Chiara Colombini, in un volume Laterza dal titolo volutamente provocatorio che s’inserisce nella serie Fast Checking a cura di Carlo Greppi (su cui si tornerà nei prossimi tempi), ci ricorda cosa è stata davvero la Resistenza e come, a più riprese e fino ai giorni nostri, sia stata delegittimata da più parti con intenti spesso ignobili. Oggi l’antifascismo non sembra essere più il valore fondante della nostra Repubblica democratica ma, ripercorrendo le accuse rivolte alla Resistenza fin dall’immediato secondo dopoguerra e dalla parte iniziale della Guerra fredda, Colombini dimostra che la destra politica del III millennio, sia pure non completamente, è figlia di atteggiamenti propri del fascismo storico e dei suoi eredi.
In sei capitoli, preceduti da una bella introduzione che spiega l’intento della pubblicazione con chiarezza, cioè quello di tornare alla storia e di opporsi a ogni forma di propaganda, contestualizzando adeguatamente una vicenda molto complessa senza evitare domande scomode e argomenti scottanti, Colombini riprende le accuse che ciclicamente sono state rivolte ai partigiani non soltanto dai fascisti dichiarati, ma anche dalle varie tipologie di qualunquisti e dalla cosiddetta “maggioranza silenziosa”: Tutti rossi; Inutili e vigliacchi; La violenza è colpa loro; Rubagalline; Assassini; La storia la scrivono i vincitori.
Colombini, che per numerosi aspetti s’inserisce nel profondo solco storiografico tracciato da Claudio Pavone, Giovanni De Luna e Santo Peli (con i dovuti distinguo), riprende molti temi scomodi da decenni oggetto di polemiche e dibattiti anche molto aspri smascherando il vittimismo dei vinti, che hanno sempre pubblicato libri e avanzato, quando non urlato, le proprie ragioni ben prima del discutibile revisionismo di Pansa. Colombini parla, con dati alla mano e non per allusioni o improvvisazioni, del numero dei partigiani, crescente durante i venti mesi che portarono alla Liberazione, e del loro effettivo peso militare; delle ragioni (varie) della loro scelta; della drammatica condizione degli IMI (gli internati militari italiani che non accettarono di schierarsi con i nazifascisti dopo l’8 settembre); delle diverse radici ideologico-culturali dei giovanissimi combattenti. Con la felice espressione “concordia discorde” Colombini mette in evidenza le difficoltà di convivenza tra le anime della Resistenza, fenomeno plurale ma non privo di criticità per via degli obiettivi ultimi delle forze politiche che la animarono: rivoluzione democratica per gli azionisti, rivoluzione comunista o socialista per i partiti operai, ritorno all’Italia liberale per i moderati e così via, pensando alle posizioni di una DC non esattamente unita al suo interno (lasciò libertà di voto al referendum del 2 giugno 1946) o dei partigiani monarchici, con la parte maggioritaria del PLI difensori dei Savoia ritenuti corresponsabili delle scelte scellerate del regime di Mussolini non soltanto dai partiti operai e dagli azionisti, ma anche anche dal PRI.
Altre questioni affrontate non sono meno importanti: i complessi rapporti dei partigiani con gli anglo-americani e con i contadini; le implicazioni della violenza (anche quella di classe), intesa come strumento di lotta politica ma anche foriera di equivoci e drammi per una parte della gente comune; le vendette, a cominciare da quelle avvenute nel Nord dopo la Liberazione, Piazzale Loreto. E ancora lo sforzo, tra qualche inevitabile contraddizione, di creare le basi per una nuova identità nazionale di fronte all’impossibilità di molti di riconoscersi nei nazifascisti ma, per vari aspetti, anche negli Alleati, portatori sì di un messaggio di libertà, ma alieno da ogni rivoluzione sociale e, si pensi a Churchill, dal mutamento della forma dello Stato e, quindi, dal sostenere la Repubblica. In questo senso, Colombini appare vicina alle recenti tesi di Giuseppe Filippetta (discusse su questa rivista), che ha visto nella ricerca soggettiva di una nuova sovranità, ancor più che nel ruolo dei partiti politici, la molla di una mobilitazione di massa, ancorché non della maggioranza guardando ai numeri effettivi di coloro che presero le armi per partecipare a una lotta armata senza esclusione di colpi.
Il tema delle rappresaglie nazifasciste è particolarmente sentito e delicato: emerge ancora e giustamente la vicenda delle Fosse Ardeatine, a cui corrisponde uno dei più grandi falsi storici costruiti in Italia al quale in molti, pur senza alcun tipo di riscontro (basti pensare alle dichiarazioni degli stessi alti ufficiali tedeschi), continuano a credere. Cioè a quella del manifesto affisso a Roma dopo l’attentato di via Rasella che, secondo gli anti-antifascisti, avrebbe consentito agli autori dell’attacco ai tedeschi (i GAP comunisti, criticati dalle anime più moderate del Comitato di Liberazione Nazionale) di consegnarsi evitando così la reazione: il massacro di 335 persone tra partigiani, antifascisti, ebrei, militari, carabinieri e altri non riconducibili a categorie. Una terribile rappresaglia realizzata rapidamente e resa nota soltanto dopo la sua attuazione che, secondo non pochi “benpensanti”, aveva una sua legittimità. Ma questa era proprio la logica di Kappler, di Kesserling e dei loro camerati (tedeschi e italiani), protetti durante la Guerra fredda nel nome dell’anticomunismo e della necessità di “salvaguardare” l’Occidente dai pericoli di una rivoluzione mai tentata in Italia e, fin dalla svolta di Salerno dell’aprile del 1944 (quando Togliatti rientrò in patria dopo diciotto anni), non coerente con la divisione dell’Europa in due blocchi che fu sancita in via definitiva a Yalta nel 1945.
Inevitabili i riferimenti di Colombini alla difficoltà di coltivare una memoria condivisa (a ben vedere come potrebbe esistere?) e alla surreale accusa rivolta ai partigiani di non aver condotto una guerra “alla luce del sole”. Come se un esercito regolare dotato di reparti speciali (abituato a uccidere la gente comune per uno sguardo e a torturare gli oppositori) avesse il legittimo monopolio della violenza e i civili, oltre ai militari sbandati considerati traditori, non avessero il diritto di combattere contro gli occupanti costruendo il loro futuro e dovessero solo attendere le sorti di un conflitto più ampio. Ma in altri paesi, come la Francia, la Grecia e la Jugoslavia, non si verificarono fenomeni simili che indicavano la volontà di scegliere il proprio futuro non solo per militanti politici di lungo corso? Oppure sarebbe stato più “dignitoso” aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Junio Valerio Borghese e Rodolfo Graziani, criminale in Africa e in Italia, poi amnistiato al pari di altri alti ufficiali che mostrarono un’agghiacciante concezione dell’onore e che non soltanto rimasero ben poco in carcere, ma che (in mancanza di una vera epurazione, rivelatasi inattuabile) spesso andarono incontro a una nuova stagione di protagonismo politico, sempre nel nome di una pacificazione strumentale ai nuovi equilibri della Guerra fredda?
Giunti alla fine del libro, vengono in mente due scrittori che ci hanno fatto capire come la fantascienza e i romanzi spesso siano stati l’anticipazione della realtà o la sua più esatta descrizione. Philip Dick ci parla ancora oggi di Resistenza e di ricerca della coscienza (“lo strumento basilare per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se controlli il significato delle parole, puoi controllare le persone che devono usare le parole”); George Orwell ci ricorda cos’è stato il totalitarismo e quali sono i rischi ai quali andiamo incontro oggi nell’era del digitale, in cui conta soltanto l’attimo (“se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera”). Entrambi ci invitano a non distrarci e a rimanere vigili, nel nome della storia.
di Andrea Ricciardi