Carissimo, pei tuoi ottanta anni i miei auguri più sinceri. Seguo con interesse la battaglia che vai combattendo e, pur non condividendone gli orientamenti, me ne compiaccio perché mi dice che gli anni non ti pesano troppo. Il che non è disprezzabile vantaggio. E allora avanti. Ti chiederai perché ci si debba trovare oggi non su opposte ma diverse posizioni nel difficile viaggio che ci impone la tempestosa situazione storica. Ciò è dovuto forse alla valutazione, per me negativa, che mi sento costretto a fare non della situazione, ma degli uomini in genere che la impersonano. L’esperienza vissuta mi ha insegnato che il nostro paese – fatte scarsissime eccezioni, che perciò stesso poco contano – è ancora astronomicamente lontano dal sapere che cosa sia il vivere libero. Lo dimostra la faziosità con cui si esprime, la mafiosa concezione con cui individui, gruppi, sindacati, partiti (e in testa a tutti la chiesa) cercano di arraffare benefici e potere l’uno a danno dell’altro, senza una esatta e operante visione del bene pubblico.
Comincia così, con la consueta verve dell’osservatore politico di lungo corso, la lettera – inventariata nella busta 33, fascicolo 5 del Fondo archivistico conservato alla Società Umanitaria di Milano – che Riccardo Bauer inviava a Ferruccio Parri il 18 gennaio 1970. La lettera precedeva di un giorno la data del compleanno dell’amico fraterno, in un periodo non particolarmente felice né per Bauer (dopo le infamanti accuse mossegli durante l’occupazione dell’istituzione milanese, a cui aveva donato la sua intera esistenza, si era dovuto dimettere), né per Parri, ormai fuori dai giochi della politica, nonostante l’incarico di “guida” della Sinistra Indipendente, che si mantenne sempre all’opposizione durante i vari governi di centro-sinistra degli anni Sessanta e Settanta.
Il loro era ormai un sodalizio di ferro, dato che i due si conoscevano da quasi cinquant’anni, esattamente dal 1923, quando Bauer aveva incontrato il futuro “Maurizio” nella redazione del Corriere della Sera, dove si era recato per illustrare i programmi del Museo sociale dell’Umanitaria, che lo aveva assunto, fresco di laurea alla Bocconi, nel dicembre del 1920.
Da quell’incontro casuale nella sede del quotidiano di via Solferino, a pochi mesi di distanza dalla marcia su Roma, nell’Italia già infognata nel fascismo, Parri e Bauer avrebbero capito presto che avevano le stesse priorità politiche, la stessa inclinazione liberal-democratica. Questo li avrebbe portati a condividere scelte di vita coraggiose, che ne avrebbero delineato il carattere indomito, mai incline al compromesso. A cominciare dalla fondazione della rivista d’opposizione Il Caffè che, dal luglio del 1924, li avrebbe messi inevitabilmente all’indice dal regime. E poi – dopo la chiusura annunciata del loro quindicinale – entrando nella rete antifascista di Giustizia e Libertà, consapevolmente impegnati ad operare clandestinamente (come nell’organizzazione della fuga di Turati in Francia), pronti a tutto pur di contrapporsi alla dittatura delle camicie nere, anche a costo di passare lunghi periodi in carcere e confino (quasi quindici anni per Bauer) o di essere imprigionati e pesantemente maltrattati (la sorte di Parri, già alla testa del CLNAI, dopo esser stato catturato dalle SS il 2 gennaio 1945).
Entrambi esponenti di spicco del Partito d’Azione, benché talvolta su posizioni non proprio coincidenti, il legame che li unì fu davvero fortissimo ed è testimoniato dalla loro corrispondenza, abbastanza consistente (una cinquantina di lettere), prima e dopo la Liberazione. Ad esempio (busta 32, fascicolo 35), durante il confino a Lipari Parri scriveva a Bauer, da poco tornato in libertà, il 14 giugno 1928, con una serenità d’animo quasi inaspettata:
Ti comprendo bene, vecchio gatto spelacchiato. C’è forse questa differenza: che io sono così disincantato e mi attendo così poco dagli uomini che mi sono contemporanei – e non solo contemporanei, del resto – che ritrovo qualche zona se non di consolazione, per lo meno di quasi serena contemplazione. […] Ma perché io ti sto sermoneggiando? Perché ti voglio bene, anche se sei così dotto e saputo da farmi crepar di invidia. […] Addio, bello. Coraggio e muso duro. Aff.mo Ferruccio.
Allo stesso modo, ma circa quattro decadi dopo, il 12 ottobre 1965 (quando il nostro Paese stava uscendo dal miracolo economico), in una lunga lettera dove aveva voluto condensare il suo pensiero sulla posizione del PSI nel governo di centro-sinistra, Bauer lasciava trasparire il suo sdegno verso un’Italia lontana anni luce da quella che, sacrificandosi a oltranza, aveva desiderato, con Parri e i tanti combattenti per la libertà:
Subordino ogni definitivo giudizio alle esigenze concrete della lotta politica che si dipana nella realtà di un paese come il nostro, in cui ignoranza politica, vacuo ideologismo, ipocrito bigottismo, massimalismo di maniera, conformismo di furbastri e diffusa disonestà sono gli elementi operanti in prevalenza.
La diffidenza rispetto ai loro contemporanei, a proposito della demagogia e della retorica che animava partiti e chiese varie (“il comodo procedimento manicheo col quale si addossa ogni vizio ad una parte, all’altra – la propria – attribuendo ogni virtù”), fu quasi il leit motiv di tutta la loro corrispondenza. Ce ne si può rendere conto in un’altra parte della lettera del gennaio 1970, quando Bauer (ormai giunto sulla soglia dei settant’anni) senza mezzi termini denunciava l’incresciosa impasse della classe politica, che aveva causato alla nazione un “handicap di bassezza politica e morale”:
Il problema politico attuale non può essere affrontato sulla base di una bugiarda dicotomia sociologica, bensì tenendo conto delle tare cancrenose di cui tutta la vita italiana, in tutte le sue articolazioni, soffre. Per cui suonano falsi e ingannatori gli accenti di rinnovamento che fanno conto su una parte, che si presume efficiente ed onesta senza limitazione, su forze che si autodefiniscono illuminate e portatrici di una verità, di idee non soggette a dubbio di sorta. […] Pur guardando lontano a radicali rinnovamenti, penso si debba procedere con estrema cautela, cercando di non perdere anche quel poco di libertà che ancora ci resta, per evitare conquiste che possano essere ben presto seguite da un colossale fallimento, dovuto appunto alla pessima qualità del materiale umano che le opera.
Ma c’è di più. Tra le carte conservate nel Fondo Bauer (busta 66, fascicolo 4, denominato “Necrologi, ricorrenze, celebrazioni per personaggi vari”) vi sono due dattiloscritti, non datati ma sicuramente successivi alla scomparsa di Parri, in cui la stima di Bauer per il compagno di lotta e di partito riluce nella pienezza dei sentimenti di amicizia, di fraternità, di lealtà, quasi come contraltare di un paese “diseducato da una lunga storia di servitù e da una recente corrodente esperienza di viltà politica”. Proprio come Parri considerava Bauer “il maestro dei giovani per la sua intransigente fermezza e unità dei principi”, in queste pagine la profondità della figura di Parri emerge con la stessa forza evocativa con cui Bauer ne aveva evinto, e difeso, l’integrità politica durante la causa per diffamazione che Parri aveva intentato nel 1949 contro la rivista I Meridiani d’Italia (nello stesso anno Parri decise di fondare l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia).
In questi dattiloscritti (che saranno oggetto, in futuro, di circostanziata analisi in questa sede), pur nel biasimo verso l’ignavia di una classe politica che la fine del fascismo non aveva cancellato, anzi pareva aver rinvigorito, Parri rivive come “vedetta di una illuminante idea di libertà”: con il suo esempio allontana “il dramma che l’Italia visse precipitando in vergognoso servaggio” e con la sua adamantina mazziniana coscienza del dovere “rimane una preziosa eredità per le giovani generazioni, che così tortuosamente vanno cercando una via d’uscita dalla nebbia di un fare politico oscillante”.
Parri e Bauer: due voci indimenticabili di autentici educatori di democrazia.
Appendice
Lettera di Riccardo Bauer a Ferruccio Parri del 18 gennaio 1970
Carissimo, pei tuoi ottanta anni i miei auguri più sinceri. Seguo con interesse la battaglia che vai combattendo e pur non condividendone gli orientamenti me ne compiaccio perché mi dice che gli anni non ti pesano troppo. Il che non è disprezzabile vantaggio. E allora avanti.
Ti chiederai perché ci si debba trovare oggi non su opposte ma diverse posizioni nel difficile viaggio che ci impone la tempestosa situazione storica.
Ciò è dovuto forse alla valutazione, per me negativa, che mi sento costretto a fare non della situazione ma degli uomini in genere che la impersonano. L’esperienza vissuta mi ha insegnato che il nostro paese – fatte scarsissime eccezioni, che perciò stesso poco contano – è ancora astronomicamente lontano dal sapere che cosa sia il vivere libero. Lo dimostra la faziosità con cui si esprime, la mafiosa concezione con cui individui, gruppi, sindacati, partiti (e in testa a tutti la chiesa) cercano di arraffare benefici e potere l’uno a danno dell’altro, senza una esatta e operante visione del bene pubblico.
Pur rendendomi conto che la politica è dialettica di interessi contrastanti, credo che una visione armonica e globale, e soprattutto razionale, di tali interessi sia possibile e dovrebbe controllare e contenere ogni cieco particolarismo. Si avrebbe una azione politica più equilibrata alle reali capacità che si vanno faticosamente esprimendo; un fare più modesto, paziente ma metodico e costruttivo e non di rapina come è di fatto.
Ciò per altro richiederebbe una aperta e realistica coscienza della necessità di ripudiare ogni demagogica impresa, mentre il gusto della demagogia è proprio caratteristico di quella immaturità di cui ho detto. Un circolo vizioso, dunque, che non consente ottimismo alcuno, che costringe a riconoscere che dall’attuale impasse non si uscirà che a prezzo di lentissime, lunghissime esperienze e dolorose prove.
Prospettiva punto lieta che non consente le facili illusioni dell’anacronistico rivoluzionarismo oggi di moda. Al quale mi pare tu conceda un credito che va al di là di quanto meriti.
Denunziare l’inefficienza e la disonestà della pubblica e privata amministrazione, la giustizia di parte e il regime tributario iniquo, la mentalità feudale dei capitalisti imprenditori ed il loro disonesto parassitismo, è facile impresa, tanto frequenti sono gli episodi che stanno a rivelarne la realtà; difficile invece è dire come si possa superare questo nazionale handicap di bassezza politica e morale.
Non credo vi si riesca comodamente attribuendo tutto il male, tutti gli aspetti negativi ad una parte, secondo l’ormai vieto criterio classista, dimenticando che l’insufficienza della pubblica amministrazione ad es. è pur fatta della ignoranza, della disonestà e della poltroneria dei suoi funzionari; che ignoranza e peggio sono anche nelle masse e che sindacati e partiti – che di esse e dei loro interessi si fanno paladini – troppo somigliano a macchine per lo spaccio di retoriche e bugiarde promesse per l’acquisto di popolarità che consenta la occupazione di comode poltrone.
Il comodo procedimento manicheo col quale si addossa ogni vizio ad una parte, all’altra – la propria – attribuendo ogni virtù, consente la prospezione di palingenetici rimedi per ogni problema, destinati per altro a rivelarsi fallaci quando, essendo posti in atto, non si tarderà ad accorgersi che con un materiale umano non diversamente deteriore nessun geniale o razionale strumento nuovo può realmente risultare efficiente.
Il problema politico attuale non può essere affrontato sulla base di una bugiarda dicotomia sociologica, bensì tenendo conto delle tare cancrenose di cui tutta la vita italiana, in tutte le sue articolazioni, soffre. Per cui suonano falsi e ingannatori gli accenti di rinnovamento che fanno conto su una parte, che si presume efficiente ed onesta senza limitazione, su forze che si autodefiniscono illuminate e portatrici di una verità, di idee non soggette a dubbio di sorta. Il rinnovamento deve essere generale ed anzitutto procedere da una rigorosa volontà di concretezza, dal rigetto di ogni demagogica ampollosità.
Pur guardando lontano a radicali rinnovamenti, penso si debba procedere – rebus sic stantibus – con estrema modestia di intenti, con cautela, cercando di non perdere anche quel poco di libertà che ancora ci resta, per evitare conquiste che possano essere ben presto seguite da un colossale fallimento, dovuto appunto alla pessima qualità del materiale umano che le opera.
Convinto come sono che storicamente ci si avvia di necessità verso forme di organizzazione economica e sociale collettivizzate, pavento quanto venga fatto in quella direzione con improvvisazione facilona suggerita dal demagogico non meditato entusiasmo delle mezze culture. Perché so che un fallimento si paga con ritorni recuperabili solo a prezzo di esperienze tragiche.
Per questo ritengo l’ordinamento e il metodo democratico lo strumento, anche se lento, più efficace per quell’avanzamento costante degli istituti commisurato alla adeguata maturazione degli uomini che li servono e se ne servono. Ma se si sceglie il metodo democratico, bisogna accettare pienamente le regole del gioco e non forzarne gli strumenti con la falsa democrazia della piazza in sostituzione di quella delle urne e del parlamento. E a questa falsa democrazia bisogna dire senza indulgenza alcuna che è falsa, ripudiando ogni ambigua forma di comprensione e di valutazione.
Ciò è difficile in un paese come il nostro che di retorica massimalistica è affamato; in un paese dove tutti si sentono umiliati se non sono catalogati come rivoluzionari, anche se di rivoluzione solo sanno blaterare; in un paese dove la verità, come la legge, viene concepita e interpretata secondo utilità.
Ed è appunto questo che mi fa essere assai pessimista sia circa la situazione attuale, sia nei riguardi di quella qualunque altra situazione che possa sostituirla. La demagogia o costruisce castelli di cartapesta o determina la più stolida reazione. E così sto a guardare con molto schifato distacco il gioco dei partiti e delle forze politiche in cui non tanto si bada all’essenziale ma si imbastiscono crisi sulle frange di personali atteggiamenti e interessi; non tanto si studiano concreti provvedimenti, ma si prendono posizioni anche contro ogni positivo criterio purché servano a quella peste della “pubblicità” che ormai ha infettato anche la vita politica.
Dirai che questo mio atteggiamento deriva da stanchezza: no, deriva da una realistica considerazione e misura della scarsa serietà e capacità della maggior parte dei nostri concittadini. Ovviamente la loro incapacità non può guarire se non mediante l’esperienza operata con quelle forze e con quei difetti di cui dispongono: si impara a nuotare buttandosi in acqua, il che per altro non risparmia solenni bevute.
Nei casi di chi non abbia, come il sottoscritto, l’uzzolo della politica di partito, non resta che dire – come e quando si può – la verità in faccia a tutti senza indulgenza. È quello che cerco di fare in ogni occasione, in attesa di un più soddisfacente avvenire, che però noi non vedremo perché troppo lontano.
Ancora molti affettuosi auguri e saluti. Riccardo.
di Claudio A. Colombo