Jacopo Perazzoli, Angelo Filippetti, l’ultimo sindaco di Milano prima del fascismo, Biblion Edizioni, Milano 2022

Lungo i viali della circonvallazione che seguono il tracciato delle mura spagnole di Milano, all’altezza di porta Romana, tra Beatrice d’Este e la Regina Margherita, Emilio Caldara e Angelo Filippetti hanno un posto di rilievo nella toponomastica cittadina. Sono divisi da Piazzale Medaglie d’Oro: una separazione che sembra indicare una differenza tra i due, nella pur comune traiettoria socialista. Entrambi sindaci in anni difficili, fanno parte del pantheon cittadino, accomunati nel sentimento dei milanesi che spesso, magari a distanza di tempo, ricordano i propri sindaci, soprattutto quelli “con la schiena dritta”, con grande affetto. È pur vero che Emilio Caldara sia, tra i due, il sindaco più ”noto” e la sua amministrazione la più studiata. A capo della Giunta milanese dal 1914, fu il sindaco degli anni di guerra, dovette gestire le enormi trasformazioni del ruolo stesso delle amministrazioni locali imposte dal conflitto, restando coerente con la sua posizione socialista e collaborando, nel contempo, con tutte le forze cittadine per garantire assistenza e aiuti alla popolazione.

Angelo Filippetti, definito da alcuni “il sindaco dimenticato”, fu tuttavia altrettanto importante: dovette affrontare un difficilissimo dopoguerra e, soprattutto, gli attacchi sempre più pesanti di un fascismo in ascesa e lanciato verso la presa del potere. Dal punto di vista storiografico, la vicenda dell’amministrazione Filippetti si dimostra altrettanto interessante e significativa di quella Caldara. Permette, infatti, di mettere in luce le dinamiche che portarono al crollo dello Stato liberale, laddove l’analisi locale consente di individuare in modo puntuale quali “strategie”, quali strumenti, quali forze politiche e di opinione si mossero, in che modo e con quali mire, nel processo di annientamento di amministrazioni liberamente elette dai cittadini: primo passo di un regime “work in progress”.

Il volume di Jacopo Perazzoli, Angelo Filippetti, l’ultimo sindaco di Milano prima del fascismo, assume dunque un’importanza particolare nella ricostruzione del percorso politico, professionale e personale di Filippetti, che non si esaurisce nell’essere stato sindaco di Milano: anzi, quella carica rappresenta il punto di sintesi di una lunga militanza politica e vita professionale. Non è quindi, il lavoro di Perazzoli, una ponderosa biografia istituzionale, ma il vivace racconto della vita di un uomo e della sua comunità politica, delle relazioni, degli scontri, degli ideali e della pratica politica e amministrativa della Milano a cavallo tra due secoli. La ricerca si dimostra particolarmente preziosa perché si avvale in modo magistrale dell’archivio personale di Filippetti, per volontà dei famigliari completamente versato all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e reso quindi accessibile al pubblico e agli studiosi.

Il volume, che si apre con la prefazione di Ezio Mauro, si articola in quattro capitoli (più un Preludio e un Epilogo) che seguono una logica cronologico-tematica ed è corredato da due brevi saggi conclusivi, il primo di Andrea Torre, curatore dell’archivio e il secondo, in guisa di post-fazione, di Andrea Jacchia, bisnipote di Filippetti. Vi è infine una “Appendice fotografica e documentaria” che testimonia, tra l’altro, la passione di Filippetti per la fotografia.

Se dunque la definizione di “sindaco dimenticato” appartiene più al nostro presente che alla realtà della Milano di un secolo fa, è più che opportuno il richiamo di Perazzoli che, in apertura di volume, sottolinea come Filippetti “non sia stato affatto un personaggio secondario all’interno della storia del socialismo italiano e soprattutto di quello ambrosiano” (pag.13). Nato ad Arona nel 1866, fu cresciuto da uno zio prete e frequentò un collegio religioso, al termine del quale si trasferì a Torino dove si iscrisse alla Facoltà di Medicina, laureandosi nel 1890. Presentò quindi domanda di tirocinio presso l’Ospedale Maggiore di Milano e si trasferì così nella città che divenne, nel giro di qualche anno, la “sua” città. La professione medica e la militanza socialista furono senz’altro i cardini della vita di Filippetti: si potrebbe dire che l’una non sarebbe stata possibile senza l’altra, inserendosi in quel filone chiamato ”socialismo medico” che permeò le battaglie politiche di una parte del mondo della medicina italiana, volto al miglioramento costante delle condizioni di vita delle classi popolari. Una battaglia politica e professionale, quindi, perfettamente coerente con gli ideali del socialismo riformista italiano e ambrosiano, che vide Filippetti tra i protagonisti e che fu ben rappresentata – tra gli altri – da Anna Kuliscioff, la “dottora dei poveri”.

S’intrecciavano, nella militanza dei medici socialisti, temi cardine quali le abitazioni operaie, malsane e prive dei minimi requisiti igienici; le condizioni di lavoro, lo sfruttamento e le inesistenti tutele per la salute dei lavoratori; la diffusione della tubercolosi e delle malattie infettive. E, tema d’importanza assoluta per Filippetti, la diffusione più che allarmante dell’alcolismo tra le classi popolari. Si trattava di istanze che spingevano quasi inevitabilmente verso l’azione di governo locale, il quale avrebbe potuto e dovuto mettere in atto provvedimenti nel solco dei programmi amministrativi che il movimento socialista veniva elaborando in quegli anni. Nel socialismo di Filippetti si innestava inoltre la sua profonda fiducia nella scienza, una sorta di “positivismo sanitario” assorbito nelle aule universitarie torinesi, e nella possibilità razionale di guarire, migliorare le condizioni di vita, rendere accessibili a tutti cure e prevenzione. Si trattava di un atteggiamento profondamente laico che lo portò a polemizzare con forza con padre Agostino Gemelli che, negli stessi anni, da medico, sosteneva la veridicità delle guarigioni miracolose (e, almeno in quel frangente, Gemelli ebbe la peggio, venendo poi allontanato dall’Associazione medica milanese).

Lo stesso positivismo sanitario spinse Filippetti verso un’attività intensa che non si risolse solo nel lavoro all’Ospedale Maggiore ma si espletò anche in molti altri presidi sanitari cittadini. Intanto si rafforzava l’interesse per l’attività politica e soprattutto amministrativa: partecipare, come esponente del Partito Socialista, ai consigli comunali lombardi divenne per Filippetti un obiettivo fondamentale. Nelle elezioni del 1899 – che videro l’alleanza tra socialisti, radicali e repubblicani e che ebbero una rilevanza politica nazionale, segnalando all’intero paese che le classi produttive erano contrarie alla svolta autoritaria imboccata dopo i moti del ‘98 – Filippetti venne eletto per la prima volta nel consiglio comunale di Milano. L’autore ricostruisce con precisione l’attività e le posizioni di Filippetti negli anni in cui partecipò a vario titolo alle scelte delle amministrazioni comunali, posizioni che riprendevano i temi a lui particolarmente cari, tra cui l’igiene pubblica e il problema abitativo, vera emergenza di una Milano in vertiginosa ascesa demografica a causa dell’immigrazione. Filippetti sostenne la necessità di edificare case d’abitazione decorose e non solo case fatte per “trarre il maggior frutto possibile dal capitale impiegato” (pag.31), sottolineando che solo l’ente pubblico sarebbe stato in grado di costruire per le classi popolari. Inoltre cercò di promuovere il controllo delle condizioni di lavoro in alcuni stabilimenti milanesi e si adoperò per l’introduzione del riposo domenicale. Altro grande tema a lui caro fu, come già ricordato, la lotta all’alcolismo a cui dedicò energie e lavoro fondando associazioni, promuovendo conferenze, diffondendo informazioni e legandosi a iniziative simili in altri paesi europei.

Evolveva, nel frattempo, anche la sua posizione all’interno del PSI: da sempre collocato nell’area riformista e legato a Turati non solo da consonanza politica ma anche da sincero affetto, il suo impegno pacifista (vicinissimo al pensiero e all’attività di Ernesto Teodoro Moneta) lo portò – a partire dalla guerra libica – ad assumere posizioni via via sempre più “radicali” e di netta opposizione alle politiche belliciste sempre più diffuse nello scacchiere nazionale e internazionale. Ma fu soprattutto con lo scoppio della Grande guerra che la distanza politica con i riformisti del partito si accentuò sino al limite della rottura, tanto che Filippetti si avvicinò sempre di più all’ala massimalista. Da quel momento, le sue scelte si intrecciarono con le vicende del Partito Socialista Italiano e con la sempre più difficile convivenza tra le sue diverse anime, che causò negli anni seguenti una serie di laceranti divisioni e scissioni.

La figura di Filippetti riassumeva in parte queste “contraddizioni”: il tema dirimente del pacifismo, la necessità di creare un sistema di arbitrato internazionale e l’opposizione totale alla guerra si scontravano con le posizioni (secondo alcuni ambigue) del “né aderire né sabotare” sostenute da Turati – con il quale, va detto, rimase intatto il rapporto di stima e affetto –  e dai riformisti. Dopo le elezioni del 1920, e dopo che Caldara ebbe chiarito di non essere disponibile per un nuovo mandato, data anche la consistenza minoritaria della presenza riformista tra gli eletti in Consiglio Comunale, la figura di Filippetti – che intanto aveva partecipato alla nascita della Lega dei medici socialisti italiani – divenne il “compromesso possibile” per avviare una nuova pagina dell’amministrazione socialista del Municipio milanese. Sin dall’insediamento tuttavia, emersero con chiarezza e virulenza i problemi che la Giunta avrebbe dovuto fronteggiare, primo fra tutti l’indebitamento senza precedenti del Comune, causato dallo sforzo straordinario degli anni di guerra. Ma, soprattutto, la nuova amministrazione venne costantemente e deliberatamente osteggiata da una parte dell’opinione pubblica cittadina capitanata dal Corriere della Sera, dalla Giunta Provinciale Amministrativa (organo di controllo delle finanze comunali, spesso strumento per modificare radicalmente le previsioni di bilancio e le voci di spesa) e dal prefetto Lusignoli, la cui posizione si andò spostando sempre più sino ad un inequivocabile sostegno al fascismo, fascismo che proprio su Milano puntò le attenzioni in vista della presa del potere, nonostante in città non godesse di un sostegno particolarmente forte. Non ultima l’opposizione a sinistra del Partito Comunista d’Italia, nato nel 1921 e guidato a Milano dall’ala più radicale che faceva capo a Bruno Fortichiari, indebolì ulteriormente la Giunta e la posizione di Filippetti. Va detto che sin dal suo insediamento, in una città il cui clima politico si era fatto estremamente esacerbato e a continuo rischio di scontri violenti, il sindaco aveva affermato che nella visione del socialismo italiano il Comune era un organismo di lotta, antagonista dello Stato, portatore delle necessità e delle richieste politiche del proletariato contro la borghesia e i suoi organi di governo. Una posizione del genere, seppure da leggere anche come messaggio e posizionamento all’interno del PSI, non poteva non provocare grandi proteste da parte del Corriere della Sera da un lato e del Prefetto Lusignoli dall’altro, senza dimenticare la campagna condotta con virulenza dal mussoliniano Popolo d’Italia.

Da qui in poi, ogni atto dell’amministrazione venne criticato e messo in discussione: dalle decisioni più ovvie e scontate a quelle più rilevanti, soprattutto in occasione delle approvazioni dei Bilanci, tutto l’operato dell’amministrazione Filippetti venne messo sotto la lente d’ingrandimento, costantemente denigrato  da campagne di stampa e di opinione ben orchestrate. L’analisi precisa di ciò che portò, il 3 agosto 1922, all’assalto di Palazzo Marino da parte dei fascisti e alla rimozione di Filippetti dalla carica di sindaco e dell’intera sua Giunta, mostrano con chiarezza la complicità di funzionari dello Stato – Lusignoli su tutti – con il fascismo e con la presa del potere da parte di una forza chiaramente eversiva. Il Comune venne affidato ad un commissario fino alle elezioni del 1922, che videro la vittoria della lista del Blocco Nazionale voluta dai fascisti, mentre i socialisti si presentarono divisi. Malgrado tutto, Filippetti decise di provare ad entrare di nuovo in consiglio comunale presentandosi nelle liste del Partito Socialista Unitario: un ritorno alle origini, dunque, per l’esponente che, anche da massimalista, aveva sempre cercato di garantire l’unità del partito e di non emarginare la parte riformista. Nuovo sindaco di Milano fu nominato Luigi Mangiagalli, medico di fama, con il quale Filippetti aveva ingaggiato numerose polemiche e battaglie, avendo idee completamente diverse dalle sue sul ruolo della medicina.

Negli anni seguenti, con il fascismo che si andava facendo regime, Filippetti abbandonò la politica attiva, pur continuando a professare le sue idee; si dedicò esclusivamente alla sua attività di medico all’Ospedale Maggiore fino al 1926 quando chiese il collocamento a riposo. L’attenzione della polizia di regime si riaccese su di lui nel 1927, dopo la fuga dall’Italia di Filippo Turati e di nuovo nel 1930 a causa della partecipazione ai funerali di Giovanni Pirri, esponente del “socialismo medico” con cui aveva condiviso molte battaglie. Negli anni successivi Filippetti poté tornare a spostarsi liberamente poiché venne revocato il provvedimento di ammonimento ed egli riprese quindi a viaggiare in Italia e all’estero. Morì a Milano il 10 ottobre 1936. Ai suoi funerali, svoltisi in forma civile, parteciparono circa 700 persone, tra cui Emilio Caldara, Lodovico D’Aragona, Nino Levi, il vecchio Bruno Fortichiari e numerosi tramvieri dell’Azienda del Tram, che Filippetti aveva difeso in occasione dello sciopero del 1° maggio 1922.

Nella molteplicità degli interessi e dei temi che caratterizzarono l’esperienza personale e politica di Filippetti, due emergono con grande chiarezza: una sanità pubblica ben funzionante in grado di curare e prevenire e la necessità di garantire abitazioni decorose a tutti i cittadini. Riecheggiano qui i temi centrali delle amministrazioni milanesi e lombarde contemporanee: sintomo, da un lato, della grande modernità di Filippetti e, più in generale, della riflessione socialista di inizio Novecento e, dall’altro, della persistenza di alcuni nodi problematici nella nostra storia cittadina e nazionale. In tema di “modernità”, inoltre, vale la pena di ricordare che, come confermato anche da un appunto trovato nell’archivio Filippetti, la sua Giunta aveva discusso della costruzione di una linea di “ferrovia metropolitana”, il cui tracciato non si discostava da quello delle attuali linee di metrò cittadine. Infine, grande modernità emerge anche nelle scelte personali e intime della coppia formata da Angelo Filippetti e dalla sua compagna Vittoria Usuelli, i quali convissero ed ebbero una figlia, Giulia, senza essere sposati (a causa di un matrimonio precedente di Vittoria): condizione senza dubbio non usuale nell’Italia d’inizio secolo, ma fieramente condivisa da un’altra coppia, emblema del socialismo italiano, formata da Anna Kuliscioff e Filippo Turati.

La parte finale del libro ospita, come ricordato, due brevi testi di Andrea Torre e Andrea Jacchia e una bella selezione di documenti e fotografie provenienti dall’archivio Filippetti, archivio che conserva tra l’altro il quaderno di ricette della famiglia: bellissima testimonianza di cultura materiale di una famiglia laica, borghese, socialista, cosmopolita della Milano prefascista.

di Paola Signorino

 

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