Avremo pace vera quando avremo gli Stati Uniti d’Europa», scriveva Cattaneo in Memorie sull’Insurrezione di Milano del 1848. Luigi Einaudi, di cui ricorre quest’anno il 150mo dalla nascita, dal canto suo incominciò a parlare di Stati Uniti d’Europa in un articolo su “La Stampa” del 1897, quando aveva appena ventitré anni, firmato Junius. Il salto qualitativo delle sue considerazioni sull’unificazione europea avvenne però con una serie di articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” fra il 1917 e il 1919 e raccolti nel libro Lettere politiche di Junius del 1920. Due sono i contributi fondamentali che emergono da questi scritti. Il primo consiste nel chiarimento delle cause profonde della prima guerra mondiale, le quali vengono ricondotte al fattore costituito dalla crisi storico-strutturale degli Stati nazionali europei. In sostanza l’avanzante rivoluzione industriale aveva fatto emergere una strutturale contraddizione – esasperata dal protezionismo avente il suo fondamento nella sovranità statale assoluta – fra una crescente interdipendenza al di là delle barriere nazionali, che spingeva alla creazione di entità statali di dimensioni continentali e, tendenzialmente, all’unificazione del genere umano, e le dimensioni troppo ristrette, e quindi superate dal processo storico, degli Stati nazionali sovrani.
Il secondo contributo fondamentale contenuto in questi scritti consiste nell’idea della federazione europea intesa come strumento per superare la crisi degli Stati nazionali e per garantire la pace. Einaudi trasse questa idea dall’esperienza degli Stati Uniti d’America, che studiò con rigore e profondità e, su questa base, sviluppò una critica magistrale del progetto della Società delle Nazioni. Avendo individuato il vizio radicale dell’organizzazione, Einaudi formulò lucidamente, in due articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” nel 1918, la previsione che essa non avrebbe eliminato la divisione, i conflitti e la guerra tra gli Stati. E la seconda guerra mondiale confermerà puntualmente questa previsione.
Altri autori, come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati in Italia, Lord Lothian in Inghilterra, Jacques Lambert in Francia, Clarence Streit negli Stati Uniti, formularono analoghe critiche alla Società delle Nazioni. Resta il fatto che Einaudi fu capace di individuare i limiti della Società delle Nazioni quando questa istituzione era ancora allo stadio di progetto. Gli scritti di Junius del 1920 non ebbero alcuna influenza sul dibattito politico-culturale del primo dopoguerra e furono dimenticati presto persino dallo stesso autore. Il federalismo restò sostanzialmente estraneo alla cultura italiana. Ciò almeno fino a quando una richiesta di libri arrivoò sulla scrivania di Einaudi, una richiesta proveniente da un confinato a Ventotene: Ernesto Rossi. Il grande merito di Rossi è stato quello di aver fatto circolare la letteratura federalista. Essendo professore di economia, era stato autorizzato a corrispondere con Einaudi, il quale aveva prontamente fatto pervenire sull’isola alcuni preziosi libri federalisti del tutto sconosciuti alla cultura politica italiana. Su questi libri risiedono le fonti ispiratrici del Manifesto di Ventotene.
In piena seconda guerra mondiale, le Lettere politiche di Junius apparvero come una rivelazione, sia a Rossi sia ad Altiero Spinelli. Quelle pagine (insieme con alcuni libri di Lord Lothian e di Lionel Robbins, le personalità di punta della scuola federalista sviluppatasi in Inghilterra negli anni ’30) costituirono il punto di partenza delle riflessioni che portarono all’elaborazione del famoso Manifesto. Spinelli comprese a fondo e recepì pienamente il concetto einaudiano di crisi storica degli Stati nazionali sovrani, cioè lo strumento intellettuale che permette di capire il senso globale della storia contemporanea e di cogliere quindi la centralità del problema del superamento della sovranità statale assoluta attraverso il federalismo sopranazionale cominciando dall’Europa. All’epoca, il fervore avveniristico dei compilatori del Manifesto fece pochi proseliti. Al confino, furono scarse le adesioni fra i socialisti e i militanti di Giustizia e Libertà. Sandro Pertini, dopo aver sottoscritto il documento, ritirò la firma per obbedienza di partito. Si rifiutò di aderire Alberto Jacometti, un altro socialista. Freddi si mostrarono i futuri «azionisti». L’unico a firmare fu Dino Roberto. Gli altri, da Riccardo Bauer a Francesco Fancello, da Vincenzo Calace a Nello Traquandi, accusarono l’amico Rossi di «leggerezza». L’economista ne soffrì molto, s’incrinarono antichi rapporti di fraternità intellettuale e carceraria. La “mensa uno”, che riuniva per i pasti destinati a quelli di GL, si ruppe. I compilatori del Manifesto formarono, insieme a Dino Roberto e ad altri, un nuovo circolo conviviale, che (c’informa Giuseppe Fiori nella sua biografia di Rossi) prese un nome lampante: «Mensa Europa».
Ma intanto, fuori da Ventotene, il documento cominciò a diffondersi nelle file dell’antifascismo, in Italia e in Europa. Il Manifesto, racconterà in sintesi Spinelli, prese ben presto «il volo». E, nei cieli d’Europa, vola ancora.
di Antonio Caputo