile. Dopo il Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939, come esponente dei riformisti, Buozzi acquisì maggior peso nel PSI tanto che, in occasione della riunione del Consiglio generale del partito (Parigi, 27-28 aprile 1940), fu relatore e trattò dell’evoluzione degli scenari internazionali. Durante quella riunione Nenni (con il quale Buozzi continuò comunque a dialogare non mostrando la rigidità di altri compagni), accusato di filocomunismo, fu escluso dalla Direzione e il PSI ruppe i rapporti con l’Unione Popolare Italiana. Ma tutto l’antifascismo in esilio, tra il 1939 e il 1941, incontrò sempre più difficoltà nel giocare un ruolo da protagonista nell’evoluzione delle vicende politiche e, soprattutto, militari. Fu, quella, una fase molto difficile affrontata senza due figure simbolo della lotta come Carlo Rosselli e Antonio Gramsci, morti nel 1937. Il primo, con il fratello Nello, assassinato in Normandia da membri di un’associazione di estrema destra denominata Comité secret d’action révolutionnaire (CSAR), i cagoulards incappucciati), dietro mandato del Servizio informazioni militari (SIM) italiano. Il secondo spentosi a Roma, appena riacquistata la libertà dopo 9 anni di carcere e di cliniche (prima a Formia), in cui era stato ricoverato per le pessime condizioni di salute in cui versava, che il regime dalla fine del 1926 aveva peggiorato attraverso una detenzione insopportabile per un malato, che suscitò indignazione non solo tra i comunisti. In questo biennio molto complesso, dopo la sconfitta della Spagna repubblicana e i mutati equilibri internazionali, gli antifascisti si trovarono quindi divisi. Soltanto l’attacco tedesco all’URSS del giugno 1941, al quale seguì quello giapponese agli Stati Uniti a dicembre, ricompose il fronte antifascista anche se la guerra, tra la parte finale di quell’anno e il 1945, avrebbe fatto registrare le maggiori tragedie, a partire dalla Shoah.
Il 1º marzo 1941, poco più di otto mesi dopo il tracollo della Francia, Buozzi fu arrestato a Parigi dalla Gestapo su richiesta delle autorità fasciste. L’8 luglio venne consegnato alla polizia italiana e confinato a Montefalco (Perugia) per due anni, pur usufruendo di alcune licenze per motivi di famiglia che gli consentirono di recarsi a Torino e di riprendere così i contatti con gli antifascisti. Fu liberato il 30 luglio 1943 e, al fianco di Roveda e Quarello, il 9 agosto fu nominato dal governo Badoglio commissario della Confederazione sindacale dei lavoratori dell’industria. La carica fu accettata con la garanzia di poter mantenere la propria indipendenza politica rispetto allo stesso esecutivo. Nei mesi successivi crebbero le proteste che, a Torino, culminarono nello sciopero generale del 18-20 agosto. Buozzi e Roveda, con il ministro delle Corporazioni Piccardi, si recarono allora a Torino per trattare la sospensione dello sciopero. Dalle trattative scaturì il maggior risultato raggiunto sul terreno sindacale durante i “quarantacinque giorni”: l’accordo stipulato il 2 settembre da Buozzi con il commissario alla Confederazione dell’industria Mazzini per la ricostituzione delle commissioni interne nelle fabbriche.
Dopo l’8 settembre Buozzi rimase a Roma sotto falso nome. Con Grandi e, soprattutto, con Di Vittorio egli pose le basi per la costituzione della confederazione del lavoro unitaria. Le trattative erano quasi concluse quando, il 13 aprile 1944, Buozzi fu fatto prigioniero dalle SS e rinchiuso nel famigerato carcere di via Tasso, da cui i compagni non riuscirono a farlo evadere. Nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1944, con altri 13 detenuti, Buozzi fu caricato su un camion militare tedesco diretto verso Nord (Verona). Ma improvvisamente, all’alba del 4 giugno (il giorno della liberazione di Roma), sulla via Cassia nei pressi de La Storta, il camion si arrestò e Buozzi fu ucciso con gli altri detenuti a colpi di arma da fuoco. Il Patto di Roma, firmato ufficialmente il 9 giugno con Canevari per i socialisti al posto di Buozzi, fu retrodatato di qualche giorno proprio in suo onore e rappresentò la nascita della CGIL composta dalle tre anime: comunista, socialista e cattolica. Durò solo quattro anni, ma la CGIL unitaria lasciò una traccia indelebile. Tuttavia fu forse maggiore quella lasciata da Buozzi, simbolo di quell’unità raggiunta a fatica. Buozzi fu uno dei dirigenti sindacali più acuti e coraggiosi, capace di attraversare diverse stagioni drammatiche della storia italiana e internazionale senza cedimenti, rimanendo dalla parte dei lavoratori e lottando contro ogni forma di conservazione e di reazione, a cominciare dal fascismo e dal nazismo che lo costrinsero prima all’esilio, poi al confino e al carcere e, infine, lo assassinarono [4].
di Andrea Ricciardi
[1] Cfr. Bruno Buozzi, Discorsi parlamentari, a cura di Mirco Bianchi e Marco Zeppieri, introduzioni di Giorgio Benvenuto e Paolo Bagnoli, Biblion, Milano 2022.
[2] Ivi, pp. 105-124.
[3] Il 7 gennaio 1927, il Gran consiglio del fascismo emanò la Carta del Lavoro, un documento che teorizzava lo Stato corporativo basato sul superamento della lotta di classe, sul riconoscimento giuridico delle corporazioni e sull’armonizzazione degli interessi economici nell’ambito del potere politico. Il 16 gennaio, in una riunione presieduta da Rigola, fu costituita l’Associazione nazionale studio problemi del lavoro (A.N.S.), caratterizzata da un programma di sostegno critico al corporativismo fascista. Nella dichiarazione di costituzione, che sconcertò molti antifascisti e lavoratori, firmata da Rigola, Azimonti, Calda, D’Aragona, Maglione, Colombini e Reina, tra l’altro si leggeva: «il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri, i quali si sono imposti. La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica con la nostra. Noi non eravamo d’accordo con lo Stato liberale per il suo non intervento nell’attività economica […]. Il regime fascista ha fatto una legge altamente ardita sui contratti collettivi del lavoro. In questa legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri. Finché durava lo Stato liberale, da una parte, e finché dall’altra gli operai rimanevano fermi nel loro misconoscimento dello Stato, una legge di tal fatta era improponibile. La Rivoluzione fascista ha tagliato il nodo gordiano, e noi ne dobbiamo prendere atto».
[4] Sull’assassinio di Buozzi e degli altri tredici prigionieri, apparso a lungo inspiegabile soprattutto per le sue tempistiche, cfr. Gabriele Mammarella, Bruno Buozzi (1881-1944). Una storia operaia di lotte, conquiste e sacrifici, prefazione di Susanna Camusso, Ediesse, Roma 2014. Pur in assenza di documentazione francese, si tratta del profilo biografico più completo finora prodotto, capace di dare conto in modo approfondito del percorso sindacale e politico di Buozzi, dei suoi rapporti con i compagni e con la famiglia in Italia e in Francia, del tipo di opposizione al fascismo, delle trattative per la nascita della CGIL e del suo omicidio. Sul suo arresto e sugli sfortunati tentativi compiuti per farlo evadere, si leggano le parole interessanti e intense di Nenni contenute in un discorso pronunciato al teatro Adriano di Roma il pomeriggio del 4 luglio 1944, un mese dopo l’assassinio di Buozzi. Cfr. Id., Discorsi parlamentari, cit., p. 292. Cfr. anche la commemorazione di Buozzi celebrata dall’Assemblea Costituente il 4 giugno 1947, con particolare riferimento agli interventi del socialista Vernocchi, del comunista Pajetta, del presidente Terracini e di Ruini, tra i protagonisti dei falliti tentativi per liberarlo effettuati anche attraverso un’offerta di denaro che aveva prodotto un mandato di scarcerazione. Il piano non andò in porto per una fatalità (un caso di omonimia) e per un’imprudenza: si seppe che dietro lo pseudonimo Mario Alberti si celava l’ex segretario della CGdL che, una volta riconosciuto, fu trattenuto in galera.